La rivoluzione di Francesco e la crisi dei partiti. Confessioni di un politico
Città della Spezia – 29 Settembre 2013 – Prima la visita a Lampedusa: la scelta di un luogo di vicende estreme della povertà e dell’abbandono, l’indicazione di chi sono i “prossimi” nel senso evangelico della parola, la critica alla “globalizzazione dell’indifferenza che ci ha tolto la capacità di piangere”. Poi la grande freschezza antiretorica di come ha parlato della guerra: “la guerra è solo una sconfitta per l’umanità, la guerra porta solo morte”, ma anche “no al commercio e alla proliferazione delle armi”, cioè al fatto che la guerra c’è anche perché si vendono le armi e perché c’è l’oscenità della realpolitik. Infine, in Sardegna, la preghiera della lotta per il lavoro: “Signore Dio guardaci, ci manca il lavoro. Gli idoli vogliono rubarci la dignità. I sistemi ingiusti vogliono rubarci la speranza. Signore, aiutaci a dimenticare l’egoismo e a sentire il ‘noi’, il ‘noi popolo’ che vuole andare avanti. Insegnaci a lottare per il lavoro”. Credo che ora dobbiamo aspettarci un altro segno di rottura su un altro tema chiave della nostra epoca, l’ambiente. Perché quella di Papa Francesco è una rivoluzione: ci sta dicendo che l’umanità del nostro tempo è andata troppo oltre in termini di ingiustizia, di diseguaglianza, di violenza, di indifferenza per i più deboli, come è andata troppo oltre in termini di concentrazione della ricchezza in poche mani e di sfruttamento incontrollato delle risorse del pianeta. I gesti e le parole di Francesco sono di una semplicità e di un’eloquenza irraggiungibili. La sua è la voce che suona più alta a proposito dei grandi drammi del nostro tempo e che è in grado di parlare alle menti e ai cuori delle persone. Che interrompe l’afasia prodotta dallo smarrimento delle identità. Che ci costringe a non voltare le spalle al dolore di chi sta sotto.
Francesco parla innanzitutto alla Chiesa e ai credenti, spingendoli a cambiare. Viene in mente l’intervista postuma al Cardinale Carlo
Maria Martini, nella quale stimava in 200 anni il ritardo storico della Chiesa. Francesco ha iniziato a colmarlo, andando oltre i canoni consolidati della dottrina sociale cattolica. Perché per contrastare la povertà e le diseguaglianze non basta riproporli. Bisogna riconoscere che, come in questi anni è stato inefficace il riformismo socialista, altrettanto lo è stato il riformismo cattolico. Il turbocapitalismo globalizzato e del mercato onnipotente ha sconfitto entrambi. Probabilmente neppure la teologia uscirà indenne dal cambio radicale di punto di vista operato dal Papa. Certamente va cambiata la cultura del cattolicesimo democratico italiano, imperniata sulla mediazione. Non perché la mediazione non serva più. Ma perché Francesco è più immediato, più esigente: chiede ai cattolici di stare dove il mondo ha bisogno e non ha speranza. Domenica 6 settembre, in Vaticano, il Papa ha detto: “la gente oggi ha bisogno costante di parole; ma soprattutto ha bisogno che sia testimoniata la misericordia di Dio”. A chi, come me, ha la fortuna di frequentare la Palestina e di camminare sulle pietre su cui camminò Gesù di Nazareth, vengono in mente le scene di duemila anni fa, quando le folle sulle rive del mare di Galilea videro scendere da una barca un uomo venuto per sfamarle e per confortarle. In fondo il messaggio di Francesco è quello del “Cristo dei pani e dei pesci”: colui che prima di annunciare il suo Vangelo chiedeva ai discepoli di sfamare le persone.
E’ naturalmente arbitrario trarre dalla testimonianza di Francesco indicazioni pratiche di tipo politico. E tuttavia la mobilitazione dell’inquietudine che egli provoca sul tema dei poveri, della pace, del lavoro è una sfida, un assillo per tutti coloro, credenti e non, impegnati nella cultura, nella politica, nell’esperienza sociale. Chi pensa, come me, che l’Unione europea sia figlia dell’ideale rivoluzionario settecentesco della fraternità e dei diritti non può non constatare l’immiserirsi di questo progetto: ne sono grave manifestazione il dramma di cui Lampedusa è il teatro, la pavidità della politica estera europea incapace di comprendere che la frontiera decisiva dell’Europa è quella mediterranea, l’austerity neoliberista che svende il welfare e penalizza il lavoro. Perché il pensiero laico e della sinistra è così povero sui temi sollevati dal Papa? Perché, nei vecchi cuori della sinistra che fu, le parole del Papa suonano come una vecchia canzone quasi dimenticata?
