Presentazione di “Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista” di Dino Grassi, Venerdì 22 novembre ore 17 al Palazzo Ducale di Massa
14 Novembre 2024 – 21:22

Presentazione di
“Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista” di Dino Grassi
Venerdì 22 novembre ore 17 al Palazzo Ducale di Massa
Massa, Palazzo Ducale – Sala della Resistenza
Il libro di Dino Grassi “Io …

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Perché Berlinguer ci parla ancora

a cura di in data 24 Giugno 2014 – 07:15
Roma, l'infinito del cielo si specchia nel Maxxi di Zaha Hadid (2014) (foto Giorgio Pagano)

Roma, l’infinito del cielo si specchia nel
Maxxi di Zaha Hadid (2014)
(foto Giorgio Pagano)

Città della Spezia, 15 giugno 2014 – La notorietà di un uomo politico, di solito, evapora in fretta: appena conclusa la parabola del suo potere. Se il trentesimo anniversario della morte di Enrico Berlinguer ha suscitato una discussione e un’emozione così diffuse in tanta parte del Paese un motivo deve esserci: ma non consiste nel successo del suo progetto politico -che, anzi, conobbe il fallimento- bensì nell’idea di potere e di politica che egli incarnava. Berlinguer, ha affermato lo scrittore Paolo Di Paolo, “ha rappresentato la possibilità di un’esperienza politica che sostituisce all’idea di potere -la sua natura greve, auto-centrica- l’idea di responsabilità”.

Il segretario del Pci era il contrario dello showman, la sua politica non era mai spettacolare o pubblicitaria, le sue parole pubbliche non erano mai retoriche e non cercavano il piacere ma il significato: ecco, erano parole sempre dense di significato.Per questo suo modo di essere, per la sobrietà, per il suo stile di vita semplice Berlinguer incarnava un’idea di politica e di potere alternativa a quella dominante. Soprattutto negli anni Ottanta, quando prevalsero arroganza e assenza di morale. Io, insieme a tanti ragazzi della mia generazione, diventai “comunista italiano” -con quell’aggettivo sempre ostentato, per marcare la differenza dai sovietici e dai cinesi- grazie a Enrico Berlinguer. Ho di volta in volta condiviso o no le sue posizioni politiche, ma mai sono venuti meno in me l’affetto e la fascinazione verso una così grande figura morale.

Non sono del tutto d’accordo con Massimo D’Alema quando sostiene che “l’aspetto più fecondo del berlinguerismo rimase in continuità con l’esperienza di Togliatti”. Ma D’Alema ha ragione quando spiega il maggior fascino popolare di Berlinguer rispetto a Togliatti non solo con il fatto che il secondo, per motivi anagrafici, fu più compromesso con lo stalinismo, ma anche con il fatto che “Togliatti appare come un uomo totus politicus, animato da un elemento di arroganza intellettuale”, mentre Berlinguer “aveva una componente notevole di umanità, di curiosità e apertura verso le novità del mondo contemporaneo”. E oggi? Forse il fascino di Berlinguer permane perché appare agli antipodi del leader vincente, anche nello schieramento progressista: furbo, aggressivo, ipermediatico. Un modello che ha successo, ma solo in parte: basti pensare a come diminuisca continuamente il numero di coloro che vanno a votare. E che magari tornerebbero a farlo se si trovassero di fronte un “comunicatore” che non invade perennemente il video ma, quando parla, fa riflettere e pensare, perché tocca il cuore e la ragione, e quindi lascia veramente il segno. Uno come Berlinguer, insomma. Oggi ci sono solo due figure contemporanee che sembrano incarnare un analogo stile di vita. Una è Papa Francesco, che con il buon esempio dimostra che si può esercitare il potere in modo sobrio e umile. Berlinguer coltivava una passione per il frate di Assisi, un luogo dove si recava spesso a trarre ispirazione per la sua battaglia per la pace. L’altra figura è Pepe Mujica, Presidente dell’Uruguay: ascoltate su YouTube il suo discorso del 4 dicembre 2012 al G20 di Rio, tradotto in italiano. In rete è considerato il discorso più bello del mondo. Mujica si trattiene solo 485 dollari dello stipendio per vivere e destina gli altri 7500 in aiuto sociale. Vive di pochissimo, in una vecchia fattoria con l’acqua nel pozzo, dove ha appena invitato ad abitare un centinaio di bambini profughi siriani. E governa il suo Paese all’insegna degli ideali della giustizia sociale e della fratellanza.

