L’arte, il calcio, la natura… Riflessioni sulla globalizzazione
Città della Spezia, 14 agosto 2016 – Se quest’estate siete stati a Pietrasanta avrete senz’altro notato, nel centro storico, numerose sculture prodotte con gli scarti e i rifiuti. Mentre la “Versiliana dei piccoli” ha in corso laboratori sul tema “Arte, materia e riciclo”. Restiamo nella vicina Toscana: Rodolfo Laquaniti, bioarchitetto, ha ristrutturato un casale nella Maremma di Castiglione della Pescaia e vi ha fatto nascere un giardino di statue, realizzato con gli scarti industriali. Gli artisti che trasformano i rifiuti in arte non sono pochi. Papa Francesco, che ha fatto della riflessione sugli “scarti” e sugli “scartati” della società un perno della sua predicazione, ha voluto nei Giardini Vaticani le sculture dell’artista argentino Alejandro Marmo, costruite con gli scarti delle baraccopoli.La foto che vedete in alto è stata scattata, invece, a Sao Tomè e Principe, nel centro di Sao Tomè, la capitale, dove un gruppo di giovani artisti ha dato vita all’”Atelier Rastafà Design”, in cui si realizzano sculture fatte con i rifiuti. Pensate: in una lontanissimaisola africana, uno dei Paesi più poveri del mondo, si adopera lo stesso linguaggio, quello di un’arte che serve a restare umani. Come dice Papa Francesco, “il ruolo dell’artista è contrastare la cultura dello scarto” e denunciare “la sporcizia più brutta: il dio denaro”. Ed è sorprendente vedere che questo ruolo viene esercitato in tutto il mondo, nelle capitali dell’arte occidentale come nelle città africane fatte di baracche di legno. Davvero siamo nel mondo globale, dove non è più possibile tracciare confini.
Un altro esempio possiamo trarlo dal calcio. Tra i Paesi più poveri del mondo c’è anche la Guinea Bissau, anch’essa, come Sao Tomè e Principe, ex colonia portoghese nell’Africa occidentale. Ricordate lo storico gol con cui il Portogallo ha battuto la Francia, vincendo gli europei? Lo ha segnato Eder, all’anagrafe della Guinea Bissau Ederzito Antonio Macedo Lopes, fuggito con la famiglia in Portogallo all’età di 8 anni, con una storia dolorosa alle spalle: il padre è in carcere per l’omicidio della matrigna. Un gol che ha riempito di orgoglio il Paese: il complesso di inferiorità verso l’ex Stato sovrano si è, in pochi giorni, polverizzato. Quando, a Sao Tomè e Principe, vedo i ragazzi che, con addosso le magliette stracciate dei nostri calciatori, hanno voglia di giocare a calcio in ogni luogo -principalmente le spiagge, in mancanza d’altro-, e quando, in Italia, vedo quanti e quali siano i campioni nati in Africa, mi riconfermo nell’idea che il mondo non ha confini, è uno solo. Anche se è attraversato da profonde divisioni nella ricchezza: le economie devastate del Sud globale, vittime di un decennio di risanamento del debito, vengono ora incorporate nei circuiti del capitalismo avanzato attraverso l’acquisizione accelerata di milioni di ettari di terra da parte di investitori esteri per coltivare cibo ed estrarre acqua e minerali per i Paesi che investono. Mentre poco viene fatto per sviluppare le infrastrutture utili alla sopravvivenza delle popolazioni povere. Quanti sono i ragazzi africani che potrebbero diventare campioni e invece sono vittime della fame e della guerra?
Un altro esempio sul nostro mondo globale,su cui ho riflettuto in questi giorni, è quello delle tartarughe marine. La foto che vedete in basso è della spiaggia BomBom, a Principe, dove le tartarughe, in determinati periodi dell’anno, scavano le buche e depositano le uova, per poi scivolare via in mare silenziose così come sono venute. Uno spazio della spiaggia è interdetto all’uomo, perché riservato alle tartarughe. Forse non tutti lo sanno, ma anche in Italia ci sono una cinquantina di spiagge per le tartarughe, giunte dall’Atlantico attraverso lo stretto di Gibilterra o nate nel Mediterraneo. Ancora una volta, qualcosa in comune in un mondo senza confini. Ma in comune, purtroppo,ci sono anche i rischi: le tartarughe, così come tutta la vita sulle coste, sono in pericolo a causa dell’erosione delle coste provocata dai cambiamenti climatici e dalle attività inquinanti a opera dell’uomo. Ciò accade a Sao Tomè e Principe, come ho raccontato, su questo giornale, nella rubrica “Diario do centro do mundo” (“Papa Francesco e il clima come bene comune”, 23 agosto 2015). Ma anche da noi, come spiega il Wwf nel suo dossier “Italia: l’ultima spiaggia”, appena pubblicato.
