La Shoah e la responsabilità individuale
Città della Spezia, 27 gennaio 2019 – Sono a Gerusalemme, oggi è la Giornata della Memoria. Andrò, come tante altre volte durante le mie missioni in Palestina e i miei viaggi in Israele, allo Yad Vashem: significa “un monumento e un nome”, è un museo dedicato alla memoria dei sei milioni di ebrei vittime dello sterminio nazista. E’ un vero pugno al cuore. Soprattutto la Hall of Names: il soffitto della sala è composto da un cono alto che si protende verso il cielo e mostra le fotografie delle vittime, che si riflettono nell’acqua che è in un cono opposto scavato nella roccia della montagna.
Yad Vashem e la Shoah ci inducono sempre a interrogarci. Come è potuto accadere? Scrisse Primo Levi, parlando dei propri aguzzini in “I sommersi e i salvati”: “Erano fatti della stessa stoffa, erano esseri umani medi, mediamente intelligenti, mediamente malvagi: salvo eccezioni, non erano mostri, avevano il nostro viso”. I carnefici non erano diversi dagli altri esseri umani, dalle loro vittime. Bisogna averne consapevolezza, per capire quanto sia importante la responsabilità individuale. Siamo noi che scegliamo se vogliamo essere carnefici o no.
L’OBBEDIENZA NON E’ PIU’ UNA VIRTU’
Prima di partire per la Palestina sono stato a Zeri e a Varese Ligure, a commemorare il terribile rastrellamento nazifascista del 20-25 gennaio 1945. La parte più significativa di queste manifestazioni è quella in cui prendono la parola le ragazze e i ragazzi delle scuole: leggono brani, cantano canzoni, raccontano la storia. Mi ha fatto piacere che abbiano letto alcune testimonianze raccolte in “Eppur bisogna ardir” e in “Sebben che siamo donne”: il merito non è dell’autore, è delle donne e degli uomini che in questi libri hanno raccontato la loro vita e la loro lotta. Al centro delle testimonianze c’è il tratto di fondo della Resistenza: quello della responsabilità individuale. Una scelta che, prima che ideologica e collettiva, fu personale, fatta singolarmente. La scelta che fecero gli eroi, i comandanti, i partigiani in armi, ma che fecero anche le donne e gli uomini semplici, le contadine e i contadini che li sfamarono, li curarono, li protessero.
Le ragazze e i ragazzi di Zeri hanno letto questo brano della testimonianza di Piera Malachina, giovane contadina di Montelama di Zeri, sul sostegno ai militari sbandati dopo l’8 settembre 1943:
“Ricordo come fosse adesso il 9 settembre del 1943. Al pomeriggio avevo preparato un bel paiolo di minestrone. Alla sera verso le 19 vado nella stalla a mungere le mucche, poi porto in casa il latte. Già mi pregustavo la scorpacciata di minestrone con la mia famiglia, quando qualcuno bussa alla porta, il babbo apre ed entrano nove fanti italiani tra cui un ufficiale: erano sbandati che chiedevano da mangiare. Mio babbo li fa accomodare e offre loro il minestrone, mentre a noi pane e formaggio. Stavo per protestare ma il babbo mi zittisce dicendo che dare da mangiare agli affamati è un’opera di misericordia. Noi ci aggiustiamo con il resto”.
E’ la fiducia verso il prossimo, il farsi carico del dolore dell’altro, contro la ferocia dei nazifascisti. E’ la scelta morale individuale per il bene, contro il male.
In un articolo pubblicato su questo giornale, dedicato alla testimonianza della partigiana Vera Del Bene, raccolta dalla figlia Oretta e pubblicata in “Sebben che siamo donne”, l’amico -e bravo ricercatore- Alberto Scaramuccia ha scritto:
“Le camicie nere contro cui sparava avevano ricevuto un indottrinamento fin da bambini che li aveva indirizzati su percorsi che per molti addirittura andavano a confliggere con i loro reali interessi. Solo che non lo capivano perché erano stati allevati in modo che non lo capissero… Erano solo dei poveri cristi. Solo che a collocarli dal lato sbagliato della Storia non era stato il destino, come spesso capita di leggere, ma un sistema educativo scientificamente allestito per produrre quel risultato”.
