L’emergenza democratica
Città della Spezia – 4 Novembre 2012 – L’articolo di domenica scorsa a sostegno del reddito minimo garantito per coloro che transitoriamente non hanno o hanno perso il lavoro ha suscitato largo consenso tra i lettori. Siamo, del resto, uno dei pochi Paesi al mondo a non avere questo strumento. In Brasile, un Paese certamente più complesso del nostro, il reddito viene erogato a 63 milioni di persone, cioè all’intera popolazione italiana. Eppure il nostro Governo, che ha appena varato una presunta “riforma del mercato del lavoro”, ha per l’ennesima volta perso il treno. Nonostante il record della disoccupazione giovanile, che è al 35,1%. L’argomento di Monti e Fornero è facile: “i soldi non ci sono, tanto ci pensa la famiglia”. Ma fino a quando la famiglia potrà sostenere questo sforzo? E chi non ha la famiglia giusta cosa fa?
Il dibattito si è concentrato sulle forme possibili di finanziamento: nuove regole alla finanza, tassazione dei grandi patrimoni e lotta all’evasione e all’elusione fiscale, ma anche riduzione selettiva della spesa pubblica. Gli esempi dei grandi sprechi non mancano: se la scorsa settimana ci siamo riferiti ai cacciabombardieri F35, questa volta è facile sparare sulla decisione del Governo di non rinunciare al progetto del Ponte sullo Stretto, che dopo più di quarant’anni di studi divora ancora mezzo milione al mese. Ma molti lettori insistono anche sulla riduzione dei costi della politica, e hanno ragione. Si veda, per tutti, la lettera di Guglielmino Friddi pubblicata domenica su CDS. E’ un tema su cui insisto da tempo: come si può leggere in due articoli di questa rubrica (“Quali sono gli stipendi da dimezzare” e “Quando il vuoto della politica produce l’antipolitica”) o nell’articolo “ Se i partiti sperperano la fiducia dei cittadini”, pubblicato su Repubblica e leggibile su www.associazioneculturalemediterraneo.com. Sono stato fin dalla gioventù un uomo di partito e credo ancora nella democrazia dei partiti. Ma oggi l’emergenza, prima ancora che economico-finanziaria, è democratica: il vero collasso è nel rapporto tra istituzioni e cittadini, tra governanti e governati. I partiti sembrano vivere in una bolla lontana e privilegiata rispetto alla fatica di tutti. I cittadini, soli, o tacciono e non votano, o emettono urla impotenti. Si esce da questa emergenza con partiti che abbiano finalmente cultura, idee, programmi, ma che siano anche capaci di rivoluzionare il proprio modo di essere. Lo dico da tempo alla mia parte politica, la sinistra: nessun partito è oggi credibile se non mette al primo posto una drastica riduzione dei costi e dell’immoralità della politica, con proposte di lunga lena e con scelte immediate e simboliche, anche “unilaterali”, cioè non concordate con la destra. Come quella lanciata tempo fa su Repubblica da Mario Pirani al Pd, rimasta purtroppo senza risposta: il dimezzamento “unilaterale” degli stipendi e dei privilegi dei parlamentari e dei consiglieri regionali (non parlerei dei compensi dei Sindaci, che sono al confronto davvero miseri). Come si fa a non capire che gli italiani condizionano sempre di più il loro voto, o il loro non voto, soprattutto alla disponibilità concreta da parte dei politici alla condivisione di quei tagli al tenore di vita che i cittadini, soprattutto i più deboli, stanno compiendo in questi mesi? E all’utilizzo delle risorse così risparmiate per il finanziamento della spesa sociale e per il lavoro? I cittadini vogliono, insomma, politici che non si sottraggano al comune destino dei sacrifici: tutto il resto viene dopo. “Occorre che l’impegno politico sia un servizio”, si sente dire quotidianamente. Parole sacrosante, ma che possono concretizzarsi solo se gli stipendi degli eletti nelle Regioni e in Parlamento vengono decisamente ridotti. Scoraggiando così il pensiero di perseguire la carriera politica come un affare: i giovani protagonisti del lupanare Pdl in Lazio sono entrati in politica attratti dall’odore dei soldi, non dallo spirito di servizio. La riforma più urgente è quella che fa sì che l’incarico politico sia un servizio onestamente pagato, ma non troppo pagato. E’ questa la prima condizione perché la politica non sia associata alla “casta”.
