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Le parole della piccola e della grande politica

a cura di in data 31 Maggio 2015 – 09:51
Oristano, lo stagno di Santa Giusta  (2014)  (foto Giorgio Pagano)

Oristano, lo stagno di Santa Giusta
(2014) (foto Giorgio Pagano)

Domenica scorsa ero a Chiavari, al “Festival della Parola”. Nei giorni precedenti, in piazza Mazzini, erano stati riascoltati quattro storici discorsi di Alcide De Gasperi, Nilde Iotti, Tina Anselmi e Bettino Craxi. Li abbiamo commentati in un incontro intitolato “Le parole della Grande Politica”, a cui ho partecipato con Fernanda Contri, il primo giudice costituzionale donna della storia repubblicana, Agostino Giovagnoli, storico, e il Sindaco di Chiavari Roberto Levaggi. Un dibattito a più voci: io, per esempio, ho criticato la scelta di inserire quel discorso di Craxi, l’intervento in Parlamento sulla richiesta di autorizzazione a procedere nei suoi confronti da parte della Procura di Milano (29 aprile 1993). Su molte cose abbiamo concordato, in particolare su una: le parole della Grande Politica degli anni dopo la Liberazione sono state ormai dimenticate, sopraffatte dalle parole della “piccola politica” che stanno caratterizzando il dibattito pubblico dell’ultimo trentennio. Oggi le parole sono vuote, o addirittura morte. All’indomani della sconfitta elettorale socialista in Francia il Primo Ministro Manuel Valls ha sostenuto che la parola pubblica è diventata una “lingua morta”. Anche se, almeno in Italia, non dobbiamo mitizzare il bel tempo andato: le parole della Prima Repubblica non sono state solo quelle della “Grande Politica”. Giustamente Christian Salmon ha ricordato il famoso “articolo sulle lucciole”, in cui Pier Paolo Pasolini, nel 1975, diagnosticò nel linguaggio stesso dei dignitari democristiani “il sintomo di un male più profondo: il vuoto del potere”.

IL TEMPO DEI ‘POLITICI’ BANALI

Le parole sono vuote, o morte, tanto più oggi, in quello che Gustavo Zagrebelsky ha definito il “tempo esecutivo”, in cui l’”esecutivo” vorrebbe tutto, e il “legislativo” e il “giudiziario” dovrebbero essere nulla; e, se vogliono contare qualcosa, sono d’impiccio. Leggiamo Zagrebelsky: “Il loro dovere è di adeguarsi, di allinearsi, di mettersi in riga. L’esecutivo deve ‘tirare diritto’ alla meta, cioè deve ‘fare’, deve ‘lavorare’ (e non più domandare). Il legislativo e il giudiziario, se non si ‘adeguano’, costringono a rallentamenti, deviazioni, ripensamenti, fermate: cose che sarebbero normali e necessarie, nel tempo degli equilibri costituzionali; che sono invece anomalie dannose, nel tempo esecutivo. Il tempo esecutivo è anche, e innanzitutto, un tempo in cui la politica è messa in disparte. Chi parla di politica è sospettato di ideologia. La politica è innanzitutto discussione e scelta dei fini in comune. Il tempo esecutivo annulla il discorso sui fini e si concentra sui soli mezzi. Concentrarsi sui soli mezzi significa assumere come dato indiscutibile ciò che c’è, l’esistente, il presente. Il fine unico del momento esecutivo è la necessità che obbliga. Le parole seduttive e di per sé vuote come ‘innovazione’, ‘riforme’, ‘modernizzazione’, ‘crescita’ sono parole non di libertà, ma di necessità, necessità che non lascia spazio alla scelta del perché, ma solo del percome… Le idee politiche svaniscono entro un linguaggio allusivo che non ha nulla di politico. Così, in assenza di discorsi effettivamente politici, i contrasti vengono ridotti alla contrapposizione tra il voler fare e il voler impedire di fare. Il tempo esecutivo è il tempo delle banalità politiche e, parallelamente, il tempo dei ‘politici’ banali”.

QUANDO LE PAROLE PERDONO SIGNIFICATO

Le parole più usate e abusate nel linguaggio dei ‘politici’ banali sono quelle citate da Zagrebelsky. Tutti vi fanno ricorso, a sinistra e a destra, in ogni situazione: il risultato è che queste parole hanno perso ogni capacità connotativa. Consideriamo la parola “riformismo”: da quando circola su tutte le bocche ha cambiato significato, ha subito un’autentica trasformazione semantica. Storicamente il “riformismo” era saldamente incorniciato dentro l’orizzonte di emancipazione delle classi subalterne. Era una modalità per conquistare il miglioramento delle loro condizioni di vita, la redistribuzione della ricchezza, la riduzione delle diseguaglianze. Oggi il “riformismo” è quello della destra che rimette in discussione e demolisce molte conquiste democratiche e sociali realizzate dal movimento delle classi subalterne. Non solo: la sinistra ha continuato a fare ricorso al termine “riformismo” attribuendogli sostanzialmente un significato analogo a quello che vi infonde la destra. Non mi riferisco solo a Renzi, ma anche a chi c’era prima di lui.
“Innovazione” è un’altra parola chiave del linguaggio politico italiano a cui si ricorre senza freni, a destra e a sinistra. Si tratta di una sollecitazione ambigua e indefinita, che tende a coincidere con un termine che andò molto di moda verso la metà degli anni Novanta: “nuovismo”. Entrambi stanno a significare un’ansiosa ricerca di segni di cambiamento: come, quali e perché ha poca importanza. Sulla strada dell’”innovazione” continua la sinistra ha diluito e disperso il proprio messaggio fino all’insignificanza.

