Paolino Ranieri, babbo partigiano
Città della Spezia, 18 aprile 2021 – “Mio babbo partigiano” è un libro di Andrea Ranieri sul padre Paolino. Una biografia, un libro di storia e insieme un libro intimo, pieno di sentimento: un atto d’amore verso il padre che non c’è più.
Paolino fu partigiano con nome di battaglia “Andrea”: un nome scelto prima per il figlio e poi per sé nel momento della lotta, grazie alla lettura nel carcere fascista del romanzo “La madre” di Maksim Gor’kij, in cui Andrea è l’amico di Paolino, il figlio della “madre”. Un nome impegnativo, che ha portato il figlio dietro le orme del padre, sotto la sua protezione, ma anche oltre il suo lascito: fin da quando Andrea diventò militante di Lotta Continua e occupò il Comune di Sarzana, con Paolino Sindaco comunista. Ma la ricerca di strade nuove non portò il figlio alla rottura con il padre: nel libro “Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia” emerge come il loro rapporto non si sia mai interrotto, nonostante le critiche nel PCI a Paolino, e le voci sulle sue dimissioni da Sindaco.
Paolino, classe 1912, barbiere, povero ma perfetto giovane alla moda, cominciò presto a non sopportare le prepotenze e le sopraffazioni dei fascisti. La molla fu quando a un suo cliente, barba a metà, fu fatto bere l’olio di ricino. Vicino dapprima all’Azione Cattolica, si avvicinò poi ai comunisti, i più organizzati e i più decisi nella lotta al fascismo. “Non sono comunista e nemmeno lo diventerò. -fa dire Beppe Fenoglio al partigiano Alfredo in un racconto- Ma se qualcuno, fossi anche tu, si azzardasse a ridere della mia stella rossa, io gli mangio il cuore crudo”. Paolino conobbe i comunisti clandestini a fine 1932-inizio 1933: Anelito Barontini, Dario Montarese “Briché” e gli altri del gruppo sarzanese. Dal suo salone passavano i materiali della propaganda comunista, fino a quando, nel 1937, una spia fece arrestare tutto il gruppo. Condannato dal Tribunale Speciale, con Barontini e “Briché “, a quattro anni di carcere, Paolino fu rinchiuso con Anelito nel carcere di Fossano (Cuneo) dal 1938. Quella fu la sua università: “quando sono uscito sapevo cos’era il comunismo”, diceva sempre. E’ il “comunismo ideale” raccontato a Pino Meneghini nel su libro “Paolino Ranieri dal carcere alla ricostruzione”:
“A me e a Barontini arrivavano ogni mese L. 150 a testa, la somma massima consentita, una cifra enorme soprattutto se paragonata alla povertà delle nostre due famiglie, rette da due vedove. Era quello infatti il frutto del Soccorso Rosso che a Sarzana in quel periodo non ha mai smesso di funzionare. […] Ma in ossequio all’eguaglianza assoluta, dovevamo dividere tutto e quindi delle cinque lire che avevamo al giorno, ci restavano, dopo aver fatto la divisione, circa 60-70 centesimi per le spese quotidiane, che erano davvero pochi”.
Scarcerato nel 1940 dopo la nascita della principessa Maria Gabriella di Savoia, Paolino visse in libertà vigilata. Subito dopo l’8 settembre salì ai monti. Erano gli antifascisti “storici” come lui a sapere cosa fare, e furono loro ad aggregare i giovani, dai militari sbandati ai ragazzi renitenti alla leva. Non tutti comunisti, ma tanti comunisti.
Paolino fece sempre il commissario politico: era colui che doveva indicare ai giovani le ragioni della lotta. Scrive Andrea:
“Giovani stretti tra le spinte dell’avventura e della paura, a cui bisognava insegnare a vivere e a combattere immaginando un futuro diverso, necessariamente più grande e più bello del mondo che si erano lasciati alle spalle, e che dovevano aver chiare le ragioni per cui si poteva morire. Nessuno doveva morire senza sapere il perché. […] E poi il commissario politico doveva insegnare il rispetto per le popolazioni dei campi e dei monti in cui i partigiani avevano le proprie basi. E l’attenzione per evitare che il peso della guerra non ricadesse sui civili indifesi”.
Dalle colline sarzanesi si spostò a Valmozzola, poi ancora nel Parmense: se uno studente gli chiedeva che cosa gli era rimasto più impresso nei venti mesi ai monti Paolino rispondeva sempre: “la liberazione di Bardi, la conquista della democrazia nella Repubblica partigiana del Ceno, tra giugno e luglio 1944”. Sconfitta la Repubblica, tornò in Val di Magra per costituire la Brigata Muccini. Rimasto in zona dopo il grande rastrellamento del 29 novembre 1944, fu arrestato e ferito a una gamba il 14 dicembre. Si salvò per un miracolo dalla ferita. E non fu ucciso o deportato perché un comandante tedesco voleva premunirsi ed aver salva la vita dopo il crollo del regime.
