Presentazione di “Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista” di Dino Grassi, Venerdì 22 novembre ore 17 al Palazzo Ducale di Massa
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Presentazione di
“Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista” di Dino Grassi
Venerdì 22 novembre ore 17 al Palazzo Ducale di Massa
Massa, Palazzo Ducale – Sala della Resistenza
Il libro di Dino Grassi “Io …

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Piketty, il partito della Nazione e i partiti della Costituzione

a cura di in data 13 Giugno 2014 – 07:52
Alta via dei Monti Liguri, Passo del Rastrello: Monumento ai Caduti delle Brigate Partigiane per la Resistenza della Spezia, Massa Carrara e Parma (2005) (foto Giorgio Pagano)

Alta via dei Monti Liguri, Passo del Rastrello:
Monumento ai Caduti delle Brigate Partigiane per
la Resistenza della Spezia, Massa Carrara e Parma (2005)
(foto Giorgio Pagano)

Città della Spezia, 8 giugno 2014 – Prima in Francia, poi in America, il fenomeno editoriale dell’anno, acclamato e in testa alle classifiche di vendita, è senza dubbio “Il Capitale nel XXI secolo”, dell’economista francese Thomas Piketty. Il grande merito del libro è aver messo le diseguaglianze sociali al centro dell’attenzione della comunità scientifica e del mondo politico. Piketty individua nello squilibrio  tra crescita economica e rendita del capitale una delle principali contraddizioni del capitalismo. Squilibrio che sarebbe responsabile di un aumento quasi meccanico dei grandi patrimoni, la cui inesorabile progressione minaccia sempre più i valori di eguaglianza e di giustizia sociale su cui poggiano le società democratiche. Il nucleo sostanziale del “Capitale nel XXI secolo” è questo: il capitalismo è stato accompagnato da diseguaglianze estreme dalla Rivoluzione francese fino alla prima guerra mondiale; è seguito un periodo di relativo livellamento dei patrimoni e dei redditi tra le classi sociali nel XX secolo, soprattutto nel trentennio successivo alla seconda guerra mondiale; infine negli ultimi trent’anni le disparità hanno ripreso a salire a livelli estremi. “Nel periodo 1945-1980 è stato possibile ridurre le diseguaglianze -sostiene Piketty-, oggi però, finita questa fase, stiamo tornando al capitalismo delle origini, dove l’eredità aveva un peso preponderante”. E le possibili soluzioni? Leggiamo ancora l’economista francese: “Non esistono soluzioni naturali. Il sistema da solo non riduce le diseguaglianze. L’errore dei liberali è di credere che la crescita da sola possa risolvere ogni problema, favorendo la mobilità sociale. In realtà non è così. Le diseguaglianze restano e anzi si accentuano. In passato, per ridurre le diseguaglianze e mettere un freno alla concentrazione di capitali si è fatto ricorso alle imposte sul reddito e sulle successioni. Ciò ha permesso di allargare la base sociale su cui poggia il patrimonio globale. Il che dimostra che per crescere non c’è bisogno della grande concentrazione patrimoniale del XIX secolo né di penalizzare la classe media”. Certamente, continua Piketty, la cultura e l’istruzione possono contribuire a ridurre le diseguaglianze economiche, ma è comunque indispensabile agire sulla leva della tassazione: “Penso a un’imposta progressiva e trasparente sul capitale a livello internazionale. L’ideale sarebbe poter tassare tutte le grandi fortune a livello mondiale. E’ una proposta che può sembrare utopica, ma un secolo fa anche l’imposta progressiva sul reddito era un’utopia”. Piketty non è un neomarxista, ma è comunque un pensatore considerato “pericoloso” dal neoliberismo (che l’ha individuato come il nemico pubblico numero uno) perché dimostra che un capitalismo meno diseguale è possibile: tanto che è già esistito. Viene in mente un grande intellettuale inglese scomparso (un socialdemocratico, non un comunista), Tony Judt, che nel suo libro “Guasto il mondo” ha ricordato quel che fu l’austerity del dopoguerra: la ricchezza e il reddito in Gran Bretagna vennero redistribuiti con una fiscalità progressiva che oggi farebbe gridare all’esproprio. La quota del patrimonio nazionale detenuta dall’1% dei più ricchi scese infatti dal 56% del 1938 al 43% del 1954.

Spero che Piketty, una volta tradotto, abbia successo anche in Italia, e che faccia riflettere anche noi. In America Obama ha affermato che la diseguaglianza è “la sfida fondamentale del nostro tempo”, e ha preso iniziative sul minimo sindacale e la parità dei salari. Ma in Italia? Siamo un Paese in cui le diseguaglianze sociali crescono sempre di più, ma chi parla di patrimoniale è preso per pazzo: un estremista che non capisce in che mondo siamo. E alla lotta all’evasione chi governa fa qualche riferimento, per dire che è un problema serio, grave, ecc: ma poco o nulla fa per risolverlo. A sinistra non si fa che parlare di “superamento delle categorie del Novecento”, che sarebbero “inservibili”. Salvo poi ricopiare, con qualche spolverata “sociale”, le “categorie del Novecento” del neoliberismo. Io so bene che bisogna capire come è cambiato il mondo del lavoro, riformare il vecchio welfare, ridurre in modo selettivo la spesa pubblica, e così via. In questi anni ho anche provato, nel mio piccolo, a fare qualche proposta in questa direzione. Ma non bisogna dimenticare e gettare via tutto il passato. A partire dalle lotte contro le diseguaglianze combattute nel trentennio “glorioso” dopo il 1945.

