Perché dobbiamo essere sia conservatori che rivoluzionari
Città della Spezia – 22 Luglio 2012 – Oggi la democrazia è inesistente ed è rinviata, come una sorta di utopia, ad altre epoche? E’ attorno a questa domanda sui “fondamenti” che giovedì scorso, su invito degli amici di Sconfinando e del Premio Montale, ho discusso a Sarzana con il grande storico e filologo Luciano Canfora. La tesi del suo libro “La democrazia. Storia di un’ideologia” è che la democrazia è stata sconfitta dalla libertà, intesa come libertà dei ricchi, di coloro che nella gara per la sopravvivenza riescono più forti (nazioni, regioni, individui). Canfora parla di “nesso indissolubile, ineludibile, tra libertà e schiavitù”: è la tesi di Giacomo Leopardi nello “Zibaldone”, secondo cui “la schiavitù fonda la libertà dei liberi e ne è principio”. E la democrazia? Non è mai esistita, sostiene lo storico, perché fin dall’Atene di Pericle diede vita non già ad “un regime popolare” ma ad “una guida del regime popolare” da parte di una frazione dei ricchi che sfruttava il sistema. Pur avendo intitolato il mio ultimo libro “Ripartiamo dalla polis” non posso che concordare: la polis fu uno straordinario esperimento, in cui il potere supremo era detenuto dall’assemblea popolare plenaria e il cittadino con dei diritti era volta a volta governante o governato, grazie all’accesso alle cariche per sorteggio; ma, appunto, questa pur eccezionale scuola di eguaglianza era limitata al “cittadino con dei diritti”, cioè a pochi uomini, dato che donne, bambini, schiavi, meteci (persone provenienti da fuori Atene) non godevano degli stessi diritti. E quindi, nel mio libro, ho inteso la polis più come “mito” che come “fatto storico”.
La collisione dell’ideale della democrazia con la dura realtà avviene più che mai oggi, nella democrazia di tipo liberale. La santificazione ideologica della democrazia coincide infatti con il suo sostanziale svuotamento. La teoria della democrazia intesa quale eguaglianza formale di tutti nella legge, afferma Canfora sulla scia di Marx, è un’ ”ideologia” (falsa coscienza) a beneficio delle minoranze al potere. La democrazia è sempre stata e può essere una sola: la lotta di coloro che mirano a stabilire l’eguaglianza contro il predominio delle oligarchie fautrici delle diseguaglianze. Perciò Canfora dice che la democrazia non è una forma, non è un tipo di costituzione: essa è presente nelle più diverse forme politico-costituzionali, dove e quando si fa sentire con efficacia l’azione della parte popolare. Oggi sono tornati gli schiavi: dagli immigrati di Rosarno che vivono senza alcuna tutela e in condizioni disumane, fino ai tanti lavoratori italiani costretti ad accettare salari troppo bassi, carichi di lavoro troppo pesanti e diritti sempre più calpestati pur di avere il posto di lavoro. Le oligarchie economiche agiscono indisturbate, crescono le diseguaglianze sociali, aumentano i poveri e i deboli, che però sono sempre più senza parola, a causa del naufragio dei partiti operai e popolari: la democrazia, conclude Canfora, è affidata ad altri uomini e ad altre epoche, perché non ha più soggetti e partiti in grado di farsene portatori efficaci.
Non c’è dubbio che il tema sia “fondamentale”. L’hanno affrontato molti altri intellettuali, per esempio in Italia lo storico Massimo L. Salvadori, che ha scritto un libro, “Democrazie senza democrazia”, che spiega come la democrazia, sorta come mezzo per porre fine al potere totale o prevalente di gruppi oligarchici, è venuta ad assumere il carattere di un sistema che ha riconsegnato il potere a nuove oligarchie. O, in Francia, il filosofo Tzvetan Todorov, che nel suo “I nemici intimi della democrazia” critica tre “nemici”: il messianesimo politico, inteso come esportazione del Bene con la forza (Iraq e Afghanistan insegnano), l’ultraliberismo economico e il populismo xenofobo.
