La pastasciutta della memoria e la difesa della Costituzione
Città della Spezia – 28 Luglio 2013 – “Ho sentito tanti discorsi sulla fine del fascismo, ma il più bello di tutti era la pastasciutta in bollore, vedere i ragazzi cantare e ballare attorno ai paioli”. Così Alcide Cervi, padre dei sette fratelli, amava raccontare l’atmosfera della storica “pastasciuttata” che la sua famiglia offrì a tutti i compaesani subito dopo il 25 luglio 1943, per festeggiare la caduta di Mussolini. Alcide e i suoi figli, la sera del 25 luglio, non avevano ascoltato la radio. Dovevano alzarsi presto, per raccogliere il secondo taglio del fieno. Erano già a letto al momento dell’annuncio: “Sua Maestà il Re e Imperatore ha accettato le dimissioni dalla carica di Capo del Governo, Primo Ministro e Segretario di Stato, presentate da Sua Eccellenza Benito Mussolini…”. I poteri militari furono conferiti al maresciallo Pietro Badoglio. La notizia arrivò la mattina dopo, nell’aia, dove fu subito presa la decisione: “il popolo ha fame e allora gli diamo da mangiare”. Fu una grande festa, che rappresentò in modo semplice ed efficace l’entusiasmo popolare e la speranza suscitati dalla caduta del Duce. Per ricordare e tenere vivo quello spirito antifascista e libertario da ormai vent’anni, nell’aia e nei prati di casa Cervi a Gattatico (Reggio Emilia), la “pastasciutta antifascista” viene riproposta per migliaia di persone. La rievocazione di quella storica serata si è poi disseminata in altre parti d’Italia, tra cui Fosdinovo, al Museo della Resistenza di Spezia e Massa Carrara. C’ero anche quest’anno (sesta edizione), come sempre al tavolo con i miei amici e compagni partigiani Vanda Bianchi, Piero Guelfi e Luigi Fiori. In occasione dei 70 anni del 25 luglio abbiamo anche organizzato, nel pomeriggio, un interessantissimo convegno storico sul 25 luglio in Italia e, in particolare, nelle nostre due province.
Ho introdotto il convegno leggendo un testo che ho raccolto da un altro amico e compagno partigiano, Bruno Brizzi “Cammello”, vicecomandante di distaccamento della Brigata Garibaldi “Cento Croci”, che operò nelle vallate del Vara e del Ceno, ancora lucidissimo nonostante gli acciacchi dell’età. Lo riporto in larga parte (è un testo inedito), perché spiega bene che cosa fu, da noi, il 25 luglio.
“Non ho finito l’avviamento professionale a causa di una malattia grave che colpì mio padre, e ho iniziato a lavorare come apprendista con delle ditte in Arsenale che costruivano montacarichi per sommergibili. Poi sono entrato come allievo operaio alle dipendenze dello Stato all’officina sommergibili. Il mio ‘maestro’, così si chiamavano gli operai specializzati, era un tornitore, si chiamava Del Bello ed era di Sarzana, un uomo di statura alta e corporatura esile, molto intelligente. Era il mese di aprile dell’anno 1941, avevo 16 anni… l’Italia era in guerra. Gli operai anziani confabulavano tra di loro, per la verità non tutti, ma vedevo che alcuni di loro parlavano in disparte, tra cui anche il mio ‘maestro’. Con curiosità cercavo di ascoltare, trovando delle scuse. Capii che parlavano un linguaggio diverso dal comune, ricordo solo una parola tra le altre che mi incuriosiva: ’Soccorso Rosso’. In casa mia non si viveva molto male, mio padre riuscì a superare felicemente la malattia, eravamo una famiglia tra pochissime che possedeva una radio e pertanto avevamo delle informazioni, da ‘Radio Londra’, sugli avvenimenti nazionali e internazionali. Ricordo che avvicinai mio padre durante il notiziario ‘Il Bollettino’ e gli chiesi che cosa volesse dire ‘Soccorso Rosso’. Mi accorsi che rimase perplesso, non rispose subito… mi disse: ‘poi ti dirò’ ed io non insistetti. Come giovane ragazzo che frequentava i coetanei sapevo dell’arresto di un compaesano di Stra, Adriano Vergassola “Geppe”, che aveva un figlio della nostra età… volevamo capire le ragioni… ma erano tempi in cui non si poteva sapere di più. Intanto in Arsenale si continuava a lavorare per la