Laura, l’amore perduto e la speranza nella giustizia
Città della Spezia, 27 luglio 2014 – “Da quando ho conosciuto la storia di Facio non ho saputo staccarmene più”: così ha esordito Marco Balma, attore-autore di “Cuore d’oro piombo d’argento”, lo spettacolo teatrale della Compagnia degli Evasi dedicato al partigiano Dante Castellucci Facio andato in scena a Sarzana il 22 luglio, nel settantesimo della sua morte. Il 20 luglio ero al Lago Santo, a commemorare la battaglia che vide protagonisti Facio e otto suoi uomini, e ho pranzato al Rifugio Mariotti con Pietro Gnecchi, l’unico eroe superstite: aveva il fazzoletto tricolore al collo e un escursionista, incuriosito, si è avvicinato per sapere chi fosse. Dopo averlo saputo, ha confessato: “Ogni volta che vado al cimitero di Pontremoli a trovare i miei genitori vado anche alla tomba di Facio, perché è stato un uomo davvero speciale”. Il pomeriggio del 22 abbiamo ricordato Facio ad Adelano di Zeri, sul posto dove fu ucciso dai suoi compagni (sulla vicenda ho scritto molto, in ultimo si veda su questo giornale “Settant’anni fa l’esecuzione del partigiano Facio”, 22 luglio 2014). Con noi c’era Laura Seghettini, la partigiana che Castellucci conobbe e amò ai monti, che fu con lui fino alla fine. E che da allora si batte per lui, per rendergli giustizia. Una battaglia lunga settant’anni, pensate! Non sembra vero nell’epoca delle storie d’amore sempre più brevi e fuggevoli. Ecco perché anche la sua vita merita di essere ricordata.
Laura, nata a Pontremoli nel 1922, si diplomò maestra e si impegnò subito in attività antifasciste. Per evitare l’arresto andò sui monti e raggiunse il “Picelli”, il battaglione comandato da Facio, superò la sua iniziale riluttanza ad accogliere una donna e si inserì nella banda facendosi apprezzare da tutti. Quando nacque il loro amore, racconta Laura in “Al vento del Nord”, “Facio lo comunicò in un modo un po’ inusuale ai suoi uomini… un giorno mentre stavamo pranzando si alzò e rivolto a tutti disse: ‘Vi comunico che Laura ha scelto me’”. E a Laura Facio consegnò l’ultimo biglietto da dare alla madre: “Mamma cara, accogli Laura, mia moglie. E’ stata con me nella lotta e le ho voluto molto bene.” Laura assistette al processo-farsa a Facio, che si concluse con la condanna a morte in nome del Partito Comunista: “Era Salvatore (Antonio Cabrelli) che gestiva la situazione, gli altri assistevano”. Ma leggiamo la testimonianza di Laura: “Salvatore ambiva a un ruolo di primo piano nella formazione spezzina che andava organizzandosi; lassù si erano infatti già raccolti molti di quelli che avrebbero poi dato vita alla nuova formazione, e la presenza di Facio l’avrebbe ostacolato nel raggiungimento di questo suo obbiettivo. Salvatore, inoltre, voleva togliere di mezzo l’unico che sapesse di non dargli incarichi, secondo l’ordine ricevuto da Parma (la Federazione parmense del Pci aveva raccomandato a Facio di non fidarsi di Cabrelli, sospettato di essere una spia fascista), al quale non aveva obbedito perché egli, con la sua dialettica, aveva saputo convincerlo. Soltanto io ero presente alla conclusione del ‘processo’; mi sembrava che Facio fosse spiritualmente assente, era come ammutolito, non reagiva… Il suo turbamento era comprensibile… Chiesi a Salvatore: ‘Perché tutto questo?’, ma non ebbi risposta. Allora mi rivolsi a Facio: ‘Perché non ti difendi?’, e lui mi rispose: ‘Io non mi difendo dai compagni. Se ritengono che io abbia sbagliato pagherò’… Finito il ‘processo’, io e Facio fummo mandati in una stanza vuota della casa, insieme a un gruppo di partigiani di Tullio (Primo Battistini, schierato con Cabrelli), armati di mitra… A un certo punto della notte un partigiano gli disse: ‘Scappa che noi ti guardiamo le spalle’. Facio replicò: ‘Sono fuggito dai tedeschi, non scappo ai compagni’… Quando iniziò ad albeggiare vennero a prenderlo… Ci lasciarono due o tre minuti da soli nella stanza d’entrata nella casa e Facio, nel salutarmi, disse come ultima parola ‘Grazie’”. Alla morte di Facio Laura passò nel parmense, dove diventò vice comandante di brigata: è lei la giovane donna in prima fila nella foto della sfilata partigiana a Parma il 9 maggio 1945. Dopo la Liberazione, lo ha rivelato lo studioso Cesare Cattani nel suo intervento ad Adelano, venne a Pontremoli Otello Sarzi, il grande burattinaio amico di Facio e dei fratelli Cervi, per uccidere Cabrelli: ma fu Laura a impedirglielo, “perché troppo sangue era stato versato”. Laura nel dopoguerra raccolse le testimonianze scritte dei partigiani del “Picelli” a difesa di Facio -conservate presso l’Archivio dell’ Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Parma- e denunciò Cabrelli, che però riuscì a cavarsela grazie all’amnistia. Andò anche da Giorgio Amendola, dirigente nazionale del Pci, che le disse: “Noi siamo sicuri di essere stati traditi da Cabrelli, però non abbiamo i documenti per denunciarlo”. Alla fine Laura si arrese, anche per non danneggiare il suo partito e la lotta partigiana: era questo lo “spirito del tempo”. Ma ha ripreso la sua battaglia negli ultimi anni, quando gli storici hanno cominciato a fare luce sulla vicenda.