ELOGIO DELLA LENTEZZA

E nella campagna elettorale regionale? Ormai non ci sono più parole connotative per destra e sinistra, conservatori e progressisti. E’ un’unica, indistinta, melassa. Si prenda la parola “velocità”, parola chiave della campagna del Pd. Certamente bisogna “fare” le cose. Ma quali cose? La sollecitazione è anche in questo caso indefinita. E poi, anche se fossero cose giuste, l’importante è farle bene. Senza troppa fretta. Se il corpo, come raccomanda l’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha bisogno di almeno 5mila passi, lenti, al giorno, la mente rischia il buio nel sovrapporsi di decisioni troppo rapide e noi rischiamo di fare scelte sbagliate. C’è un vecchio proverbio popolare che recita: “Respira, prima di parlare”. Nell’attimo del respiro c’è il riconoscimento del valore della lentezza, che riesce a farci ascoltare le ragioni degli altri prima di esporre le nostre. Solo questo ritmo, non sottoposto alla pressione di continui strappi, porta al vero dialogo e a una vera ricerca di reciproca conoscenza. La lentezza vuol dire vita buona ma anche coltivazione del pensiero razionale, della conoscenza e della meditazione. La democrazia è deliberazione, cioè discussione pubblica razionale, prima della decisione: la deliberazione non è perdita di tempo in chiacchiere, non ostacola o ritarda la decisione, ma la incalza, la prepara, la cambia, la rende migliore.

Oristano, Marina di Torre Grande  (2014)   (foto Giorgio Pagano)

Oristano, Marina di Torre Grande
(2014) (foto Giorgio Pagano)

PRIMA LE PERSONE

Le parole più “grandi” sono quelle di una forza “piccola”, Progetto Altra Liguria. “Prima le persone” è una frase bellissima: vuol dire che la politica deve uscire dalle “oligarchie dei giri” e riconnettersi alla vita reale. Nei giorni scorsi è venuto in Liguria, alla ricerca dei suoi trascorsi liguri a Favaro, Josè Alberto “Pepe” Mujica, ex Presidente dell’Uruguay. Una persona straordinaria. Leggiamo un brano di una sua intervista a un quotidiano italiano: “Dobbiamo imparare a muoverci per il governo della specie e non solo in base agli interessi dei Paesi, dei singoli Stati, con la consapevolezza che siamo responsabili di un pianeta, di una barchetta che sta andando alla deriva nell’universo. Bisogna avere chiaro che non governano le persone, ma gli interessi del grande capitale finanziario e i suoi ricatti. Abbiamo un’arma più vicina del Palazzo d’Inverno su cui agire, qualcosa di più vicino e potente: le nostre menti e le nostre coscienze. C’è una rivoluzione possibile nella testa di ognuno per costruire una nuova umanità. Dobbiamo agire perché ognuno sia cosciente che il mercato ci toglie la libertà. Non cambiamo il mondo se non cambiamo noi stessi. Per tanto tempo abbiamo seguito una linea tracciata: abbiamo pensato che bastasse prendere il potere, cambiare i rapporti di proprietà e di distribuzione per cambiare l’umanità. Invece quel che è successo in Unione Sovietica ha dimostrato che le cose sono molto più complicate. Oggi dobbiamo puntare di più sulla cultura. Non dobbiamo agire per comandare ma perché le persone diventino padrone di se stesse”.

CIAO “FRA DIAVOLO”

Mentre scrivo mi giunge una notizia dolorosissima, anche se purtroppo non inattesa: se ne è andato Luigi Fiori, il comandante partigiano “Fra Diavolo”. Un mio caro compagno e amico, un combattente infaticabile per i valori della Resistenza e della Costituzione. Potete leggere le sue parole in “Lerici ribelle”, in questa rubrica (27 aprile 2014). Molto belle sono le sue ultime parole, raccolte da Alessio Giannanti e Simona Mussini nell’ultimo numero di Micromega: “In Val di Taro mi hanno subito dato il nome di battaglia di ‘Fra Diavolo’, come il brigante di Itri. Questo nome era stato scelto perché dicevano che fossi elegante nel vestire… sicuramente mi era rimasto un mio senso dell’ordine e della disciplina, che un po’ era dovuto al mio essere un ufficiale del regio esercito, ma soprattutto dipendeva dalla mia educazione borghese. All’inizio non è stato facile, mi sono dovuto confrontare con persone molto diverse da me, diverse per educazione e provenienza sociale, ma la Resistenza è stato anche questo miracolo: mettere insieme contadini, operai e borghesi per perseguire un comune ideale. Lassù ai monti, un povero montanaro e un intellettuale, un professore universitario erano sullo stesso piano, contavano come persone, non per il loro status… Io mi sono sempre chiesto che Paese sarebbe oggi il nostro se si fosse veramente applicata la Costituzione? Perciò io dico che il miglior programma politico è quello di tornare alla Costituzione, di applicarla fermamente, e fare leggi che siano dalla parte degli operai, dei giovani, insomma dalla parte dei più bisognosi. I politici di oggi si sono adattati a quello che era l’andamento della società, e sono diventati in gran parte intrattabili, si comportano in maniera disonesta, se voi guardate, la politica è tutta presa da queste cose, sono tutti coinvolti in un modo o nell’altro. Invece bisogna non cedere mai. L’onestà è l’onesta”. Luigi, in questi anni, ha portato nelle scuole e nelle piazze 80mila copie della Costituzione: il libro che contiene tutte le parole della “Grande Politica”. All’Italia che vuole, per dirla con Machiavelli, “ingaglioffirsi”, dimenticando le sue radici, dobbiamo continuare a contrapporre e a riproporre l’Italia di “Fra Diavolo”.

icona-pdfTesto dell’intervento a “Le parole della Grande Politica”

 

lucidellacitta2011@gmail.com

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