Ma torniamo alla domanda da cui sono partito: dobbiamo aspettare tempi migliori per riprendere in forme nuove la lotta per l’eguaglianza, come sostiene Canfora, o si può tentare già oggi di riaprire la partita? I “partiti operai e popolari”, per dirla con lui, possono rinascere? Forse il nodo da sciogliere è quello tra conservazione ed innovazione. Entrambe sono necessarie alla sinistra, scrive il filosofo Roberto Esposito, “purché combinate in un equilibrio che non sacrifichi l’una all’altra, e che soprattutto non scambi il loro ruolo”. E’ un nodo presente da tempo, ma mai risolto. Nel 1978, per esempio, c’era il bisogno di difendere la democrazia (fu l’anno in cui fu ucciso Aldo Moro) e allo stesso tempo di innovare, di essere -nelle parole di un appunto di Antonio Tatò, il suo più stretto collaboratore, a Enrico Berlinguer- “conservatori e rivoluzionari”. Ma Berlinguer, scrive lo storico Paul Ginsborg, “sapeva difendere la democrazia ma non aveva un’idea convincente per farla crescere”. Oggi la sinistra si è smarrita e balbetta sia quando deve conservare che quando deve innovare. Conservare i suoi valori originari -l’eguaglianza e la difesa dei più deboli in primis- e quindi riproporre il tema del primato della politica nei confronti dei poteri economici e finanziari, senza subalternità al pensiero unico del liberismo spinto e del privatismo che ha come vittime designate il pubblico e i diritti. Ma anche innovare: costruire un partito che non discenda soltanto dai lombi del movimento operaio e non si fermi al vecchio welfare, e non rinunci ad elaborare una strategia alternativa sia al berlusconismo che al montismo incontrando quella che Alfredo Reichlin definisce la “nuova umanità” prodotta dalla crisi.
Fa riflettere sui compiti della politica l’articolo pubblicato qualche giorno fa dal commentatore americano David Brooks sul New York Times e su Repubblica, dedicato a cercare di capire il trionfo del tour di Bruce Springsteen in Europa. “Come è possibile -si chiede Brooks- che in un posto tanto distante tante persone si sentano tanto coinvolte dal mondo di cui canta Springsteen, le terre in via di deindustrializzazione dal New Jersey al Nebraska?”. La sua risposta è questa: “Negli anni Springsteen ha costruito il suo paracosmo, con la sua collezione di vagabondi e fabbriche che chiudono” e ha scelto di “elaborare nuovi argomenti nel linguaggio della sua vecchia tradizione”; e “ora si ritrova con gli stadi riempiti da giovani adulti che vengono a vederlo e che conoscono parola per parola canzoni scritte vent’anni prima della loro nascita che parlano di posti che non vedranno mai”. Brooks trae da questa esperienza un consiglio per i politici: “Scendete più in profondità nella vostra tradizione. Ricorrete di più alla geografia del vostro passato. La gente accorrerà”. Leggendo l’articolo di Brooks mi sono venuti in mente la vittoria di Francois Hollande in Francia, e il sostegno decisivo di un gran numero di ventenni che hanno fatto campagna per lui nelle scuole, sul web e tra gli amici. Nelle interviste i giovani della “Generazione H.”, così li hanno definiti, parlano di un “cambiamento che è anche conservare le conquiste del passato”. Non hanno mai visto la sinistra al potere, e ora si ritrovano un eroe a sorpresa: ”Mi ha fatto venire la pelle d’oca durante il discorso di investitura”, dice una ragazza. Sui megaschermi di Piazza della Bastiglia scorreva un video: quasi due secoli di storia socialista, dalle lotte operaie alla Resistenza, da Jean Jaures a Francois Mitterrand.
E da noi? Viene ancora da citare Giacomo Leopardi, grande poeta ma anche grande pensatore: “La vita degli italiani è senza prospettiva di miglior sorte futura, senza scopo, ristretta al solo presente” (“Discorso sopra lo stato dei costumi degli italiani”). Nel recente rapporto Censis, dedicato alla “Fenomenologia di una crisi antropologica”, si legge che “gli italiani sono sempre più impegnati nel presente, con uno scarso senso della storia e senza visione del futuro”. E quindi poco propensi sia a conservare che ad innovare. Ma non è sempre stato così: chi colse per tempo, ed anzi in anticipo, questa necessità di tenere insieme conservazione e innovazione fu Pier Paolo Pasolini. Ed è per questo che ci manca così tanto. Così come ci manca un partito che, come seppe fare il Pci, pur con tutti i suoi difetti, nel dopoguerra e negli anni ’70, sia in grado di spiegare la storia della nazione, di indicare un progetto per il futuro e di parlare al Paese e ai giovani dicendo “dove va l’Italia” e “questo è il vostro ruolo”. Nel Paese, e nella sinistra, dell’ ”eterno presente” dobbiamo tornare ad occuparci del passato per condurlo in un progetto di lunga durata. Dobbiamo essere sia conservatori che rivoluzionari. Perché la democrazia non sia solo un’utopia per tempi meno tristi.
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