La storia di Facio e Laura suscita tante riflessioni e muove tanti sentimenti. Innanzitutto in chi, come me, è stato militante e dirigente del Pci. E’ vero, la Federazione spezzina del Pci criticò subito l’uccisione di Facio, e nel dopoguerra Cabrelli, Tullio e gli altri responsabili furono allontanati. Ma i miei “vecchi”, i dirigenti comunisti già partigiani da cui ho imparato tanto, in questa vicenda sbagliarono. Dovevano fare luce e chiedere scusa. La verità è sempre rivoluzionaria, per citare Antonio Gramsci, e non offusca la grandezza della Resistenza. Meglio fare emergere le macchie e difendere la purezza di fondo della Resistenza che ingabbiarla in una retorica che finisce con l’essere ipocrita, come nel caso della falsa medaglia a Facio. Con Pietro Gnecchi, domenica, dicevamo: “Di fronte all’Italia com’è oggi, è valsa la pena del sacrificio di tanti giovani ai monti?”. Certo, “ne è valsa la pena”, mi ha detto Pietro. Comunque e nonostante tutto. E questa non è solo la risposta di Pietro, è la risposta collettiva di una generazione che ha lottato e che si appresta a lasciare la scena. L’addio alle famiglie, i ponti minati, il freddo e la neve, la fame, i pidocchi, anche la violenza, a volte brutale: sì, ne è valsa la pena, perché è stato il modo in cui il popolo italiano ha conquistato la libertà ed è rinata la nostra Nazione. Comunque e nonostante tutto, nonostante le miserie di vicende come quella di Facio. Che vanno raccontate e spiegate.
Una Nazione non vive senza miti fondativi, e la Resistenza è il nostro mito fondativo. Nulla può sostituire l’antifascismo come fondamento della Nazione: perché fu il fascismo a toglierci la democrazia, e fu la Resistenza antifascista a riconquistarla. L’antifascismo è ancora uno strumento per leggere il mondo, per capire quasi istintivamente da che parte stare. Scendendo dal Lago Santo con alcuni amici ci siamo chiesti: “Ma l’antifascismo è ancora la base della Nazione?”. Cosa c’entra l’idea secondo cui il partito che vince le elezioni deve poter prendersi tutto con l’ispirazione democratica e antifascista della Costituzione nata dalla Resistenza? Se la maggiore delle minoranze (al netto dell’astensionismo) può eleggere il Presidente della Repubblica e controllare per questa via la Corte Costituzionale e il Consiglio Superiore della Magistratura, nonché il processo di formazione delle leggi, non siamo fuori dal sistema costituzionale dei contrappesi?
La vicenda di Facio, infine, fa riflettere sul destino della politica. Io ho lasciato quella “tradizionale” più di sette anni fa, perché vedevo già la “mutazione antropologica” che l’attraversava: individualismo, competizione, ambizione aggressiva, un grande bisogno di soldi… Un universo di solitudini rabbiose e di affidamenti leaderistici che è via via peggiorato in questi anni. E perché capivo che sono decisamente di altra natura le cose che contano, nella vita come nella politica. Conta una dimensione comunitaria di cooperazione e di condivisione, e contano le persone e la loro “liberazione” personale. Come nella Resistenza. Eppure anche allora, in un’epoca di forti idealità, c’erano l’aggressività per il potere e la demolizione astiosa dell’avversario. C’era ogni tanto un Cabrelli, tipico rappresentante di una razza che è poi proliferata, invadendo la scena (anche se per fortuna, mutato il contesto, non ha usato il fucile). Il “demone della politica” di cui parla Max Weber, insomma, c’è sempre stato. E oggi ha profanato quasi del tutto la politica. Ma non può, non deve finire così. Bisogna battersi ancora. Come fecero Facio, Pietro e tanti altri giovani ribelli, generosi e altruisti, settant’anni fa. Pietro mi ha chiesto: “I ragazzi di oggi farebbero ciò che abbiamo fatto noi, se servisse?”. “Nel mondo c’è chi lo fa, e anche da noi la generosità e l’altruismo non sono morti”, gli ho risposto. Certo, i giovani hanno bisogno di maestri. Scrivo al ritorno da un concerto di Franco Battiato e ho ancora in mente il bellissimo verso finale di “Prospettiva Nevski”: “il mio maestro mi insegnò com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire”. I giovani non hanno bisogno di prediche, ma di esempi di onestà, coerenza, dignità, libertà, ricerca dell’idealità. Ora che purtroppo i partigiani se ne stanno andando, tocca a noi tenere viva la loro fiamma.
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