Non sono d’accordo. Perché nella Resistenza si scopre, prima di don Milani, che l’obbedienza non è più una virtù. Vera e le donne e gli uomini della Resistenza operarono una straordinaria rottura culturale per una generazione di italiani che il regime fascista aveva abituato solo a obbedire, alla disciplina come valore civico dominante. I nazisti e i fascisti erano poveri cristi, è vero. Allevati da un sistema educativo che indottrinava, è vero. Ma ci si poteva ribellare. Si poteva disobbedire. In Italia come in Germania, dove pure ci fu una Resistenza al nazismo, il cui simbolo è Willy Brandt, che fu poi Cancelliere della Repubblica Federale Tedesca. Per i tedeschi in Italia parla la storia di Rudolf Jacobs, l’ufficiale che disertò, si unì ai partigiani e morì in un assalto all’ hotel Laurina, sede sarzanese delle Brigate Nere, il 3 novembre 1944.
A Varese Ligure ho ricordato don Giovan Battista Bobbio, parroco di Valletti, dove operava la “Brigata Coduri”. Il 29 dicembre 1944 -era un’azione preparatoria del rastrellamento del 20 gennaio- un distaccamento tedesco fece molte vittime tra i civili di Valletti, il giorno dopo stavano per arrivare gli alpini della Monterosa assetati di sangue. All’invito pressante a lasciare Valletti ormai circondata dagli alpini, don Bobbio rispose calmo e deciso: “Ho questi morti e in casa la mamma che non sta bene: non voglio abbandonare né l’una, né gli altri”. Fu catturato il 30 dicembre, sopportò le vessazioni di una lunga via crucis, fino a Chiavari, dove fu fucilato il 3 gennaio 1945.
In quegli anni non ci fu solo chi obbediva. Ci fu la disobbedienza, una frattura profonda che portò a una nuova coscienza morale e politica.
L’OPERAIO CHE NON GUARDO’ DALL’ALTRA PARTE
Nei momenti chiave della storia c’è sempre bisogno della responsabilità individuale. Nei giorni scorsi è stato commemorato, a quarant’anni dalla morte, Guido Rossa, l’operaio comunista genovese che, nel momento in cui le forze eversive portavano il loro assalto alla nostra democrazia, ebbe il coraggio di non guardare dall’altra parte, denunciò i brigatisti rossi in fabbrica e per questo fu ucciso. Andai ai suoi funerali, una grande manifestazione di popolo. Ho un segno indelebile di quella giornata: il valore della scelta, del non cedere alla meschinità della paura e della fuga dal senso di responsabilità.
Lo ha ricordato il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella commemorando a Genova il sacrificio di Rossa:
“Assumersi delle responsabilità è difficile, e può diventare pesante: ma l’Italia, a partire dalla Resistenza, si è basata su questa capacità, nel suo progredire. Donne e uomini che hanno saputo in famiglia, sul lavoro, nella vita di tutti i giorni, assumere le proprie responsabilità”.
DOBBIAMO SCEGLIERE SEMPRE, OGNI GIORNO
E oggi? Anche oggi, come sempre, dobbiamo esercitare la responsabilità individuale. Dobbiamo scegliere il bene, contro il male. Sono a Gerusalemme, sto per andare allo Yad Vashem: è il mio piccolo gesto perché la Shoah “non resti che una riga in un testo scolastico”, come ci ammonisce Liliana Segre. Ma non dimentico che cosa succede a Gaza. Sono qui per un progetto che cerca di affrontare il dramma dell’acqua in Palestina. Lunedì il responsabile dei servizi idrici di Gaza mi spiegherà perché a Gaza l’acqua potabile è contaminata e perché lo sarà per moltissimi anni, a causa dell’assedio economico di Israele e dei suoi ripetuti bombardamenti alle infrastrutture idriche e fognarie. E mi spiegherà la crisi sanitaria che ciò sta comportando, con l’enorme incremento delle malattie trasmesse con l’acqua non potabile e non depurata. Nello stesso momento in cui difendo il diritto di Israele a esistere combatto la sua politica di assedio a Gaza, di colonizzazione della Cisgiordania e di ebraicizzazione di Gerusalemme est.
Dobbiamo scegliere, sempre, ogni giorno. Scegliere la partecipazione civile e il governo democratico contro l’idea dell’ultimo ventennio, che ha portato agli uomini soli al comando e a cittadini sempre più spettatori, rassegnati e abulici, che baciano le mani agli uomini soli al comando. Scegliere l’eguaglianza economica e sociale contro la diseguaglianza. La dignità del lavoro contro la sua mercificazione. L’accoglienza dei migranti contro il loro respingimento. La liberazione della donna contro la sua oppressione. Dobbiamo disobbedire, non obbedire all’ingiustizia. Dobbiamo concepire la vita come cammino non solo individuale ma collettivo. Dobbiamo essere non solo individui, ma cittadini.
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