La morte di Usman, la fame dell’Africa e il rigore che non è per tutti
Città della Spezia – 21 Ottobre 2012 – Giovedì gli amici hanno dato l’addio a Usman Toffik, il giovane del Togo morto suicida la notte dell’8 ottobre. Usman era arrivato oltre un anno fa nella nostra città, ospite del centro di accoglienza creato a Pegazzano in un edificio dell’Asl, dopo essere fuggito dalla Libia di Gheddafi. Faceva parte di quei giovani sfortunati provenienti dai Paesi più poveri del mondo, quelli dell’Africa subsahariana, che avevano trovato un lavoro -da schiavi- in Libia e poi erano stati cacciati dal regime di Gheddafi, giunto alla fase finale, e costretti ad affrontare un viaggio infernale nel Mediterraneo. Usman, senza asilo politico, senza permesso di soggiorno e senza lavoro, era caduto in una grave forma di depressione, dalla quale non si è più ripreso. La sua tragica morte, ha scritto il Coordinamento Io non respingo, il forum antirazzista che raccoglie oltre trenta associazioni cittadine, “chiama le istituzioni, le forze politiche e la società civile ad un sussulto di responsabilità e di impegno”. I profughi africani arrivati con Usman in Italia sono 26.000. Ora il rischio è che essi si trovino, il 31 dicembre 2012, una volta terminata la fase di emergenza, con i centri chiusi per mancanza di fondi, in una situazione drammatica di emarginazione sociale, privi di un tetto e di un lavoro, e di una prospettiva di vita se non quella di diventare immigrati irregolari. Dopo la morte di Usman non dobbiamo rimuovere il problema e dimenticare. Servono risposte concrete e certe da parte del Governo e delle Regioni, che mettano in rete tutti i soggetti e le risorse, economiche e civili, disponibili.
E’ in corso la disamina perché sia riconosciuto a chi ne ha diritto lo status di rifugiato politico. Ma coloro che non avranno questo riconoscimento che fine faranno? L’obbiettivo è concedere loro un permesso di soggiorno per motivi umanitari. Molti potranno così ricongiungersi con parenti e amici che hanno raggiunto altri Paesi europei, mentre per tutti coloro che decideranno di fermarsi nel nostro Paese vanno urgentemente varate misure per l’inclusione socio-lavorativa. Le politiche di incentivazione economica per il rimpatrio assistito non possono infatti che riscontrare uno scarsissimo interesse da parte di persone che non vogliono fare ritorno nelle terre e nelle situazioni di sofferenza e fame da cui sono fuggiti. Le risorse economiche vanno invece investite in progetti di formazione con finalità occupazionali e in incentivi alla collocazione nel mercato del lavoro. Si potrà fare tutto questo in poco più di due mesi? E’ lecito dubitarne: ecco perché una proroga della fase di emergenza e del funzionamento dei centri di accoglienza sembra inevitabile.
La morte di Usman ci spinge anche ad altre riflessioni. Il rapporto Fao/Ifad/Wfp, le tre agenzie dell’Onu che si occupano di alimentazione, spiega che quasi 870 milioni di persone soffrono la fame. E che ci sono stati progressi in Asia e in America Latina ma non in Africa. Nel continente nero la fame si è invece estesa, da 175 milioni a 239, con i malnutriti passati dal 22,6 al 22,9% della popolazione totale. Vale a dire che soffre la fame una persona su quattro. Il tema della cooperazione risulta quindi, ancora una volta, decisivo. Come ha detto Giorgio Napolitano nel messaggio di benvenuto al Forum di settore “Muovi l’Italia, cambia il mondo”, tenutosi nei giorni scorsi a Milano, la cooperazione è politica estera nel senso più nobile. Il merito di Andrea Riccardi, titolare del primo dicastero intitolato alla cooperazione, è stato quello di aver fatto uscire la cooperazione dal silenzio che l’ha circondata in questi anni e di averne sottolineato il valore, sia come “dono” agli altri sia come “investimento” per il nostro Paese. Il Forum ha coinvolto molte persone -eravamo 2.000, tra cui molti giovani- e ha delineato molti contenuti giusti: il valore della cooperazione tra territori e non solo tra Stati, la necessità di superare la frammentazione, l’individuazione del Mediterraneo e dell’Africa come aree prioritarie su cui indirizzare i nostri interventi. Ma resta il grande problema: i soldi non ci sono. Lo sforzo dell’Italia è pari a un misero 0,19% del Pil (dati 2011) e dal 2008 in poi la riduzione delle risorse dedicate agli aiuti pubblici allo sviluppo viaggia attorno a un drammatico -90%. Gli obbiettivi europei per il 2015 sono irraggiungibili, e l’Italia resta in fondo a tutte le classifiche dell’Unione europea sui Paesi donatori. Tutti i membri del Governo intervenuti, dal Presidente Monti al ministro Grilli, hanno promesso l’aumento degli stanziamenti “quando le condizioni di bilancio lo renderanno possibile”.
Eppure il rigore non è per tutti. Subito dopo il Forum ho letto che il segretario generale del Ministero della Difesa ha dichiarato che il costo già altissimo dei cacciabombardieri F35 (12 miliardi di euro) è lievitato del 60%, comportando una spesa maggiore di 3 miliardi e 200 milioni di euro, una cifra di molto superiore di quanto la Legge di Stabilità tagli alla sanità, all’istruzione e agli enti locali. Perché la spending review vale per la cooperazione internazionale, per l’accoglienza agli immigrati, per gli ospedali e le scuole, per i lavoratori “esodati” e non per i cacciabombardieri? Perché la Corte dei Conti non si interroga su come mai una somma così enorme sia destinata a lievitare del 60%? Ma come fa chi si dichiara “riformista” e “di sinistra” ad appiattirsi sull’”agenda Monti”?
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