Montaretto, un luogo magico
Città della Spezia, 13 novembre 2022
Montaretto è celebre per due motivi: perché è un “balcone sul mare” -come recita la scritta della maglietta che si vende nel paesino-, un luogo incantevole con paesaggi mozzafiato tra la costa e i monti; e perché è sede di una Casa del Popolo, luogo di aggregazione e di entusiasmo sociale e politico, nota in tutta Italia.
Domenica 30 ottobre la Casa del Popolo di Montaretto ha festeggiato, con due anni di ritardo a causa del Covid, i suoi primi cinquant’anni di vita. E’ stata una grande festa popolare, che ha ricordato una storia che è stata davvero qualcosa di epico. Ne scrivo con l’aiuto di Marcella e Henriette, curatrici del libro “Casa del Popolo. Montaretto 1970-2020”.
Le prime Case del Popolo nacquero a fine Ottocento, con il movimento socialista. La prima sorse, non a caso, a Reggio Emilia, nel 1893. Nella sola Romagna ce ne sono state 550. Nella presentazione del loro archivio si legge:
“Case del Popolo, il luogo del NOI. La Casa del Popolo era un luogo magico, un luogo ove si imparava, si discuteva, ci si aiutava, ci si organizzava e ci si divertiva! Dove c’era la voglia di stare insieme.”
Le Case del Popolo furono distrutte o sequestrate dal fascismo, e poi recuperate a poco a poco nel dopoguerra.
Ho studiato a Firenze negli anni Settanta. Il punto di riferimento per l’attività culturale e politica era la Casa del Popolo Buonarroti, in piazza de’ Ciompi. Aveva giocato un ruolo di primo piano nel novembre 1966, nei giorni dell’alluvione: vi fu allestita una grande mensa per gli “angeli del fango”. Ricordo, negli anni Settanta, una visita di Enrico Berlinguer, il leader più amato. Sorrideva felice, tra ex partigiani e operai. La Casa del Popolo Buonarroti visse fino all’inizio del millennio. Ora è la sede di ARCI Toscana, che frequento per le attività di cooperazione internazionale dell’associazione Funzionari senza Frontiere, che presiedo. Ogni volta mi vengono in mente le tante serate di socialità, di discussione, di partecipazione. E il sorriso, quel pomeriggio, di quell’uomo all’apparenza così riservato, felice tra i militanti della Firenze rossa.
La Casa del Popolo di Montaretto, allora, era nata da pochi anni. Fu inaugurata alla fine dell’estate del 1970, nel “feudo rosso” della Riviera di Levante. Lo era insieme a Lavaggio Rosso di Levanto, paesino che tale era non solo di nome: terra di partigiani, per i quali si era sacrificato un prete, don Emanuele Toso.
A Montaretto i montarettini avevano già ottenuto, con un’altra impresa epica, risalente alla metà degli anni Cinquanta, la strada di collegamento con la provinciale per Levanto. Il 21 agosto 1955 il paesino si mobilitò e iniziò lo “sciopero alla rovescia”. Tutta Montaretto si era riversata sul sentiero esistente: mentre gli uomini allargavano con pala e picco il tratto più a valle, le donne e i bambini ostruivano con i sassi il passaggio più a monte. La lotta suscitò grande scalpore, e a i primi di settembre iniziarono i lavori. Tra i capi della rivolta popolare c’era Renato De Franchi, partigiano “Tigre”, prima con la Brigata Gramsci poi con la Cento Croci, scomparso nei giorni scorsi. Per anni ha raccontato la Resistenza ai ragazzi di Bonassola. Coraggioso come una tigre, era un uomo buono e dolce.
L’idea della costruzione della Casa del Popolo nacque nel 1964. La struttura fu realizzata con il volontariato dai montarettini a partire dal 1966: al sabato, alla domenica, nelle sere d’estate. Tutto finanziato con le cene e con la sottoscrizione popolare. Anche la comunità italiana di Brooklyn contribuì, grazie a un De Franchi emigrato. Già il 1° maggio 1967, a lavori in corso, fu organizzato il primo ballo, affollatissimo. Le feste si susseguirono per raccogliere fondi fino all’inaugurazione del 1970. Quell’impresa epica ha molto a che fare con lo spirito del Sessantotto: partecipazione, creatività popolare, festa dell’incontro e dello stare insieme.
