Mirella Stanzione e le rose di Ravensbruck
Città della Spezia, 2 aprile 2017 – Mirella Stanzioneaveva 17 anni e abitava a Spezia, in via 27 marzo. Fu arrestata nella propria abitazione il 2 luglio 1944 dalle SS, assieme alla madre Nina Tantini e al fratello Auro. Auro era un partigiano, apparteneva ai Gap (Gruppi di azione patriottica). Una spia rivelò ai nazisti che in quella casa si tenevano attività antifasciste. Mirella e la madre furono inviate al carcere di Villa Andreino, quindi il 7 settembre in quello di Marassi a Genova, il 25 settembre a Bolzano e il 7 ottobre a Ravensbruck, il campo di sterminio per sole donne.Con loro c’erano le spezzine Paganini, la madre Amelia e le figlie Bianca e Bice.
La Stanzione, una novantenne molto lucida, ha incontrato nei giorni scorsi prima gli studenti del Liceo Cardarelli poi quellidel Liceo Mazzini: due testimonianze che sono state descrizione e memoria, ma anche riflessione sul fenomeno concentrazionario nazista e sulle sue radici. Ecco il suo racconto:
“Dopo il carcere a Spezia fummo portate a Marassi. Durante il viaggio i partigiani spezzini cercarono di liberarci, a Caresana, ma dovettero rinunciare, perché i tedeschi ci avrebbero ucciso. Nel carcere di Genova trovammo una situazione molto peggiore rispetto a Spezia, molta più sporcizia… Da Bolzano fummo condotte a Ravensbruck in un treno merci, eravamo sessanta donne per vagone. Durante il viaggio ho rimpianto la prigione, viaggiammo per sei giorni e sei notti senza mangiare e bere e senza poter fare i bisogni… E poi non sapevamo dove ci avrebbero portato e che cosa ci sarebbe successo. L’arrivo a Ravensbruck fu scioccante: le mura, le torri, i soldati con i cani lupo, le donne prigioniere rasate e smagrite… Ci fu l’immatricolazione, mi diedero il numero, il 77415, e il triangolo rosso dei deportati politici. I nazisti ci umiliavano per rafforzare la loro superiorità con la nostra sofferenza, per renderci docili e per annientarci psicologicamente: dovevamo essere solo forza lavoro per la Germania.Dovevamo essere meno di umani, non delle persone ma degli ‘stuck’ (pezzi), obbedienti a tutto. Mi diedero, in pieno inverno, un vestito di seta con le maniche corte. Non so come, trovai un cappotto… Ero senza calze, me le feci con la fodera delle maniche del cappotto… Eravamo malconsiderate dalle altre deportate, perché italiane: ci chiamavano ‘Mussolini’. Ma poi nacque la fratellanza. Io sopravvissi soprattutto grazie all’aiuto di mia madre e delle Paganini.L’aiuto decisivo fu quello di mia madre, anche se la sua presenza fu per me anche un motivo di ulteriore sofferenza, per come veniva trattata. Non l’avevo mai vista nemmeno in sottoveste, fui costretta a vederla ogni giorno nuda. Fu ricoverata per la febbre, cercai di andare da lei ma fui duramente picchiata da una guardia. Dopo un periodo di lavoro al campo principale venimmo trasferite al sottocampo attiguo della Siemens, per lavorare alla costruzione di strumenti di misura per l’industria aeronautica. Lavoravamo 12 ore al giorno, dalle 6 alle 18, alle 4 dovevamo essere già alzate per l’appello, che durava due ore, mentre stavamo in piedi. Alla sera ci davano una povera zuppa. In tutti quei mesi non ho mai potuto cambiare la biancheria intima, ero piena di pidocchi. Fui privata del flusso mestruale. Ma almeno lavoravamo al chiuso, al riparo dal freddo e dalla neve:è questo che ci ha salvate, anche se non tutte.
