Precari per sempre?
Città della Spezia, 25 maggio 2014 – Con il “decreto lavoro” i contratti a termine sono diventati “acausali”, vale a dire possono essere conclusi senza una motivazione specifica anche se l’esigenza lavorativa che il lavoratore è chiamato a soddisfare non è temporanea ma permanente. E’ allora innegabile che il contratto a termine “acausale” abbia una sola finalità: quella di tenere il lavoratore sotto il perpetuo ricatto del mancato rinnovo, né il lavoratore può sperare nella regola per cui dopo 36 mesi dovrebbe passare comunque a tempo indeterminato, perché per questo occorrerebbe che il datore gli facesse un ulteriore contratto che invece non gli farà mai, potendo assumere al suo posto un nuovo precario. La flessibilità si è tramutata in precarietà: precarietà nel lavoro che diventa in fretta precarietà esistenziale nella vita delle persone. Su questo punto il decreto del Governo Renzi si pone in stretta continuità con i provvedimenti del Governo Monti e li peggiora.
Siamo di fronte a un nuovo passo nella direzione della liberalizzazione dei contratti a termine di cui le imprese hanno abusato in questi anni senza riuscire, tuttavia, a creare nuova occupazione stabile, né ad avviare una nuova stagione di sviluppo. Ora un imprenditore potrà assumere un lavoratore con un contratto a tempo, senza causale; questo rapporto potrà durare tre anni con cinque proroghe; l’imprenditore non dovrà motivarle e non dovrà rispettare lo Statuto dei lavoratori. Per i tre anni del possibile contratto il lavoratore precario non sarà tutelato dall’articolo 18, ormai largamente svuotato, grazie al Governo Monti, del suo valore originario che era quello di impedire licenziamenti ingiustificati, discriminanti o comportamenti vessatori da parte del datore di lavoro. Il precario, dunque, avrà il contratto a termine fino a tre anni, se gli va bene, e potrà essere mandato a casa con un tweet, segno della modernità trionfante. Non essendoci alcun vincolo all’assunzione definitiva, al termine del triennio il lavoratore potrà ricominciare lo stesso iter con un altro datore, con un infinito gioco dell’oca della precarietà. E lo stesso datore, passato il triennio, potrà ricominciare il gioco con un altro lavoratore, e persino con il medesimo per mansioni diverse.
Quando, pochi mesi fa, il segretario del Pd Renzi aveva chiesto al Governo Letta una svolta sulle politiche per il lavoro, gli avevo voluto credere. Nel suo sito Renzi aveva annunciato che il Jobs Act avrebbe contenuto sette piani industriali “con indicazione delle singole azioni operative e concrete necessarie a creare posti di lavoro” (di cui non c’è ancora traccia), mentre sul tema delle regole aveva affermato: “Riduzione delle varie forme contrattuali, oltre 40, che hanno prodotto uno spezzatino insostenibile. Processo verso un contratto di inserimento a tempo indeterminato a tutele crescenti”. Ma il “decreto lavoro” è andato nella direzione contraria. La motivazione è stata: così “sveglieremo” il mercato del lavoro e le imprese, e creeremo occupazione.
Bisogna, però, porsi qualche domanda. Che senso ha introdurre nel sistema ulteriori forme di flessibilità del lavoro quando si perdono centinaia di migliaia di posti? Perché la flessibilità già esistente in Italia, la più varia e articolata, non è riuscita ad arginare l’emorragia di 1,8 milioni di occupati tra il 2007 e il 2013? Alcune ricerche hanno rilevato che una maggiore precarietà dei contratti può addirittura determinare più disoccupazione. Anche Olivier Blanchard, capo economista del Fondo Monetario Internazionale, è arrivato a riconoscere che non vi è una precisa correlazione tra flessibilità e riduzione della disoccupazione. La ragione sta nel fatto che i contratti precari da un lato possono spingere le imprese a creare posti di lavoro in una fase di crescita economica, ma dall’altro consentono alle aziende di distruggere facilmente quei posti di lavoro nelle fasi di crisi, come è accaduto in Italia in questi anni, quando i primi licenziati sono stati i precari. Cito un’altra fonte non sospetta, il “Financial Times”: la flessibilità funziona quando il ciclo economico tira, ma non è in grado di proteggere i lavoratori dalla recessione. Quindi oggi la flessibilità non favorisce le imprese virtuose, che investono sulla qualità del lavoro e della produzione, ma diventa, per le imprese che hanno rinunciato a ricerca e innovazione, una scorciatoia per recuperare margini di competitività sulla pelle dei lavoratori. La flessibilità, sostituendo il lavoro (poco qualificato) al capitale e alla tecnologia, erode la produttività, mantiene le imprese (in particolare quelle piccole) in uno stato di precaria sopravvivenza, con il rischio della disintegrazione del sistema produttivo e occupazionale italiano.