Poi fu tutto un crescendo: da Spezia, da Genova, da tutto il Nord si veniva a Montaretto per ballare, per discutere di politica e di cultura, per gustare i ravioli con il ripieno di carni e erbette. Gli stessi buonissimi ravioli che ho mangiato il 30 ottobre, seguiti dall’asado di Adastro, per anni grande sindaco di Bonassola, comunista riformista e mago in cucina. Un’altra specialità è il “gatafin”, il celebre raviolo fritto. E’ più buono quello di Montaretto o quello di Levanto? La rivalità non finirà mai.
La Casa del Popolo divenne proprietà del PCI. Nella parte superiore il circolo ARCI e una bottega alimentare, al piano inferiore la sede del partito e lo spazio per le sagre e le feste. Negli anni Ottanta, da dirigente del PCI, ero di casa. Alla sera i compagni mi venivano a prendere alla stazione di Levanto, e poi mi ci riportavano. A tenere il comizio alle feste de l’Unità invece andavo in macchina, per non disturbarli. Le feste si facevano anche a Bonassola e a Framura: i montarettini scendevano a dare una mano, con le loro baracche di ferro, le pentole, le stoviglie. D’estate veniva sempre Armando Cossutta, che stava a Bonassola.
Con gli anni si sono aggiunti i turisti e i nuovi residenti, italiani e stranieri, che collaboravano pure loro. Anche quest’estate ho presentato un mio libro, prima abbiamo cenato sul “balcone sul mare”: una tavolata con montarettini, genovesi, milanesi, svizzeri, tedeschi…
E’ una storia di cinquant’anni e passa di grande senso civico e passione politica, che ci racconta la volontà di tante persone di farsi carico del proprio e dell’altrui destino.
Tutto ciò può risultare ingenuo, ma oggi ci manca. Perché anche se la parabola del comunismo italiano si è chiusa, non si è esaurita la necessità della discussione corale, della socialità, dell’impegno che vada oltre il nostro presente e oltre il nostro orizzonte immediato. Un impegno per “un nuovo senso della vita”.
Oggi si vuole cancellare tutto questo. Il neo ministro dell’Istruzione e del Merito ha subito inviato una lettera agli studenti: il comunismo fu “un incubo”, ha scritto. Certamente il “socialismo reale” in URSS fu anche un incubo, ma non solo questo, se è vero che l’URSS contribuì con oltre 20 milioni di morti (la metà del totale della Seconda Guerra Mondiale) alla vittoria, dirimente per il destino dell’umanità, contro la Germania di Hitler e l’Italia di Mussolini.
Altrettanto certamente il comunismo italiano -dove l’aggettivo non è dettaglio, ma sostanza- è stato ben altro da quello sovietico: forza di opposizione irriducibile al fascismo, protagonista della lotta di Resistenza e della stesura della Costituzione, movimento dal basso costruito, come a Montaretto, pezzo a pezzo, quartiere su quartiere, paesino su paesino, fabbrica su fabbrica, “casa per casa”, usando le ultime parole quasi sussurrate sul palco di Padova dal leader più amato in una sera di giugno 1984. Sono stato e sono molto critico con il PCI: ma fu una cosa seria e bella. Commise errori, aveva limiti; ma sapevi che su quell’incredibile patrimonio di umanità e passione potevi contare in ogni momento.
Ma la questione non è attaccare o difendere la storia del comunismo. La questione è studiarla, questa storia.
Il ruolo del ministro dell’Istruzione non consiste nel riscrivere la storia, e una democrazia non deve imporre una visione ufficiale del passato. Il socialismo reale aveva un’ideologia di Stato, il ministro vorrebbe fare dell’anticomunismo l’ideologia ufficiale dello Stato? Il metodo è lo stesso. Una vera democrazia dovrebbe essere fondata sul rispetto della libertà e del pluralismo delle idee, sulla consapevolezza che non esiste la verità assoluta e che bisogna confrontarsi con le mille verità degli altri per definire la propria.
Invece il ministro, ha scritto Giorgio Meletti, “non solo pensa che esista una verità storica assoluta, ma anche che spetti al ministro pro tempore stabilirla e promulgarla con brevi missive gonfie di retorica. Il vero incubo del socialismo reale nei Paesi dell’Europa dell’est e del fascismo italiano è stato che i ministri dell’Istruzione erano come lui. Definivano per decreto la verità storica da insegnare nelle scuole”.
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