guerra, notte e giorno: sommergibili che arrivavano, danneggiati da scontri o bombe, o sommergibili riparati che partivano. La guerra continuava ma nell’aria si sentiva che qualcosa stava per succedere, e così fu. Il 25 luglio del ’43 cadde il fascismo, ci furono manifestazioni di gioia in tutto il Paese, e anche noi partecipammo, con Del Bello e altri… nel frattempo avevamo capito che era un comunista. Il 29 luglio manifestammo in città e andammo in viale Regina Margherita (oggi Ferrari) dove vi era la sede del 21° Reggimento Fanteria. Avevamo un grosso tricolore e l’immagine di Garibaldi, volevamo spingere le Forze Armate a schierarsi per la pace. Da una finestra del magazzino di artiglieria, di fronte al 21°, dove alloggiavano i militari fascisti, partirono alcune raffiche di fucileria contro il corteo formato dal popolo tra i quali vi erano molti giovani che inneggiavano alla Pace. Venne colpita a morte una ragazza, Lina Fratoni, operaia delle officine Motosi. In un altro corteo in corso Cavour venne ucciso un altro giovane operaio, Rino Cerretti. Si intravedeva che la situazione nazionale precipitava, sia sul fronte di guerra sia all’interno del Paese, con la caduta del fascismo e la formazione di un nuovo Governo che portò l’Italia a chiedere la fine della guerra, l’8 settembre 1943. Dal luglio al settembre continuai a lavorare all’officina sommergibili. La città e di conseguenza l’Arsenale subivano dall’inizio della guerra devastanti bombardamenti aerei da parte degli anglo-americani, anche la nostra officina fu colpita. Le autorità dell’epoca, probabilmente allo scopo di alzare il morale alla città e in particolare agli operai, fecero venire il Re, che visitò i reparti ancora in funzione. Ricordo quando, con tutto lo staff militare, passò lungo il corridoio davanti a noi… una statura molto piccola con un viso contratto, fece un cenno di saluto. In quei mesi si aprirono le porte dell’antifascismo militante e iniziarono le attività organizzate dei partiti antifascisti. Subito dopo l’8 settembre, con un gruppo di uomini sui trent’anni, tra i quali Aldo Cozzani, Gino Montanari, Gino Oldoini, Guglielmo Vergassola, decidemmo di disarmare la batteria del Castellazzo. Con noi c’erano alcuni marinai che fino all’8 settembre presidiavano la batteria, dove erano piazzate mitraglie e cannoni antiaerei. Questi marinai rimasero a Stra e a Marinasco nelle case di alcuni abitanti, tra di loro c’era anche uno spezzino, Nadir Colombo. E alcuni siciliani: Patanè, Ferrara, Mangiapane e altri di cui non ricordo il nome. Ci raggiunse un marinaio di nome Nino Siligato, amico di qualcuno del presidio. Mentre la popolazione, molto provata dalla fame, assaltò i magazzini dei viveri, noi mettemmo fuori uso le armi pesanti, gettandole in profonde cisterne utilizzate per attingere l’acqua. Raccogliemmo invece le armi leggere, che in parte nascondemmo nella chiesetta di Santa Lucia e nei tombini delle strade. Iniziò così una nuova storia. Ci affratellammo sempre più con i marinai siciliani e iniziammo a parlare degli avvenimenti bellici e delle voci che giravano sui movimenti di gruppi organizzati che si opponevano all’esercito tedesco che, dopo l’8 settembre, occupava il nord del Paese. Divenni renitente alla leva per non aver risposto al bando proclamato dai fascisti della Repubblica di Salò che volevano riorganizzare l’esercito alleato ai tedeschi, ed ero un ricercato. Eravamo curiosi di sapere di più dei gruppi che nel frattempo erano cresciuti e iniziavano a dare disturbo ai nazifascisti. Verso la fine di ottobre decidemmo l’avventura, partimmo per Parma…”. Qui comincia la storia di Bruno Brizzi partigiano, raccontata in “Io sono l’ultimo. Lettere di partigiani italiani”, dove c’è anche la storia di Maria Ledda “Mery”, anche lei combattente della “Cento Croci” e poi moglie, fino ad oggi, di Bruno: un libro che è un indimenticabile racconto corale sul fascismo, la libertà e la democrazia, dalle voci dei suoi ultimi protagonisti.