Nel nostro Paese le perdite occupazionali sono state colossali, di proporzioni storiche. Non serve a nulla agire sulle regole, serve invece una nuova politica economica pubblica, da tradursi in un Piano per il lavoro e in politiche industriali per la reindustrializzazione e la terziarizzazione qualificata dell’Italia, in un quadro che preveda anche la riduzione degli orari di lavoro e la redistribuzione del lavoro. E’ qui che si gioca la partita decisiva, ed è qui che è richiesto il rovesciamento della visione culturale neoliberista, ancora dominante nelle classi dirigenti italiane, anche di centrosinistra. La vera sfida per la rinascita della politica e la rimotivazione della sua funzione passa per il ridisegno del governo pubblico della crescita sostenibile dell’economia e dell’inclusione social-generazionale, guidato dall’ambizione di assalire l’Italia delle diseguaglianze e del furto di futuro subito da un’intera generazione.
Il problema è certamente italiano, ma è certamente anche europeo. La crisi avrebbe imposto, sin dall’inizio, una diversa strategia e azione in Europa, anche da parte della socialdemocrazia. Non avremmo avuto quelle devastanti politiche di austerity che si sono compiute in tal misura in Europa e solo in Europa. Non in America, dove la crisi è generata, né in altre aree del mondo dove il contagio l’ha esportata. Non c’era alcuna strada obbligata da percorrere, non è vero che “non c’è alternativa”. Il tema l’ha posto in modo sferzante Jurgen Habermas, forse il più grande filosofo vivente, nel suo intervento al seminario di Postdam della Spd, il partito socialdemocratico tedesco. La sua è stata una provocazione meditata: “La Germania ha raggiunto di nuovo una posizione semiegemonica in Europa che non è nel nostro interesse nazionale; è la posizione che ha aperto la strada a due guerre mondiali ed è stata superata solo attraverso l’unificazione europea… La posizione tedesca è stata raggiunta senza e contro la legalità e legittimità democratica, tutte le decisioni chiave sono state prese in condizioni di emergenza e tramite un meccanismo interstatale privo di legittimità… Questa strada ha avuto conseguenze indicibili nei Paesi in crisi, umilia le nazioni e genera ondate di nazionalismo che potrebbero andare fuori controllo”. Meglio di così non si potrebbe dire, contro l’austerity della “Troika” e contro l’interpretazione tedesca della crisi. La grande questione che sta davanti al socialismo europeo è questa: come si può criticare l’austerity e averla condivisa, come si può uscire dall’austerity praticando una collaborazione duratura con i conservatori? È la contraddizione, non risolvibile, dell’editoriale di domenica scorsa di Eugenio Scalfari su “Repubblica”: “votate Schulz per fare le grandi intese tra socialisti e popolari”. Ma come è possibile, in questo modo, cambiare davvero politica? Il senso della candidatura di Alexis Tsipras si colloca esattamente qui. Essa non è solo il simbolo del bisogno di rinascita di un popolo che la miseria delle classi dirigenti europee ha spinto fino al collasso sociale, è anche il simbolo del progetto di un’altra Europa. E chiama il Partito Socialista Europeo a un confronto stringente. Perché non vuole dividere la sinistra, ma dividere la sinistra dalla destra.
lucidellacitta2011@gmail.com
Popularity: 4%