La Palestina diventi uno Stato
Città della Spezia, 28 dicembre 2014 – Il 18 dicembre è stata una giornata molto importante per la Palestina: il Parlamento europeo, con 498 voti favorevoli, 88 contrari e 111 astensioni, si è dichiarato per un riconoscimento “di principio” dello Stato palestinese sulla base dei confini del 1967, il che significa affermare l’illegittimità tanto degli insediamenti delle colonie israeliane nei territori palestinesi quanto della costruzione da parte di Israele del muro che disegna unilateralmente dei confini artefatti e privi di ogni riconoscimento internazionale. La risoluzione approvata appoggia la soluzione dei due Stati con Gerusalemme capitale di entrambi ed esorta la ripresa dei negoziati di pace. L’assemblea legislativa europea non ha potere decisionale in materia di politica estera, e dunque la risoluzione non ha conseguenze dirette sull’atteggiamento dei Governi europei. Tuttavia segna una fase nuova, e spinge perché l’Unione europea riprenda un ruolo -smarrito in questi anni- nel processo di pace in Medio Oriente. Non a caso è stata preceduta da pronunciamenti analoghi da parte dei Parlamenti di Spagna, Gran Bretagna, Francia, Irlanda e Lussemburgo e del Governo della Svezia. Ed è rilevante l’enorme maggioranza che ha condiviso il documento, presentato con un’iniziativa congiunta di popolari, socialisti, verdi, liberali e sinistra. Il voto degli eurodeputati è arrivato poche ore dopo che il Tribunale dell’Unione europea, a Lussemburgo, aveva annullato la decisione dei Ministri degli Esteri dell’Ue nel 2003 di inserire Hamas nelle organizzazioni terroristiche. E, sempre il 18 dicembre, i rappresentanti di 126 Paesi che aderiscono alla Convenzione di Ginevra, riuniti in assenza del rappresentante israeliano e di quello statunitense, hanno votato all’unanimità una risoluzione che chiede a Israele di rispettare i diritti civili dei palestinesi e condanna tutte le violazioni da parte di Israele della legge umanitaria internazionale. Insomma, una giornata positiva per la causa della pace, anche se, sempre nello stesso giorno, il Segretario di Stato americano John Kerry ha comunicato ai palestinesi che gli Usa porranno il veto alla loro richiesta all’Onu di porre un termine all’occupazione israeliana e alla realizzazione di uno Stato di Palestina.
Segnali di cambiamento, dunque, soprattutto in Europa: i pavidi Paesi europei sono forse stanchi di essere complici della colonizzazione e della violazione dei diritti umani. Peccato che l’Italia non si sia pronunciata, e che sia in coda alla lista europea, perché subalterna a Israele. Mi chiedo come faccia il premier di un Paese mediterraneo come il nostro a sostenere una linea simile, che contrasta con la politica estera italiana di tutto il dopoguerra (a parte gli anni berlusconiani: anche in questo Renzi sembra seguire le orme dell’uomo di Arcore…). In ogni caso -ecco la questione di fondo- questi segnali, pur molto importanti, sono ancora troppo deboli e lenti per la Palestina e la sua sofferenza. Proprio il 18 dicembre ne ho discusso, insieme ad altri amici impegnati in attività di cooperazione in Palestina, nell’incontro “Daily Life in Area C. Racconti dai territori palestinesi”, tenutosi all’Università di Genova.
Gli amici dell’Ong Gvc, con cui collaboro, per l’occasione hanno proiettato il documentario “Resonance” (potete visionarlo su YouTube e anche su www.associazioneculturalemediterraneo.com): in poco meno di un quarto d’ora i palestinesi dei villaggi attorno a Hebron, Nablus, Tubas e della valle del Giordano spiegano come sia sempre più difficile vivere sotto occupazione militare in Cisgiordania, con la pressione sempre più forte degli israeliani che vogliono confiscare le loro terre per darle ai coloni. Restando alla Cisgiordania, i miei amici palestinesi di Betlemme mi hanno scritto per Natale raccontandomi le loro enormi difficoltà: la città di Gesù era e resta sotto occupazione, circondata dal muro israeliano di cemento armato alto fino a otto metri che la separa da Gerusalemme, stretta tra gli insediamenti colonici in continua espansione. In questi giorni Betlemme ha il centro colorato dalle luci natalizie, e nella piazza della Mangiatoia svetta, come sempre, un alto albero di Natale con i colori della bandiera palestinese. Le botteghe artigiane mostrano i loro presepi in legno di ulivo, di ogni forma e grandezza: mentre scrivo ne ho uno vicino, ricordo di uno straordinario Natale a Betlemme. Ma l’economia va male, mi scrivono gli amici: arrivano meno turisti, quelli che ci sono visitano i luoghi santi e non spendono nei negozi, nei ristoranti e negli alberghi palestinesi, perché la gran parte dei tour operator è israeliana e fa rimanere i turisti in albergo a Gerusalemme. Senza dimenticare che Israele gestisce in maniera esclusiva i più importanti siti culturali palestinesi tra Betlemme e Hebron, come Herodium, la fortezza dove è sepolto Erode il Grande, nella vetta più alta del deserto della Giudea, e Qumran, dove furono ritrovati i rotoli del Mar Morto: sembra incredibile, sei in Palestina e all’improvviso, dove c’è una possibilità di ricchezza, ti ritrovi in Israele!