Io non ho dimenticato i versi delle canzoni che cantavamo, e penso che la mia sinistra abbia abdicato ai suoi doveri. Ne ho scritto tre anni fa nel mio “La sinistra la capra e il violino” (la conversazione con Daniela Brancati è ora leggibile su www.associazioneculturalemediterraneo.com). In sintesi: dovevamo, dopo l’89, trasformarci ma rimanendo noi stessi. E’ quanto la sinistra non è riuscita a fare, perché da allora usa le parole degli altri, della destra neoliberista. E ha smesso di pensare a come sia possibile un’altra forma sociale di convivenza e di conflitto, non più nelle mani esclusive dei più ricchi e dei potenti. La colpa politica degli ultimi vent’anni, a destra ma anche a sinistra, è la “rassegnazione al nuovo che avanza”: neoliberismo, leaderismo, decisionismo, deriva oligarchica dei partiti. E pragmatismo senza meta: ma i pensieri lunghi servono, altrimenti la politica -e la sinistra- sono povere, incolori, lontane, fredde, e alla fine inutili. Francesco ci aiuta, perché ci spinge non alla politica dell’immanenza, che accetta il presente, ma a quella della trascendenza, quella che vuole andare “oltre”. E che può avere un’ispirazione religiosa come no: c’è anche un’idea laica di trascendenza, come mi diceva sempre il mio amico fraterno don Andrea Gallo. Ecco perché mi sono separato dai partiti nel 2007 (ma in realtà nel 2005, quando rinunciai a fare il parlamentare): perché non trovavo lì quello che portavo dentro di me, le ragioni e le motivazioni, il “ne vale la pena”. Me ne sono andato. Ma è anche vero che nessuno mi ha cercato. Come un corpo estraneo. In fondo è molto semplice: tu abbandoni chi ti ha abbandonato. Cioè: smisi di fare politica nei partiti perché la buona politica che avevo conosciuto e in cui mi ero formato era progressivamente scomparsa. I partiti si erano ormai trasformati, come scrive lo storico Giovanni De Luna” in un ceto politico poco differenziato sul piano dei valori e molto intraprendente sul piano delle carriere”. Lo scriveva proprio in quegli anni (“Le parole della politica”, 2008) un padre nobile della sinistra italiana, Vittorio Foa: “Una mutazione antropologica è già stata prodotta: io ho atteso con speranza il governo di centrosinistra, ma quando questa speranza si è concretizzata ho provato, e provo tuttora, amarezza, vedendo l’incredibile corsa verso i posti, cioè verso il denaro”. A livello locale era (ed è) forse anche peggio.
