Ma il jeans non è solo genovese
Città della Spezia, 5 settembre 2021 – Nella storia del jeans c’è anche Spezia. Il tessuto color turchino -dato dall’uso tintorio dell’indaco- trae origine da una lontana tradizione e dai telai contadini tra Liguria e Provenza, compresa la Lunigiana interna. Era un ordito di canapa e cotone tinto appunto in azzurro indaco, già del tutto simile al tessuto attuale.
Il Museo Etnografico spezzino, fondato nel 1906, conserva molti elementi originali del costume popolare delle Cinque Terre, di Biassa, della Val di Vara e della Val di Magra confezionati con questa stoffa turchina, che aveva il nome dialettale di büdana. Merito della collezione di Giovanni Podenzana, naturalista, viaggiatore, etnografo spezzino, studioso della cultura e delle tradizioni popolari delle comunità rurali del nostro territorio dalla metà del Settecento ai primi decenni del Novecento.
Le schede d’archivio del Museo testimoniano che la büdana, stoffa da lavoro, di fattura semplice e priva di decori, resistente ed economica, usata nella bella stagione in alternativa alla “mezzalana” invernale, era diffusa soprattutto sulla costa (per le Cinque Terre fanno fede i dipinti di Telemaco Signorini che immortalò le donne di Riomaggiore nei loro vestiti tradizionali) e nella bassa Val di Vara, anche se non mancano in collezione gonne, giacchini da bambino e abiti scamiciati provenienti da Sarzana e dal Golfo della Spezia (Biassa).
Ma chi realizzava la büdana? Erano le tessitrici della Val di Vara e degli altri nostri territori, che confezionavano anche i capi cuciti.
Questa storia, come tante altre, assolutamente non compare nell’evento genovese “Genova jeans”, con cui il capoluogo di regione ambisce a diventare la “capitale mondiale del jeans”.
In realtà sul tema “di cosa è fatto il jeans e da dove viene il suo nome” c’è una nota e annosa controversia. Viene da De Nîmes o piuttosto da Gênes? Per entrambe le ipotesi mancano le “prove storiche”. E’ una ricerca non esaurita, forse mai esauribile. In questa ricerca giocano un ruolo non solo Genova e Nimes, ma anche Spezia.
La strada da percorrere era già stata indicata dalla mostra “Blu Blue-Jeans. Il blu popolare”, tenutasi a Genova a Palazzo San Giorgio tra 1989 e 1990, organizzata, non a caso, da Regione Liguria, Comune della Spezia e Ville de Nimes: non la competizione ma la collaborazione tra territori. Contemporaneamente si tenne una mostra a Nimes. La scelta fu di procedere insieme e di indagare -la ricerca durò due anni- sui legami commerciali e culturali tra Genova e Nimes, tra Liguria e Provenza, sulle analogie e le differenze circa le tecniche e i colori. Si scoprì che nelle due regioni erano comparsi, già alla fine del Seicento, abiti con tessuti quasi identici e l’uso generalizzato dell’azzurro. Non solo: le statuine dei presepi erano vestite con gli stessi colori. Affinità che stupirono e stupiscono ancora.
La Spezia fu protagonista per gli abiti della collezione etnografica del suo Museo Civico (alcuni costumi della collezione Podenzana sono esposti anche al Museo delle Arti e Tradizioni Popolari di Roma). Un altro tema di studio fu quindi, e dovrebbe essere ancora, il legame tra la Repubblica di Genova e la sua periferia, dalla Val di Vara fino alla Spezia e alla Val di Magra. Anche il legame con Savona dovrebbe essere studiato.
Insomma, il “blu popolare” è un simbolo del Mediterraneo, e come tale andrebbe valorizzato. Le singole città dovrebbero puntare, più che sulla competitività tra loro, sulle reti, sui sistemi, sull’integrazione. Nel loro stesso interesse. Va aggiunto che la valorizzazione dovrebbe essere non solo culturale ma anche produttiva: a Genova oggi non esiste nessuna azienda produttrice di Jeans. Il rischio di “Genova Jeans” è quello di un grosso investimento finanziario genovese che, dal punto di vista culturale, promuova Genova con un’impostazione localistica dalla “veduta corta”, e che, dal punto di vista produttivo, promuova aziende non genovesi.
L’occasione perduta di “Genova Jeans” ci richiama dunque alla necessità di studiare ancora la complessità del passato – le reti di interscambio nell’economia e negli stili della vita quotidiana – e di farla vivere nel presente e nel futuro, all’insegna dell’interconnessione e della cooperazione tra i territori, sia culturale che produttiva.
Nel contempo l’iniziativa genovese ci spinge a riflettere su cos’è il lavoro oggi, anche quello che produce i jeans: un lavoro che calpesta la dignità della persona e dell’altro soggetto avente diritti, la natura. Innanzitutto in Asia e in Africa, ma non solo. Ne ho scritto su MicroMega.net nell’articolo “Il jeans e la lotta per un cambiamento radicale dell’industria della moda”, a cui rimando. Ovviamente anche questo tema non compare nell’evento genovese. O forse sì: ma non ne parlano i lavoratori e la società civile, bensì le industrie -non genovesi- sponsor dell’evento. Eppure papa Francesco ha usato, qualche giorno fa, proprio un giornale genovese, “Il Secolo XIX”, per scrivere che dobbiamo “denunciare, scrivere cose anche scomode per scuotere dall’indifferenza […], per dare voce a chi non ha voce e levare la voce a favore di chi viene messo a tacere”.
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