Ma Berlinguer non fu solo una grande figura morale, fu un grande dirigente politico, che perseguì un progetto, e che fallì. Come dice D’Alema, Berlinguer nasce come epigono di Togliatti e continuatore del suo disegno: quello di un partito nuovo rispetto a tutti gli altri partiti comunisti, un grande partito di popolo che si proponeva di sviluppare la democrazia fino in fondo, fino ad arrivare al socialismo in modo democratico, sulla base della concezione, enunciata da Berlinguer, della “democrazia come valore universale”. Il “comunismo riformista” di Berlinguer andò oltre Togliatti, ma non risolse del tutto il grande problema che la generazione togliattiana aveva lasciato: il legame con l’Urss e la creazione di una forza che fosse davvero in grado di governare il Paese e di superare la “democrazia bloccata”, fondata sulla “conventio ad excludendum”, in una società occidentale, nei confronti di un partito comunista legato all’Urss. Berlinguer provò a risolvere il problema con la proposta del “compromesso storico”, un patto tra i grandi partiti popolari che avevano fatto la Resistenza e che poi si erano divisi. Era un grande progetto, ma fallì: non solo perché il terrorismo uccise Aldo Moro, l’interlocutore di Berlinguer nella Dc, ma anche perché ormai la “democrazia bloccata” aveva ostacolato, come scrive Giuseppe Vacca, “la sintonia tra i partiti popolari e il Paese profondo, che ormai pulsava fuori dagli schemi delle culture politiche tradizionali”. Da dirigente del Pci ne fui testimone: dopo le grandi speranze del ’68 studentesco e del ’69 operaio, “sentivo” sulla mia pelle, dentro un partito che era ancora di popolo, che la politica di solidarietà nazionale non influiva sul governo dell’economia, non suscitava passione e allontanava molti giovani. Il Pci arrivò all’appuntamento con una cultura di governo inadeguata: fecero meglio, dal punto di vista della progettualità “riformista radicale” e dei risultati ottenuti, i socialisti con il primo centrosinistra.

Roma, Cimitero acattolico, l'urna con le ceneri di Antonio Gramsci (2014) (foto Giorgio Pagano)

Roma, Cimitero acattolico, l’urna con le ceneri di Antonio Gramsci (2014)
(foto Giorgio Pagano)