La Resistenza che racconta Andrea riprendendo Paolino è soprattutto quella di Rudolf Jacobs e di Dante Castellucci “Facio”: due storie che spiegano che “la libertà sta oltre nazioni e bandiere” e che “l’orrore può esistere anche tra le fila dei buoni”. Paolino conobbe entrambi questi eroi difficili.
Jacobs, l’ufficiale tedesco che si ribellò al nazifascismo, che disertò e militò nella Brigata Muccini, che volle combattere contro i tedeschi in un agguato in cui portava la divisa tedesca, in cui trovò la morte. Un eroe difficile ma un mito di fondazione dell’Europa dei popoli, se mai ci sarà.
“Facio”, poeta, violinista e attore calabrese, compagno dei fratelli Cervi, il più valoroso partigiano dei nostri monti, il combattente leggendario della battaglia del Lago Santo, amato dai suoi uomini e dai contadini e dai montanari della Val di Vara e dello Zerasco. Un eroe difficile: il comunista fucilato da altri partigiani comunisti dopo un processo in cui fu accusato ingiustamente e in cui non poté difendersi. Il PCI spezzino criticò subito l’accaduto e inviò Paolino ai monti per un’inchiesta. Ma il commissario politico in quella occasione fu impotente. Laura, la compagna di “Facio” tenuta prigioniera, gli disse: “Sta attento, che fanno fuori anche te”. Paolino capì, anche se solo dopo anni, che le verità vanno sempre raccontate: anche le miserie della Resistenza, perché fanno emergere meglio le sue grandezze, e combattono le calunnie del revisionismo. Così come capì, sia pure in ritardo, la tragedia dello stalinismo e il valore del comunismo libertario, invano cercato in Cina o in Albania. Ma comunista, senza tessera, Paolino rimase sempre.
Dopo la Liberazione, fu Sindaco comunista di Sarzana per 25 anni, dal 1946 al 1971. Anni che andrebbero studiati. In “Un mondo nuovo, una speranza appena nata” emerge, come cifra del suo impegno negli anni Sessanta e nel Sessantotto, la costante attenzione all’ascolto dei giovani, che sempre lo sentirono vicino.
Fu accanto ai giovani anche nell’ultima parte della sua vita, impegnato a raccontare la Resistenza. Per evitare che la memoria della Resistenza fosse sepolta -oggi dovremmo dire drogata e deformata- si adoperò per costruire il Museo alle Prade di Fosdinovo: un museo interattivo, che mescola memoria e tecnologia. Lo fece grazie all’aiuto di Paolo, il nipote figlio di Andrea. Un consiglio: salite alle Prade, per vedere ed ascoltare Paolino e i suoi compagni.
Mentre scrivo si affollano i ricordi: il forte sostegno che mi diede quando fui eletto Segretario provinciale del PCI, la sua tenacia incrollabile nel chiedere finanziamenti al Comune di cui ero Sindaco per la realizzazione del Museo… E poi, sempre più, la sua classica allocuzione in dialetto sarzanese “cumpagni na sega”, rivolta ai tanti che, dentro il PCI, cominciavano a pensare solo alla propria carriera o ai propri affari. Fino agli ultimi giorni tristi, insieme al suo partigiano, e caro amico comune, Piero Guelfi, accanto al suo letto in Ospedale: la sua richiesta, in dialetto, di portarlo via da quel posto, il suo tentativo di scendere con le gambe secche. Incredibile, sempre alla ricerca delle donne, della “madre”. Non volle arrendersi alla vecchiaia e alla morte, fino alla fine. Ma i ricordi più belli sono quelli di Andrea sulla loro comune passione per il ciclismo, con cui il libro si conclude.
Nell’Italia di oggi sembrano storie ormai lontane. Ma queste storie hanno creato anticorpi che non sono perduti: sono una risorsa da tenere cara. Ecco perché dobbiamo testardamente tornare a raccontarle.
Post scriptum:
Sui funerali di Paolino Ranieri rimando al mio articolo “Paolino, i giovani e l’oligarchia politica”, Il Secolo XIX, 14 giugno 2010, leggibile in www.associazioneculturalemediterraneo.com
Su Rudolf Jacobs e Dante Castellucci “Facio” rimando al mio libro “Eppur bisogna ardir. La Spezia partigiana 1943-1945” e, tra i miei articoli, a quelli di questa rubrica:
“Rudolf Jacobs e l’altra Germania”, 9 novembre 2014
“Laura, l’amore perduto e la speranza nella giustizia”, 27 luglio 2014
“Il giovane ‘William’ e il tragico duello tra ‘Facio’ e ‘Salvatore’”, 22 febbraio e 1° marzo 2015
“Il caso ‘Facio’ e le domande ancora senza risposta”, 15 aprile 2015
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