Alta Via dei Monti Liguri, Passo del Rastrello: la luna, il bosco, la neve (2011) (foto Giorgio Pagano)

Alta Via dei Monti Liguri, Passo del Rastrello: la luna, il bosco, la neve (2011)
(foto Giorgio Pagano)

Se ci pensiamo bene, è questo il sentiero che ci detta la Costituzione. Domenica scorsa ero al Passo del Rastrello, a celebrare l’anniversario della Repubblica con il mondo della Resistenza; e nei giorni precedenti e successivi in alcune scuole, a parlare di Costituzione con i ragazzi e i loro insegnanti. Bisognerebbe davvero che i nostri politici, al governo e all’opposizione, leggessero la nostra legge fondamentale, che contiene l’insieme delle regole alle quali deve conformarsi il potere. Molti non l’hanno mai letta, molti l’hanno dimenticata. E’ un testo attualissimo, ma ignorato, disapplicato, quando non avversato. Pensiamo all’eguaglianza, principio fondamentale della Costituzione: l’eguaglianza formale o giuridica, secondo cui tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge, e l’eguaglianza sostanziale, secondo cui la legge deve garantire il rispetto della persona umana nella società. Eguaglianza di fronte alla legge ed eguaglianza di fronte alla società, al di là delle diverse condizioni sociali. Le differenze sociali ci sono, e comportano diseguaglianze tra i cittadini. La Costituzione non lo ignora, e afferma di conseguenza: “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”. La Costituzione si impegna quindi a eliminare le differenze sociali e a tutelare le situazioni di diseguaglianza economica  nel campo della giustizia, della salute, della scuola, fino a favorire “l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese”. O, ancora, pensiamo al diritto al lavoro: la Costituzione attribuisce all’attività lavorativa un ruolo centrale nella vita dello Stato, che non è più soltanto garante dei diritti di libertà di tutti i cittadini, ma è chiamato a intervenire nei rapporti sociali per impedire il predominio del potere economico fondato sul capitale e per consentire una più equa redistribuzione dei beni economici tra le diverse classi sociali. Ecco perché “la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”. Un ultimo esempio, riguardante la libertà di iniziativa economica privata: essa non è assoluta, ma incontra limiti oggettivi nel fatto che non deve porsi in contrasto con l’utilità sociale e non deve recare danno  alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La Costituzione vuole cioè impedire che la proprietà del capitale condizioni la società civile e di conseguenza il diritto al lavoro. Nella Costituzione è ben presente la situazione concreta esistente nella società, nella quale il lavoratore è il soggetto debole rispetto all’imprenditore, soggetto forte. E la Costituzione non usa mai a caso le parole: il lavoro è definito “diritto”, mentre l’iniziativa economica è definita “libertà”, peraltro non assoluta.

Ecco qual è il problema della politica: tornare  a questa lezione, a questo “programma di governo”. Perché è solo sulla strada segnata dalla Costituzione che è possibile costruire un’altra Italia, migliore e più giusta. Oppure anche i principi della Costituzione sono “vecchie e inservibili categorie del Novecento”? Su questo serve la massima chiarezza.

Una considerazione finale: dopo il grande successo del Pd alle elezioni europee, sta prendendo campo, all’interno del suo gruppo dirigente, l’espressione “partito della Nazione”. E’ un’espressione che non condivido, perché ogni partito non è mai un “tutto”,  cioè l’interprete esclusivo dell’interesse nazionale, ma una “parte”; e la nazione si regge su un sistema composto da più “parti”, che non possono pretendere di essere qualcosa di più di questa loro “parzialità”. Queste “parti” devono competere liberamente tra loro in un campo democratico plurale, e riconoscersi in una visione condivisa di Paese, quella tracciata dalla Costituzione.  Non abbiamo affatto bisogno di un solo “partito della Nazione” ma di una pluralità di “partiti della Costituzione”. Come quei partiti che, pur in lotta tra loro, elaborarono assieme la Costituzione. Leggiamo Vittorio Foa, costituente e padre della Repubblica: “Vi è stata allora quella che si potrebbe chiamare una mente costituente, una capacità di guardare insieme agli interessi particolari, di classe o di partito, e agli interessi generali. I contrasti politici erano molto forti, ma pur nella evidenza di questi contrasti la Costituente riusciva a toccare un livello altro, e questo altro livello era quello della ricerca comune. Era una democrazia plurale, le differenze erano legittime, si trattava di vivere civilmente nella diversità. Convivere, dunque, non significa negare il conflitto, vuol dire saperlo vivere”. Meglio non si potrebbe dire: anche oggi bisogna  negare l’idea stessa che un partito si faccia nazione e riassuma in sé il bene di tutti, bisogna far valere le differenze e far vivere il pluralismo politico; e ricondurre le “parti” a un’identità nazionale condivisa, che posa le sue radici nella Costituzione nata dalla Resistenza. Appunto: non un solo “partito della Nazione”, ma tanti “partiti della Costituzione”.

lucidellacitta2011@gmail.com

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