Ho approfondito la questione nel mio “Il ciclone Renzi e il fallimento di una classe dirigente” (Il Blog di Mastro Geppetto, 18 dicembre 2013, ora anche in www.associazioneculturalemediterraneo.com): aveva ragione la “destra comunista” di Giorgio Amendola a porre, già nel 1964, l’obbiettivo della creazione del “partito unico della sinistra”; ma aveva ragione anche la “sinistra comunista” di Pietro Ingrao a chiedere un riformismo più innovativo e più adatto a cogliere le trasformazioni economiche e sociali. Mi ha fatto piacere leggere considerazioni analoghe, meno schematiche e più articolate delle mie, nel libro “Sulle orme del gambero” di Walter Tocci, direttore del Centro Riforma dello Stato. Ecco le sue parole: “I due revisionismi di destra e di sinistra del Pci non hanno mai vinto le rispettive battaglie. Nessuno dei due è mai riuscito a diventare maggioranza. Eppure avevano ragione solo gli amendoliani e gli ingraiani, avevano torto tutti gli altri. Erano le uniche due prospettive possibili per l’avvenire. Se nel 1964 avesse vinto Amendola lo spostamento a sinistra dell’elettorato negli anni Settanta avrebbe trovato una normale forza socialdemocratica in grado di candidarsi al governo e di superare la doppia debolezza della sinistra italiana. Il brillante riformismo socialista avrebbe fecondato la sbiadita cultura di governo del ‘Progetto a medio termine’ con cui il Pci affrontò l’esperienza della solidarietà nazionale. E il radicamento popolare del Pci avrebbe apportato la forza mobilitante sempre mancata alla governabilità socialista. Se avesse vinto Ingrao, con il discorso pronunciato all’XI congresso nel 1966, che è una sorta di profezia del grande sommovimento del ’68-69, il Pci si sarebbe trovato in piena sintonia con la trasformazione sociale, ne avrebbe saputo leggere i conflitti e ne avrebbe saputo rappresentare le istanze riformatrici con la proposta di un nuovo modello di sviluppo”. Analoghe considerazioni si possono fare per la fase dello scioglimento del Pci, nel 1989-1991. Aggiungo che queste due “linfe vitali” del Pci, che pur si fecondarono l’un l’altra, solo mescolandosi e unendosi avrebbero potuto evitare sia la loro marginalità sia e soprattutto la decadenza del Pci: perché avrebbero dato origine a quel “socialismo di sinistra” o “riformismo radicale” di cui ancora oggi sentiamo la mancanza.

Berlinguer non riuscì a operare questa sintesi, e per questo fu sconfitto. E tuttavia c’è in lui qualcosa di tuttora politicamente operante, il che spiega perché si continua a parlarne. Mi riferisco certamente alla consapevolezza dell’importanza del rapporto con il mondo cattolico: ma non solo a questo, che era del resto elemento fondamentale già della politica di Togliatti. Berlinguer va oltre Togliatti con altre intuizioni, altri pensieri: l’”austerità”, fondata su un nuovo modo di consumare (“consumare consapevolmente e criticamente”, dice Pepe Mujica) e di produrre (“perché, cosa, come produrre”), cioè l’assunzione del tema ecologico, che oggi si impone come la necessità non di un’élite, ma sentita a livello popolare, soprattutto giovanile, come unica via d’uscita alla “Grande crisi” del 2008; l’apertura alla società, la concezione della politica come fatto sociale, il rifiuto dello schiacciamento sul Palazzo, dell’autonomia del Politico e della sua riduzione a istituzionalismo: in questo Berlinguer ricorda il grande pensatore Antonio Gramsci, fondatore del Pci, teorico della “caduta della separazione del politico dal sociale”; l’accento sulla questione morale come questione politica, cioè la lotta non solo contro la corruzione dilagante, ma anche contro le sue cause e contro un’intera concezione della politica, che considera i partiti non come organizzatori della democrazia ma come proprietari dello Stato. I giovani che militano nella sinistra dovrebbero rielaborare a loro modo questa storia, senza dimenticarla e ripudiarla. Come ha scritto Berlinguer negli ultimi anni della sua vita: “Non c’è fantasia, innovazione o rinnovamento, se si smantella quello che vi è alle spalle”.

lucidellacitta2011@gmail.com

Post scriptum
Su Enrico Berlinguer si vedano anche:
“Sinistra-cattolici, Berlinguer fa scuola anche oggi, in “Il Secolo XIX”, 17 giugno 2009, ora in www.associazioneculturalemediterraneo.com
“Enrico Berlinguer, l’austerità e l’ambientalismo”, in questa rubrica, 1° luglio 2012
“Testimonianza a Indovina chi viene a pranzo”, in questa rubrica, 13 aprile 2014
“L’addio a Berlinguer, le lacrime degli spezzini”, in “Lettere a Cds”, 7 giugno 2014

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