Paolo Bertolani e Giovanni Giudici, serve un riconoscimento pubblico
Città della Spezia, 23 maggio 2021 – Lerici è stata fonte di ispirazione per molti poeti. Anche per il sommo Dante, che la cita nel “Purgatorio” -lo vedete nella foto in alto, che riproduce la targa posata alla Bellavista- come zona ricca di strapiombi e di dirupi, quasi inaccessibile. Lerici ha anche dato i natali a un grande poeta, Paolo Bertolani, della Serra -la foto in basso riproduce la targa a lui dedicata nel borgo natio- e ha pure ospitato per un decennio, sempre alla Serra, un altro grande poeta nato alle Grazie, Giovanni Giudici. Bertolani nacque novant’anni fa, il 26 gennaio 1931, Giudici morì dieci anni fa, il 24 maggio 2011. Ho usato il termine “grande poeta” per entrambi, anche se solo Giudici è annoverato tra le voci poetiche più importanti del Novecento. Ma ci sono anche i poeti “minori”, come Bertolani, che sono in realtà dei grandi, anche se lo sono -e Paolo non poteva non esserlo- “sottovoce”: non a caso manca ancora un’edizione complessiva della sua opera, almeno di quella in versi, che va sollecitata con forza.
I due anniversari sono l’occasione per ricordare i due poeti nel “loro” Golfo: a Lerici e a Portovenere, ma anche -vale per Giudici, che fu Consigliere comunale del Comune capoluogo dal 1990 al 1992 e poi Assessore provinciale alla Cultura- alla Spezia. Sia Bertolani che Giudici meritano un riconoscimento pubblico, che li incardini saldamente nella memoria del Golfo. Lerici si è certamente data da fare per Bertolani, ma molto altro occorre. Giudici è stato invece dimenticato: Portovenere ha almeno posato una targa, ma nulla lo ricorda alla Serra e soprattutto a Spezia. Eppure il decennale della morte sta avendo un rilievo nazionale: in questi giorni escono la ristampa del primo libro, “La vita in versi”, nonché due volumi di scritti giornalistici. Possibile che da noi regni il silenzio?
Ci aiutano, nella richiesta di un riconoscimento pubblico, due bei libri usciti di recente: “Tre poeti. Giudici, Bertolani, De Signoribus” dello studioso spezzino, trapiantato a Sarzana, Carlo Di Alesio, e “Quella ricchezza detta povertà. I sentieri di Paolo Bertolani”, di Paolo Lagazzi, saggista nato a Parma e residente a Milano.
Come ogni poesia, anche quella di Giudici e di Bertolani è una lingua che si capisce non solo con l’intelletto ma anche con i sensi. E’ stato proprio Giudici a commentare questo passo del “Paradiso” di Dante:
“[…] E come giga e arpa, in tempra tesa
di molte corde, fa dolce tintinno
a tal da cui la nota non è intesa,
così da ‘ lumi che lì m ‘apparinno
s’accogliea per la croce una melode
che mi rapiva, senza intender l’inno”.
E’ un concetto molto importante: “la comprensione logica non è poi tanto indispensabile quando vi sia una comprensione -un’intelligenza- emotiva” (Di Alesio), “un certo coinvolgimento di facoltà sensorie” (Giudici).
La poesia ci appare in questo modo come un appiglio per cercare di dare una risposta ai grandi interrogativi che ci pone la modernità, e ancor più l’attualità.
DUE POETI CHE PARLANO AL NOSTRO ODIERNO SENTIRE
Sia Giudici che Bertolani hanno testimoniato le problematiche esistenziali e civili del secondo dopoguerra. Giudici lo ha fatto mettendo al centro della sua poesia un personaggio, l’impiegato di una grande azienda, di educazione cattolica, attratto dalla “chiesa” comunista ma incapace di vivere religiosamente una fede politica, sensibile ai temi morali ma incline ai compromessi: un “cittadino medio”, ma molto umano. Bertolani è stato invece un testimone meno “cittadino”, legato a una civiltà contadina che sta per scomparire: quella dei muretti a secco, dei “fodi” (i folti), degli uliveti, dei sentieri…
Di entrambi ho riletto recentemente versi e prose degli anni Sessanta e Settanta, per meglio comprendere lo “spirito del tempo” a cui ho dedicato il mio ultimo libro: gli anni Sessanta, ma anche agli anni Settanta, quelli in cui le idee dei Sessanta furono sconfitte.
