Le periferie, la partecipazione, la città dei ricchi e la città dei poveri
Città della Spezia, 17 aprile 2017 – “Osservata dall’interno, la periferia permette ancora di misurare appieno la distanza che la separa dal centro e dai centri. C’è ancora una periferia fatta di lontananze incolmabili, luogo interdetto alla visibilità delle scenografie urbane, ai codici figurativi e ritualistici dei ‘progetti di città’. Una periferia triste e solitaria, che in ragione della sua deformità si sottrae all’omologazione. Una periferia fatta di minorità e relegazione, squallore e grigiore, banalità, desolazioni, esilii”. Questa “considerazione della periferia come luogo distante” è una delle due tesi di fondo dell’interessantissimo libro di Daniele Virgilio, architetto e responsabile dell’ufficio del Piano urbanistico del Comune della Spezia, intitolato non a caso “In questo luogo distante”: la periferia è ancora periferia, e sconta ancora “problemi fondamentali, esistenziali, carenze funzionali e sociali di base”.
Eppure, ed ecco la seconda tesi di fondo del libro, la periferia “parla ancora per piccole frasi, per balbettii in cui riconoscere l’espressione confusa, ma viva, di un abitare pur sempre in grado di fare del proprio ambito di vita un luogo”. C’è, scrive l’autore, “una superiore verità nel brutto e nell’incompleto, perché ci fanno vedere quello che siamo interamente, internamente”. Le periferie non fanno parte dell’immaginario “ufficiale”, restano ai margini delle visioni di città, ma rivelano un legame profondo tra uomini e luoghi. Dal loro sfondo affiorano frammenti perduti di spazi raccolti, di accoglienza, di comunanza: residui di una città dispersa, ma non del tutto estinta.
Il libro, accompagnato da un dvd con molte fotografie scattate dallo stesso autore, ricostruisce una mappa di questi villaggi nascosti, ognuno dei quali ha una propria “struttura di quartiere”: i “noccioli di urbanità” racchiusi negli edifici storici lungo le strade, che erano lo spazio centrale, su cui sono sorti piccoli monumenti, negozi e botteghe artigiane, segni della vita sociale.
Virgilio ci suggerisce un modo diverso di guardare alla città contemporanea, al di fuori dagli stereotipi della modernizzazione: la periferia non è un territorio senza nome da attraversare o su cui riversare gli “scarti” dello sviluppo, ma un territorio da cui imparare a leggere la città, a capire come negli spazi apparentemente più brutti e desolati si nasconda il senso dell’abitare, di come ovunque, anche negli spazi più depredati, l’uomo sappia costruire significati e ritagliare angoli di vita. E di come in questi angoli si nasconda la vera essenza della città: “il sacro abita in periferia”.
Con Virgilio ho lavorato al Piano urbanistico comunale approvato nel 2000: un buon Piano, giudicato allora un “modello” in Italia, ma oggi in buona parte superato, perché sono sopraggiunti nuovi problemi e nuove sensibilità. In quegli anni mi impegnai per far sì che ogni quartiere avesse la sua area verde e il suo centro sociale, cioè gli spazi che contribuiscono alla qualità della vita delle persone, alla loro integrazione e aggregazione. E per favorire in zone periferiche la nascita di realtà -produttive, di servizi, culturali- attrattive per l’intera città, come il Centro giovanile Dialma Ruggiero a Fossitermi o il parco del Colombaio a Pegazzano. Tuttavia ha ragione Virgilio quando dubita della bontà “delle idee convenzionali di riqualificazione”: non bastano se non c’è “un desiderio di riappropriazione del luogo da parte degli abitanti, un’attribuzione di senso alle cose, un bisogno di riconoscersi senza il quale ogni azione resta inutile, ogni oggetto inanimato”. Il nuovo Piano urbanistico comunale sta per essere portato in Consiglio Comunale: vedremo come affronterà il problema delle periferie. Avendoci lavorato Virgilio, sono certo che sarà ricco di indicazioni per il futuro. Ma, come lui ci ha spiegato nel libro, il Piano non basta: servono pratiche sociali e di vita comunitaria, “in direzione ostinata e contraria” rispetto alla centralizzazione verticistica e all’individualismo antisociale.
Renzo Piano ha scritto che “il grande progetto del nostro Paese è quello delle periferie: la città del futuro, la città che sarà, quella che lasceremo in eredità ai nostri figli. Sono ricche di umanità, qui si trova l’energia e qui abitano i giovani carichi di speranze e di voglia di cambiare”. Piano è un grande architetto, uno dei più capaci per cultura e professionalità. Ma non si può affrontare il problema delle periferie solo con lo sguardo dell’architetto e dell’urbanista. Ricordiamoci la lezione del filosofo francese Michel Foucault, che ai suoi studenti che gli chiedevano se certi progetti architettonici possono rappresentare delle forze di liberazione o, al contrario, delle forze di resistenza, rispose: “La libertà è una pratica. Dunque può sempre esistere in effetti un certo numero di progetti che tendono a modificare determinate costrizioni… ma nessuno di tali progetti, semplicemente per propria natura, può garantire che la gente sia automaticamente più libera… l’architettura e l’urbanistica possono produrre, e producono, degli effetti positivi quando le intenzioni liberatorie dell’architetto e dell’urbanista coincidono con la pratica reale delle persone nell’esercizio della propria libertà”. Se non è così, spiega l’architetto Enzo Scandurra, succede come con la piazza del Quarticciolo a Roma, realizzata dal sindaco Rutelli: gli abitanti la sentono estranea e vogliono ritornare alla piazza che c’era negli anni Cinquanta. L’architettura e l’urbanistica non bastano se sono concepite e realizzate in modo autoritario dal Principe, senza scaturire dall’interpretazione dei bisogni dei cittadini, dalla loro partecipazione e “desiderio di riappropriazione”, dalla mediazione tra i tanti interessi in gioco. Al centro dell’architettura e dell’urbanistica va messo il concetto di spazio pubblico, “inteso con un significato molto ampio, comprendente anche la possibilità di ogni cittadino di partecipare alla vita della città”, come ha scritto il mio caro amico Edoardo Salzano, grande urbanista.
Va detto, infine, che una delle principali condizioni che distingue le attuali periferie da quelle degli anni Cinquanta e Sessanta è la crescita progressiva delle diseguaglianze sociali. Anche in quelle periferie c’era la povertà, ma pure l’attesa e in molti la certezza che il benessere avrebbe raggiunto, prima o poi, tutti gli strati sociali. Ora, invece, c’è il morbo individualista dell’ “Io speriamo che me la cavo”. Un grande storico dell’architettura, l’olandese Joseph Rykwert, ha detto: “La sfida degli architetti? Costruire città più giuste”. E il curatore della Biennale Architettura di Venezia, il cileno Alejandro Aravena, ha ribadito: “L’architettura può sconfiggere la diseguaglianza”. Ma la riflessione più importante su questo tema è quella contenuta nell’ultimo libro di un altro grande urbanista, da poco scomparso: Bernardo Secchi. Per alcuni anni lavorò nella nostra città: i suoi studi andrebbero ripresi e studiati, sono una miniera. Il libro si intitola “La città dei ricchi e la città dei poveri”. Sostiene che l’urbanistica ha forti, precise responsabilità nell’aggravarsi delle diseguaglianze e che “bisogna tornare a riflettere sulla struttura spaziale della città… a conferire agli spazi urbani una maggiore e più diffusa porosità, permeabilità e accessibilità”, perché “le diseguaglianze vanno ridotte anche nello spazio”. Il “rammendo” di cui parla Piano non basta, se non ha questa cornice culturale e politica.
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