La globalizzazione, dunque, non ha solo i suoi lati positivi, anzi. Aveva ragione chi protestava a Seattle, a Porto Alegre, a Genova tra il 1999 e il 2001. Il movimento altermondialista lanciò temi che sono attualissimi ancora oggi: dai danni per l’ambiente all’aumento delle diseguaglianze. Non solo tra Nord e Sud del mondo, ma anche all’interno sia del Nord che del Sud. La crisi climatica e la crisi economica e finanziaria sono lì a testimoniare la giustezza di quelle denunce. Capita di rado in politica di assistere a uno scontro dove il torto e la ragione sono nettamente separati in due campi. Seattle, Porto Alegre e Genova furono questo, ma poi tutto si risolse in una lunga vittoria della cattiva politica sulla buona, e in una rinuncia a dare regole alla globalizzazione. Ora però, dopo il quindicennio peggiore della nostra vita, i nodi vengono al pettine.
“The Economist”, la rivista che ha sempre entusiasticamente appoggiato le politiche neoliberiste della globalizzazione senza regole, nelle scorse settimane ha scritto: “Coloro che propongono la globalizzazione, compreso il nostro giornale, devono riconoscere che i tecnocrati hanno fatto degli errori e la gente comune ha pagato il prezzo”. Ma la soluzione non sta nel ritorno ai confini che rigetta le frontiere aperte, nel localismo che rinnega l’internazionalismo. Il punto è che è difficile trovare una soluzione, perché, come ha scritto il grande critico letterario George Steiner, “c’è un’enorme abdicazione della politica, che perde terreno in tutto il mondo”. Questo è il dilemma: non dobbiamo tornare indietro, il mondo è globale, è uno solo;è la globalizzazione senza regole a essere drammaticamente sbagliata; e però non ci sono molte idee per elaborare regole nel segno del rispetto della vita del pianeta, nostra casa comune, e della solidarietà sociale. Arricchire e per certi versi inventare queste idee è il compito gigantesco che attende il pensiero critico e l’intelligenza autonoma. Non si parte da zero, perché resta l’attualità della riflessione altermondialista. E perché nel frattempo è arrivato un Papa che vuole “cambiare il modello di sviluppo globale, senza vie di mezzo” e che per questo ha scritto un’enciclica imperniata sul concetto di ”ecologia integrale”, che coniuga giustizia sociale e giustizia ambientale.
E’ vero: un’idea di uomo sta scomparendo dalla faccia della terra. E l’attesa della giustizia sociale e della giustizia ambientale sembra aver subito una disfatta. Ma i valori dell’umanesimo possono ancora salvarci. Nei mesi scorsi ho scritto un libro sulla Resistenza, perché sentivo il bisogno di verificare alcuni punti fermi, morali e politici, della mia vita. L’ho pensato e in parte scritto in Africa.Grazie all’Africa ho scoperto che esistono valori universali, globali:non mi riferisco solo alla libertà e all’eguaglianza, ma anche alla capacità di autogoverno delle persone, all’emancipazione personale, alla concezione della vita come cammino non solo individuale ma anche e soprattutto con gli altri. Sono i valori della Resistenza italiana ed europea,ma sono anche i valori dell’umanesimo africano. C’è una parola nella lingua zulù che Nelson Mandela ha reso famosa nel mondo: “ubuntu”. E’ un termine difficile da tradurre, ma l’espressione che gli si avvicina di più è “l’insieme dell’umanità”, l’empatia, l’umanesimo. Il poeta e scrittore nigeriano WoleSoyinka spiega così l’”ubuntu”: “la solidarietà è obbligatoria, siamo tutti responsabili, altrimenti perdiamo la nostra umanità”. I depredati di ogni avvenire si sono sempre presi in mano il presente grazie a questi valori. E lo faranno anche in futuro.
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