La memoria di Bruno ci fa capire il nostro 25 luglio. Il regime si sfalda e, dopo vent’anni di silenzio, rientrano in scena le masse popolari, in particolare gli operai delle fabbriche. La manifestazione del 29 luglio è innanzitutto una manifestazione operaia, di lavoratori che escono a migliaia dalle fabbriche alle prime ore del mattino. E operai sono i due caduti. A Sarzana, dove la manifestazione si tiene il pomeriggio del 26, protagonisti sono sempre gli operai, al rientro dalle fabbriche del capoluogo. L’altro dato che emerge è l’adesione di molti militari alla mobilitazione popolare. A Sarzana in testa al corteo c’è un bandiera tricolore con tre militari in divisa, uno per ogni arma, a significare l’unità antifascista tra popolo e Forze Armate. E i militari non fanno fuoco contro i manifestanti. A Spezia a sparare sono i militari in Corso Cavour, ma in viale Regina Margherita sono i fascisti, mentre i militari accolgono i manifestanti e sparano ai fascisti: contro di loro ci sarà, nei giorni successivi, un’inchiesta militare. Come raccontava sempre Mario Pistelli, operaio del Muggiano sopravvissuto al lager di Mauthausen, sulla torre del 21° sventolava la bandiera rossa, così al Varignano accanto a quella tricolore.
Certo, il 25 luglio i fascisti si squagliano, ma tornano dopo l’8 settembre, al servizio dei tedeschi e della loro “guerra ai civili”. Con il “colpo di stato” del 25 luglio i fascisti, i capi militari e il Re, preoccupati, dopo la sconfitta in Africa e lo sbarco americano in Sicilia, per la disfatta in guerra, pensano di salvare il salvabile. Ma non hanno un progetto politico. Del resto dare tutte le colpe al solo Mussolini, mentre aveva fallito un intero blocco di potere che tutti li comprendeva, era il segno dell’incapacità di uscire dalla situazione. Per questo la tragedia non fu evitata. Il 25 luglio, più che un “colpo di stato”, fu il consumarsi del fascismo a causa della guerra ormai perduta: una successione al potere che non poteva non portare all’8 settembre e alla divisione dell’Italia in due, con gli alleati al sud e i tedeschi al nord. L’enorme responsabilità del Re e del blocco che aveva sostenuto la dittatura -ma anche dei liberali come Benedetto Croce e Luigi Einaudi che l’avevano avversata- fu quella di non chiamare dopo il 25 luglio il popolo alla riscossa, di non preparare la difesa e di lasciare che i tedeschi occupassero indisturbati il nord Italia. La svolta ci fu con l’arrivo in Italia di Palmiro Togliatti, che capì per primo che bisognava chiamare il popolo alla riscossa e nello stesso tempo fare l’unità con Badoglio, unico straccio di legalità istituzionale in quell’Italia devastata dalla viltà. La sinistra fece il compromesso, ma ebbe l’egemonia nel compromesso.
Oggi non c’è nessun Togliatti. E si rischia che nel compromesso l’egemonia ce l’abbia la destra. Se si discute di riformare la Costituzione per fare il presidenzialismo vuol dire che l’egemonia ce l’ha la destra, che porta il suo avversario storico a riconoscere la bontà della sua proposta. Lo scontro c’è dagli anni ’70: da allora è in campo nel nostro Paese una proposta autoritaria e decisionista, secondo una vocazione tipica delle classi dirigenti italiane fin dalla fondazione dello Stato unitario. Questa spinta c’è anche perché è finito un mondo, quello della politica di massa della democrazia repubblicana. La risposta al presidenzialismo che fa saltare la Costituzione nata dalla Resistenza non è il ritorno a una politica che non può più tornare, ma una nuova espansione della democrazia e della politica di massa, un grande rinnovamento della politica e dei partiti, che si basi sull’assetto parlamentare della Costituzione. Nel tempo ingannevole della “pacificazione” il conflitto giunge nel cuore del sistema e mette in discussione la stessa Costituzione. Ecco perché l’antifascismo oggi vive nella lotta per la difesa della Costituzione, contro il presidenzialismo e per una nuova fase della democrazia parlamentare e partecipativa. Come dice l’Anpi, l‘associazione dei partigiani: “Costituzione, basta giocare col fuoco”.
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