Da allora c’è stato in me un “rovello” interiore. Se ne parlo è perché può forse essere utile a riflettere sulle forme della politica oggi. Nel 2007, finito il mio mandato da Sindaco, abbandonai radicalmente i partiti e scelsi l’impegno associativo, civico, culturale. La cooperazione con i paesi in via di sviluppo come principale impegno nazionale, l’Associazione Culturale Mediterraneo come principale impegno locale. E poi tante altre avventure partecipative che a mano a mano si aggiungevano. Ho riscoperto così una dimensione dell’agire politico basata sulla condivisione amichevole di un orizzonte comune e non sulla competizione astiosa per il potere, sul pensare a se stessi con gli altri e non solo a se stessi. Una concezione della politica in cui è centrale l’”esempio”, il fare le cose in cui si crede: aiutare un Sindaco africano o palestinese, supportare i nostri immigrati nella richiesta dei loro diritti, diffondere il pensiero critico nelle scuole… Questo è l’agire politico, non il gigantesco chiacchiericcio mediatico del ceto politico. In questo agire quotidiano mi sono ritrovato con persone che praticano l’intelligenza, la sensibilità, il sentimento di responsabilità in un modo che nei partiti non c’è quasi più. Nello stesso tempo sentivo che i partiti erano indispensabili, e auspicavo un loro rinnovamento. La verità è che l’Italia è nei guai, più che ogni altro Paese, perché da vent’anni, dalla fine della Prima Repubblica nel 1992-1994, non si sono ricostruiti partiti “veri”, radicati nel popolo e con idee e valori, e quindi con classi dirigenti adeguate. A destra il partito-non partito, proprietà personale di Berlusconi; a sinistra un partito senza identità, guidato da gruppi dirigenti corrosi dalle rivalità e dalle ambizioni. Pensavo che il lavoro “dal basso”, nelle associazioni e nei movimenti, dovesse servire anche a cambiare i partiti. E sentivo il bisogno di fare qualcosa anche nei partiti. Ecco perché nel 2011, senza abbandonare le mie postazioni civiche, mi riavvicinai a un partito: la piccola Sel, forza “transitoria”, nata per contribuire a ricostruire la sinistra italiana. Confesso che non ne sono pentito, ma che l’esperienza è per me molto problematica. Non mi riferisco solo alla sconfitta elettorale dell’alleanza con il Pd, ma anche a com’è l’agire quotidiano in Sel: la preoccupazione principale è diventata quella per i “posti”. A Spezia, per esempio, il partito è paralizzato da mesi per le divisioni sull’attribuzione di un piccolo incarico… E c’è pure qualche “sgambetto” antidemocratico. Insomma, il rischio che corre Sel è di diventare un partito come gli altri: chiuso in se stesso e separato dalla vita reale delle persone. La domanda è cruciale: la sconfitta di Sel (come quella del Pd) si spiega solo con la debolezza della proposta politica e programmatica o anche con la crisi della forma partito e delle forme di partecipazione alla politica? Forse se Sel e Pd non hanno capito la domanda di cambiamento degli elettori è anche per il loro modo di essere. Per i notabilati che impediscono contaminazione e apertura. Ecco allora la domanda successiva: rafforzare questi partiti, così come sono, con la loro “costituzione materiale”, serve ad estendere la fiducia ed il consenso dei cittadini o ad aumentare la loro repulsione e distacco? Non servono forse “altri” partiti? La possibile risposta a queste domande passa per una riflessione sul rapporto tra partiti e associazioni/movimenti. Questi ultimi sono un lievito essenziale della democrazia, e i partiti devono dialogare e aprirsi ad essi. Associazioni/movimenti non devono trasformarsi in partiti ma farli ballare, e farli ballare bene, per porre cioè un argine alla loro separatezza e privatizzazione. Ma siamo ancora in tempo? O forse tra qualche anno la politica sarà molto diversa da quella che ho conosciuto e pensato e che ancora mi immagino? Fino a qualche anno fa, a sinistra, nei momenti di difficoltà si usava dire che il movimento è come i fiumi africani, che a un certo punto scompaiono: tutti pensano che sia esaurito, poi all’improvviso il fiume riesce fuori. E se il problema fosse che il fiume non è interrato, ma fuori, da un’altra parte, che bisogna saperlo vedere, e che oggi non sappiamo farlo?
Non ho certezze. Penso però che la cosa più importante che oggi si possa fare è tener viva la partecipazione, la cittadinanza attiva. Ognuno lo faccia dove ritiene, ma è la cosa più importante. E’ un lavorio fragile e sempre sull’orlo della sconfitta, questo impegno per evitare che l’uomo si chiuda in se stesso, ma è l’unica strada. Le scorciatoie arroganti sono fallite. La condanna dell’imperfezione, del ricominciare da capo ogni volta garantisce la libertà. Si può vivere bene con pochi soldi e nessuno status. Ma si vive male senza essere liberi, nella testa, e in lotta contro un presente così triste. Con qualche “rotta” ideale a guidarci. Come la voce alta di Francesco: ecco perché il 7 settembre ho digiunato per la pace, insieme a tanti, con lui. E come la Costituzione, “la via maestra”, la bussola per promuovere un’idea di società “altra” rispetto all’esistente, attorno a cui ricomporre associazioni/movimenti e partiti: ecco perché il 12 ottobre sarò a Roma, insieme a tanti, con Carlassare, don Ciotti, Landini, Rodotà e Zagrebelsky.
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