Nel libro ho pubblicato la poesia di Giudici “Mi chiedi cosa vuol dire” (1960), sul tema dell’alienazione. Secondo molti studiosi, nessuno ha descritto meglio di lui questo concetto, nato tra marxismo ed esistenzialismo. Di Alesio tratteggia gli anni Sessanta di Giudici, che furono per lui un “nuovo inizio”: il rapporto con il poeta-intellettuale Franco Fortini -critico della “elettrodomesticazione” degli italiani-, la conoscenza di Marx, di Marcuse, della letteratura anticolonialista (Frantz Fanon), insomma di gran parte della cultura dei Sessanta. Fino all’affermazione che la poesia “nella sua ricerca di verità e di bellezza e nella sua lotta contro i loro travestimenti mistificati […] è politica essa stessa”. E alla scelta di una “poesia di sconfitti” (“dei vinti”, io scrivo).
Lagazzi evidenzia come il rapporto con la cultura dei Sessanta fu profondo anche in Bertolani, che amava “On the road” di Kerouac, il teatro di Carmelo Bene -protagonista con Paolo di “tenzoni recitative” fino all’alba nel ristorante lericino “La Barcaccia” di Massimo Lorato, luogo simbolo di una Lerici scomparsa-, e l’opera di Pier Paolo Pasolini. C’è, in Bertolani, un fondo pasoliniano: all’intellettuale friulano lo accumunano il compianto per un mondo che sta sfacendosi e la polemica verso un progresso che è solo barbarie. Non a caso Bertolani dedica a Pasolini due poesie in dialetto della Serra, “Le lucciole” e “Le rondinelle”. Si erge in questo modo a “sentinella di una memoria storica di un’epoca precisa, tra gli anni trenta e la fine del ventesimo secolo, ma anche di una memoria millenaria, preistorica o antropologica” (Di Alesio), di “un mito umanissimo d’una terra strinata dalla povertà e dalla durezza del vivere ma ricca del ‘fuoco’ delle cose elementari” (Lagazzi).
Tuttavia in Bertolani resta sempre, nonostante il pessimismo, la speranza. Scrive Lagazzi: “L’unica cosa che conta è affidarci alla forza di fuga dei nostri sogni. Mille ostacoli, mille muri cercheranno d’impedirci di fuggire, ma noi non dovremo mai rinunciare a sperare”. Due poesie di Paolo chiudono il primo volume e aprono il secondo volume di “Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia”, su consiglio di Francesco Bruno, poeta, critico, grande amico di Bertolani: “Tanto dura a morire è la speranza” e “Praga 1968”. La speranza e la sconfitta.
A poco, a poco, sia in Bertolani che in Giudici, ovviamente in forme diverse, cambiano toni e propensioni, “in relazione con l’offuscarsi dell’orizzonte storico a partire dai tardi anni Settanta” (Di Alesio). Ma i risultati poetici non diventano più poveri, anzi.
In Bertolani la visione dell’esistenza si fa più disincantata e amara, ma la sua poesia resta una poesia all’insegna della comunicazione con gli altri, della confidenza con il mondo, della “fratellanza” (Di Alesio) o “fraternità” (Lagazzi), la “parola chiave” di tanta cultura degli anni Sessanta e del Sessantotto. Il Bertolani maturo torna alla poesia con il dialetto della Serra, e poi con una vena poetica e umoristica che offre risultati poetici straordinari.
In Giudici si sviluppa la prospettiva “onirica”, tra diario e metafisica, tra cronaca ed eternità, con esiti di grande rilievo.
Fu in questo periodo, quello delle rispettive maturità, che Paolo e Giovanni accrebbero la loro vecchia amicizia, vivendo entrambi alla Serra, così complici da dar vita “a una genuina amicizia, non solo di poeti, ma di poesie” (Di Alesio).
Ricordiamo degnamente Paolo e Giovanni: non solo perché testimoniano “la storia”, ma anche perché la loro poesia parla al nostro odierno sentire.
Post scriptum:
Su Giovanni Giudici rimando a questi due miei articoli:
Giovanni Giudici un poeta del Golfo, “Il Secolo XIX”, 22 giugno 2011, leggibile su www.associazioneculturalemediterraneo.com;
Giovanni Giudici e la vita presa per il verso giusto, su questa rubrica (8 luglio 2012).
lucidellacitta2011@gmail.com
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