Gravissima, poi, è la situazione nell’altra area palestinese, la Striscia di Gaza. Durante l’incontro è stata raccontata da un gruppo di docenti universitari genovesi impegnati in un progetto di collaborazione con medici e pediatri gazawi per la prevenzione e la cura dei bambini. 2.200 morti e 11.000 feriti sono l’esito tragico dei bombardamenti israeliani di luglio e agosto. Il paesaggio è diventato lunare, tutti i servizi, compresi quelli sanitari, sono stati in gran parte distrutti. 100.000 gazawi sono senza tetto, 60.000 vivono accalcati nelle scuole, decine di migliaia tra le macerie delle loro ex case. Occorreranno almeno dieci anni per la ricostruzione. Molti vogliono andarsene per fuggire da una prigione invivibile e cercare di cambiare la propria esistenza: attraverso i tunnel raggiungono l’Egitto e da lì si mettono nelle mani dei trafficanti umani e degli scafisti, che da Alessandria o Port Said, al prezzo di 3- 4 mila dollari, li imbarcano nei barconi di migranti che dovrebbero portarli in Italia. Molte centinaia sono finiti in fondo al Mediterraneo: è una nuova catastrofe, dopo quella dei bombardamenti.
Il quadro, mai così drammatico, si completa considerando la situazione dei palestinesi che abitano nella parte araba di Gerusalemme, vittime anch’essi della continua costruzione di alloggi israeliani; e la situazione di apartheid in cui vive oltre un milione e mezzo di arabi israeliani: il 20% della popolazione di Israele, persone sempre più vittime di discriminazioni e disparità. La recente decisione del premier Benjamin Netanyahu di designare Israele come Stato ebraico sancisce la negazione, anche in via legislativa e non solo fattuale, dei loro diritti.
Ecco perché i segnali di cambiamento sono ancora troppo deboli e lenti. La situazione è gravissima anche e soprattutto perché il conflitto sta assumendo una dimensione sempre più religiosa. Più si parla di religione, più si allontana una soluzione, perché la mediazione della politica diventa più difficile. E’ da tempo che il conflitto nazionale si sta trasformando in conflitto religioso. In Israele la deriva cominciò già con la guerra del 1967. La guerra accrebbe il peso del sionismo religioso, caratterizzato da un fondamentalismo messianico che impone il dovere di sviluppare la presenza ebraica su tutte le terre di Israele. Da allora il sionismo religioso ha assunto l’egemonia culturale dentro l’establishment israeliano, fino a Netanyahu. Purtroppo un fenomeno simile è presente anche in campo palestinese: Hamas sorge nel 1987, ai tempi della prima Intifada, e si impone a Gaza come forza islamista, in una Palestina fino ad allora guidata da movimenti laici. E Israele ha in ciò le sue responsabilità storiche: perché, all’inizio, ha sempre di fatto appoggiato Hamas per indebolire Arafat e Al Fatah (vittime comunque anche dei loro errori). Il simbolo del conflitto religioso è, come sempre, la Spianata delle Moschee a Gerusalemme, luogo sacro per gli arabi. Anche se la tradizione ebraica vieta agli ebrei l’ascesa al Monte del Tempio, dove oggi sorgono le Moschee, i fondamentalisti ebrei non esitano a organizzare preghiere nella Spianata. Ma, ricordiamolo, la “passeggiata” provocatoria nella Spianata dell’allora premier israeliano Ariel Sharon fu all’origine, nel 2000, della seconda Intifada. Oggi assistiamo, purtroppo, ad atteggiamenti altrettanto bellicosi e irresponsabili.
A marzo si terranno le elezioni anticipate in Israele, volute da Netanyahu per liberarsi degli alleati di governo più “laici” e “moderati”. Una sorta di referendum su se stesso. L’opposizione di centrosinistra appare debole, ma bisogna sperare che fermi la spirale estremista dell’attuale leadership. Non è impossibile. Oltre 800 personalità di Israele, tra cui i grandi scrittori David Grossman, Abraham Yehoshua e Amos Oz, hanno firmato una petizione che chiede il riconoscimento dello Stato di Palestina basato sui confini del 1967. I militari dell’Unità 8200, il reparto “cyber war” dell’esercito, hanno scritto una lettera perché “stanchi di frugare nel privato dei cittadini di Gaza”, spiati e ricattati per farli diventare spie. C’è un “altro Israele” che sta rialzando la testa.
C’è bisogno innanzitutto dell’”altro Israele”. Ma anche di una riconciliazione tra i palestinesi, Al Fatah e Hamas, sempre promessa ma mai raggiunta. C’è bisogno che l’Europa riprenda davvero a farsi sentire, e che Barack Obama, come ha fatto con Cuba, voglia finire pensando alla Storia, ritornando dunque al discorso del Cairo e allo spirito originario del suo mandato. La terza Intifada, con uno spiccato carattere religioso, affidata agli individui, ai “lupi solitari” è possibile. Se ci sarà o meno dipenderà da tutti questi attori: Israele in primis, ma non solo. Ora la partita è: si riconosca lo Stato di Palestina, si accentui la pressione su Israele perché interrompa la colonizzazione, si smetta con la violenza da tutte le parti. Non sarebbe ancora la fine dell’occupazione militare, ma certamente quel passo in avanti positivo che finora è sempre mancato. Bisogna, però, fare in fretta, perché in Palestina non c’è una possibilità infinita di attesa di cambiamenti reali e di una prospettiva seria di pace. L’alternativa sarebbe ancora la guerra, questa volta con una connotazione sempre più religiosa.
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