Ma, detto questo, il ragionamento non è completo. Intanto va aggiunto che gli stipendi troppo alti non sono solo quelli dei politici. Il Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco è stato chiaro: nei Consigli di amministrazione delle banche ci sono troppe poltrone, e le cifre sono spesso stratosferiche, nonostante la crisi (65 volte i salari del bancario medio). E’ uno dei tanti esempi che potrei fare. Ancora, e più in generale: la corruzione di tanti politici deriva certamente dalle retribuzioni troppo alte, nonché dalla crisi dei partiti, che porta a selezionare nel modo peggiore la classe politica; ma anche dalla “cultura del berlusconismo”, cresciuta non a caso insieme alla crisi dei partiti. Dove per “cultura del berlusconismo” va intesa la privatizzazione ad ogni livello della cosa pubblica, la trasformazione dell’aggiramento della legge e dell’impunità in una sorta di diritto acquisito: una visione della vita e dello Stato diventati sensi comuni diffusi. Dobbiamo dunque pretendere molti cambiamenti dalla classe politica ma senza scaricare su di essa tutte le colpe e i difetti, che sono più generali e presenti in tutta la società. Credo, insomma, che dobbiamo “guardarci dentro” un po’ tutti. E che il privato abbia le sue pesanti responsabilità. La corruzione della politica fa rabbrividire, ma su quei 60 miliardi che la corruzione sottrae ogni anno all’economia sana del Paese le responsabilità del privato (imprese e professionisti) pesano quanto quelle di politici e amministratori. Senza contare le mafie (fatturato annuo di 187 miliardi), articolazione anch’esse dell’economia privata, sia pure con complicità nella parte pubblica. E l’evasione e l’elusione fiscale? Si tratta di 290 miliardi l’anno, imboscati dal privato. Anche il liberismo e il mercatismo, per tornare alla lettera di Friddi, hanno quindi le loro colpe. Le due forme della corruzione, quella privata e quella pubblica, si sono saldate in unico sistema, causando quell’emergenza democratica che è un tutt’uno con la grave crisi dei partiti.
C’è, infine, un ultimo punto del ragionamento: qual è l’antidoto alla corruzione? E’ la buona politica. Cioè partiti sani, radicati nel popolo, in grado di sondare e controllare i livelli di vita, le abitudini, le carriere degli eletti. Il bassissimo livello della politica attuale non è il frutto di un eccesso dei partiti ma di una serissima carenza dei partiti. Quelli esistenti sono in gran parte sigle di comodo formate da cordate e potentati che danno la scalata alle cariche elettive. Sono partiti personali e partiti degli eletti, senza vita democratica. E’ una forma partito che ha in sé il virus del degrado etico. Ce lo racconta non solo la vicenda del partito di Berlusconi ma anche quella del partito di Di Pietro.
Dalla crisi dei partiti si esce solo con partiti radicalmente rinnovati, onesti e radicati nel popolo. Non è per niente facile. Impera il personalismo, e nessuno o quasi, dalla crisi della prima Repubblica nel 1992, si è preoccupato di proporre riforme dei partiti e nuove forme di partecipazione attiva dei cittadini. Meno male che, per accorciare il distacco politica-società, sono state inventate le “primarie all’italiana”. L’augurio è che le forze politiche nel loro insieme comprendano per chi suona la campana e ne traggano le debite conseguenze. E che nelle primarie del centrosinistra vinca chi sa fare il salto che il Paese si aspetta: contro il liberismo e il leaderismo, per una società più giusta e per una democrazia che costi meno e in cui il cittadino conti di più.
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