La strage dei bambini
Città della Spezia, 21 dicembre 2014 – “Lo abbiamo fatto per farvi soffrire”, così i Taliban hanno rivendicato l’attacco a una scuola per figli di militari in Pakistan: 141 i morti, 132 erano studenti, la gran parte bambini, 124 i feriti. E’ successo martedì 16 dicembre a Peshawar. Ecco qualche brano del racconto di Beppe Solfrini, coordinatore di Alisei, una Ong con cui collaboro, in Pakistan:
“Questo è un 16 dicembre che non potrò mai scordare. Come tutte le mattine ho aperto le mail sulla sicurezza per vedere la lista degli attentati, gli assassinii e le indicazioni delle aree che sono diventate off-limits. Ma non potevo immaginare l’orrore di oggi. Peshawar non è un posto sicuro, ma decisamente più sicuro delle zone dove lavoriamo nelle aree rurali del Khyber Paktunwa. Negli ultimi mesi la frequenza degli attentati era diminuita. L’operazione militare degli scorsi mesi nel Nord Waziristan contro le basi dei Taliban aveva debilitato i militanti islamisti che lì avevano creato una loro roccaforte. Ultimamente si poteva azzardare qualche passeggiata in città, i mercati brulicanti di gente sembravano aver ripreso la stessa normalità dei mercati delle altre città del Pakistan. Tutti pensavamo, o speravamo, che la ferocia dei Taliban si fosse fermata. Oggi è successo qualcosa che nessuno poteva mai immaginare potesse succedere. Alcuni terroristi suicidi sono entrati in una scuola della città e hanno cominciato a trucidare studenti e professori. Un professore è stato bruciato vivo di fronte agli alunni atterriti prima di morire, a loro volta uccisi da un colpo alla nuca. Erano bambini. Potevano essere gli stessi bimbi a cui noi stiamo costruendo le scuole ad Hangu. E’ il diritto all’educazione che attaccano questi assassini che si fa fatica a collocare nel genere umano”. E infatti l’indiano Kailash Sathiarty, Premio Nobel per la Pace 2014, attivista indiano che si batte contro la schiavitù dei bambini, ha detto: “ è uno dei giorni più bui del genere umano”.
Nella provincia di cui Peshawar è capitale i Taliban hanno chiuso centinaia di scuole pubbliche, colpevoli di accogliere bambine e ragazze, e di insegnare cose diverse dalla Sharia. E martedì hanno dimostrato la stessa ferocia di quando infierirono contro Malala Yousafzai, l’altro Premio Nobel per la Pace 2014, la diciassettenne simbolo della lotta per l’istruzione femminile, gravemente ferita due anni fa. I Taliban raggiunsero anni fa il loro obbiettivo in Afghanistan, ora ci provano ancora sia in quel Paese che nel confinante Pakistan. Le loro vittime non sono solo i cristiani, sono anche i musulmani, come i bambini di Peshawar, come Malala. Mostra sempre più la corda il doppio gioco dei militari pakistani, che ricevono gli aiuti americani per contrastare i Taliban ma hanno, nel loro seno, soprattutto nei servizi segreti, forze che con queste risorse aiutano gli stessi Taliban, perché colpiscano in Afghanistan e nell’odiata India, il Paese che accusa il Pakistan di essere una centrale della lotta al terrorismo. Può darsi che, di fronte al massacro, le cose cambino, e che gli afghani, i pakistani, gli indiani e gli americani, che stanno archiviando il loro fallimentare intervento diretto in Afghanistan, lavorino realmente insieme contro il terrorismo. Anche se, qualora il cambiamento andasse avanti, i terroristi, cani in gabbia senza pietà nemmeno per i bambini, potrebbero purtroppo compiere altre stragi e vendette.