Era un lavoro forzato di schiavitù, poco importa se non vivevamo a lungo, il ricambio era facile. Con l’avanzare del fronte russo, la situazione peggiorò ancora: non c’era più niente da mangiare, scoppiò un’epidemia di tifo. Rientrai con mia madre nel campo principale. Nell’aprile del 1945 ci fu l’evacuazione del campo: uscimmo in una colonna guidata dai soldati tedeschi in fuga, con un pacco della Croce Rossa a testa. Seppi poi che era una delle tante ‘marce della morte’ verso Amburgo,dove avremmo dovuto essere imbarcate su una nave da affondare nel Baltico. Riuscimmo a fuggire alla sorveglianza delle SS durante un attacco aereo dei russi, incontrammo dei soldati italiani ex internati in Germania, ci presero dei vestiti nelle case abbandonate dai tedeschi, poi sparirono, e con loro anche i pacchi della Croce Rossa… Camminammo per 25 giorni nella Germania senza sapere dove andare, finché non incontrammo le truppe sovietiche. Ci inviarono a Berlino, insieme a Eleonora Zannoni e a una bimba ebrea di 10 anni sopravvissuta ad Auschwitz, dove aveva perduto i genitori. A Berlino la bimba venne accolta da un comitato ebraico di assistenza che rintracciò alcuni parenti e la inviò in Sud Africa. Alla fine di ottobre rientrai in Italia via Brennero, quindi a Milano e poi a Genova e a Spezia. A casa ritrovammo mio padre e mio fratello, che erano riusciti a passare la linea gotica e a raggiungere le zone liberate”.
Mirella, nei due incontri, era accompagnata da Doriana Ferrato e dagli altri amici dell’Aned della Spezia l’associazione dei deportati, e dalla figlia Ambra Laurenzi, membro del Comitato Internazionale di Ravensbruck. Ambra ha raccontato ai ragazzi la storia del campo. Fu costruito a partire dal 1938, ed era inizialmente destinato alle donne tedesche, ebree o avversarie politiche del nazismo. Poi le donne arrivarono anche da altri Paesi: alla fine le deportate furono 135.000, di cui 50-60.000 decedute. Il campo di lavoro coatto della Siemens fu costruito nel ’42. Il primo convoglio di donne italiane arrivò il 30 giugno ‘44, con le deportate di Milano. Il campo fu anche sede di sperimentazione medica, sugli arti e sull’apparato genitale. All’inizio a Ravensbruck non c’era una camera a gas, le donne venivano portate a morire in un paese vicino. La camera a gas fu costruita nel ’43, e fu molto usata negli ultimi mesi, con migliaia di vittime. Ambra ha giustamente ricordato che il 27 gennaio celebriamo la liberazione di Auschwitz, ma che da allora, negli altri campi, cominciò il periodo peggiore.
Mirella e Nina tornarono a Spezia nell’ottobre ‘45, Mirellasi trasferì quasi subito a Genova e poi in altre città, Nina visse nella nostra città fino agli anni Ottanta, morì poi nel 1989. Nessuna di loro parlò. Così fecero le altre donne deportate. Temevano di essere accusate di “aver fatto qualcosa con i tedeschi” per poter tornare. La deportazione femminile finì con il diventare una colpa, a causa dei sospetti che venivano espressi. Mirella cominciò a parlare nel 1999, spinta da Bianca Paganini, che era stata tra le prime a testimoniare, nel libro “La donne di Ravensbruck” del1978.Da allora, dopo 55 anni di silenzio, Mirella gira l’Italia a raccontare. “Oggi -ha detto ai ragazzi- ci sono l’intolleranza, il razzismo, l’indifferenza verso il diverso, le tendenze autoritarie… sono i germi dei regimi… bisogna parlare del passato… fu tutto deciso dal governo nazista, con l’indifferenza di gran parte della popolazione tedesca… bisogna cercare di capire e resistere, per evitare che il passato ritorni”. Nel trentesimo anniversario della liberazione del campo una ex deportata piantò una rosa nel monumento alle vittime di Ravensbruckeretto nel cimitero di Père-Lachaise a Parigi, dandole il nome di “Resurrezione”. Da allora le rose sono piantate lungo tutto il muro di recinzione del campo. Sono il simbolo di tutte le donne che a Ravensbruck hanno patito e hanno lasciato la vita.
Post scriptum:
Su Bianca Paganini si veda, in questa rubrica, “La dolcezza e la serenità di Bianca”, 10 marzo 2013
La foto in alto ritrae l’ingresso del campo di sterminio di Terezin, con la scritta “Il lavoro rende liberi”
La foto in basso ritrae un monumento eretto nel campo di Mauthausen, che riporta i versi finali della poesia “Germania” di Bertolt Brecht, scritta nel 1933, all’avvento del nazismo: “O Germania, pallida madre! Come t’hanno ridotta i tuoi figli, che tu in mezzo ai popoli sia o derisione o spavento!”
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