Ma dobbiamo, nonostante tutto, avere la fiducia di Malala, che ha detto: “Piango questi bambini, che sono miei fratelli e sorelle. Ma non saremo mai sconfitti”. E’ la stessa determinazione di Beppe Solfrini: “Ogni giorno costruendo le nostre scuole sappiamo che costruiamo un pezzo di pace. Che contribuiamo a togliere dalle mani di questa gente futuri terroristi che dopo essere stati indottrinati si fanno esplodere e seminano morte. Le comunità con cui lavoriamo ne sono consapevoli, forse per questo ci proteggono, ci appoggiano, ci incoraggiano. Ogni tanto i Taliban fanno esplodere le nostre scuole. Ma poi in qualche altro posto noi le ricostruiamo. Non potranno vincere perché a vincere sarà l’umanità”. Il ruolo di Alisei, presente in Pakistan dal 2005, a seguito del terremoto che colpì il Paese, e poi delle inondazioni del 2010, è davvero prezioso: ricostruzione, approvvigionamento idrico, risanamento ambientale, strutture sanitarie ed educative, sviluppo agricolo e sicurezza alimentare, non c’è settore in cui Alisei non gestisca interventi in collaborazione con le autorità locali e le organizzazioni internazionali. In una delle provincie in cui opera, gremita di rifugiati afghani, una scuola elementare ospita circa 300 studenti, ma solo 40 siedono nei banchi e in aula coperta, gli altri seguono le lezioni nel patio seduti a terra. Nella maggior parte delle scuole elementari non vi sono neppure i servizi igienici. Alisei potenzia le strutture educative: costruisce nuove aule, fa manutenzione degli edifici esistenti, forma insegnanti, contrasta l’abbandono scolastico, rafforza la partecipazione dei genitori. Metà delle classi costruite sono destinate alle bambine, il che espone al rischio di attacchi violenti: sono l’appoggio e la partecipazione comunitaria a garantire la difesa di queste esperienze (segno che la comprensione verso i Taliban sta scendendo anche nei settori della popolazione un tempo a loro più vicini).
Sono storie che meritano di essere raccontate. Chi ne parla mai? I media, il 17 dicembre, hanno dedicato molto spazio alla strage, salvo dimenticarsene del tutto già il giorno dopo. E’ la stessa indifferenza verso i 23.000 migranti morti nel Mediterraneo in 14 anni, annegati nel tentativo di raggiungere l’Europa dall’Africa (oltre 3.000 nel 2014, fino a settembre). O verso la popolazione di Gaza: 100.000 senzatetto, 60.000 accalcati nelle scuole, decine di migliaia tra le macerie delle loro ex case… Non solo: la nostra società è ormai indifferente anche rispetto al dolore delle persone che ci sono più vicine… nelle periferie delle nostre città, nel giardino dell’Occidente…
Ogni anno il filosofo Mario Tronti invia agli amici gli auguri di Buon Natale, allegando un testo adatto alle festività. Quest’anno Tronti ci parla degli scritti di Giuseppe Stoppiglia, in passato prete operaio, oggi e da tempo animatore dell’associazione Macondo a Bassano del Grappa. “A me piace -scrive Stoppiglia-, incrociando persone sconosciute, che mi sorridano per strada e mi salutino, così come facevano un tempo i viandanti che s’incrociavano in campagna… E’ bello vedere il viso dell’altro, e dell’altra, che si apre, che si illumina, in un’irradiazione spontanea di fiducia e di simpatia”. Ma nella tanto decantata modernizzazione sono invalse abitudini opposte: “Sui treni si parla al telefono con i lontani e non ci si degna di uno sguardo per i vicini. Lungo le strade si passa accanto al prossimo come si passa vicino a un muro”. La stessa cosa accade nei mezzi pubblici pur affollati. E’ vero che è bello sedere e guardare il volto dell’altro, e dell’altra, ognuno diverso. Ma non è più possibile: non riesci a incrociare lo sguardo, perché gli occhi di ciascuno sono fissi sul proprio cellulare.
Saper guardare diventa allora la cosa essenziale. La risorsa fondamentale, in questo prete che non sembra un prete, è la “fede indignata”. La stessa di Francesco, un papa che non sembra un papa. Ascoltiamolo nell’omelia di Lampedusa (8 luglio 2013): “La cultura del benessere, che ci porta a pensare a noi stessi, ci fa vivere in bolle di sapone, che sono belle, ma non sono nulla, sono l’illusione del futile, del provvisorio, che porta all’indifferenza verso gli altri, anzi porta alla globalizzazione dell’indifferenza… Ci siamo abituati alla sofferenza dell’altro, non ci riguarda, non ci interessa, non è affare nostro!… Siamo diventati una società che ha dimenticato l’esperienza del piangere, del patire con”. Di fronte all’individualismo privatistico e alla dittatura del denaro, per Stoppiglia occorre “ritornare alla Politica”, significativamente scritta con la maiuscola: ricercare cioè “una spiritualità che accompagni e orienti il vivere quotidiano”. E’ il segreto per riempire una buona vita, che non si dimentichi mai della vita degli altri.
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