La mia città che guarda il mondo
Città della Spezia – 23 ottobre 2011 – Come tutti gli anni, il 16 ottobre, la Fao ci ha chiamati a riflettere con la Giornata mondiale dell’Alimentazione. Purtroppo solo per un giorno siamo tornati a prendere atto della drammaticità del problema della fame che ancora attanaglia il mondo, in primo luogo l’Africa. Il Comune della Spezia ha fatto benissimo a cercare, con la tre giorni “La Spezia insieme ai popoli”, di estendere il più possibile la riflessione. Tante persone sono state coinvolte, e le associazioni e i movimenti spezzini impegnati nella cooperazione con i Paesi in via di sviluppo (PVS) si sono ritrovati insieme dopo molto tempo, per consolidare il rapporto tra loro e con le istituzioni e per individuare terreni di confronto e di lavoro comune. Il quadro in cui noi cooperanti operiamo è davvero drammatico. Cito due documenti recentissimi, resi noti in questi giorni. Il primo è il rapporto “The state of food insecurity in the world”, curato da Fao, Ifad e Pam: anche se gli Obbiettivi del Millennio, che le nazioni ricche si impegnarono ad attuare entro il 2015 per contrastare fame e povertà, fossero raggiunti (ma sappiamo già che non sarà così), nei PVS rimarrebbero comunque 600 milioni di persone sottonutrite. Tra i tanti, il più potente motivo per indignarsi oggi. Se ne è discusso nella tavola rotonda conclusiva, nella quale una “cura” è emersa su tutte: puntare sul passaggio a un’agricoltura biologica ed ecologica che sia più decentrata, democratica e cooperativa, non controllata dalle multinazionali e attuata su piccola scala. Nei PVS c’è stata la distruzione dei sistemi agricoli locali, ricchi di biodiversità e adatti a nutrire meglio, sul posto, un numero elevato di persone. Milioni di ettari sono stati trasferiti in pochi anni dalle colture intensive tradizionali, praticate da piccole aziende contadine, a colture estensive gestite dalle grandi corporations internazionali. Gli africani devono tornare padroni della loro terra, ritrovare la dignità del coltivare il proprio cibo: è questa la soluzione vera del problema.
L’altro documento è il rapporto di Action Aid su “L’Italia e la lotta alla povertà nel mondo”, in cui il nostro Paese è certificato “fuori” dai criteri europei alla buona cooperazione allo sviluppo ed è identificato come il principale responsabile del fallimento dell’Unione europea nel raggiungere la quota stabilita per gli aiuti ai PVS. L’accusa, sacrosanta, è di “morosità morale”. Abbiamo ridotto gli aiuti più di tutti, anche di Grecia e Irlanda. E sono scelte politiche: si poteva, cioè, fare diversamente. Le riduzioni sono pari al costo di costruzione di uno solo dei nostri 131 cacciabombardieri F35 o alla metà delle spese elettorali derivanti dal mancato accorpamento, nella scorsa primavera, del voto referendario e di quello amministrativo. Facciamo sempre meno e pesiamo sempre meno nel mondo. Un esempio che conosco da vicino: l’associazione che presiedo, Funzionari senza Frontiere, è impegnata nell’assistenza umanitaria in Libia. Lo facciamo con il sostegno dei privati e di alcune istituzioni locali, senza un euro dello Stato. Eppure in Libia ne avremmo di cose da farci perdonare…
Basterebbe una piccola parte di una piccola imposta sulle transazioni finanziarie… e la fame scomparirebbe. La questione, tuttavia, non è solo di risorse, è anche di qualità della cooperazione. Il rapporto giusto è quello di partenariato, fondato sullo scambio e la reciprocità. Non quello di “dipendenza” di chi riceve nei confronti di chi dona. Vuol dire rafforzamento delle istituzioni locali nei PVS, formazione di nuove classi dirigenti, autogoverno dei territori. Obbiettivi che si raggiungono collaborando tra i Comuni e tra le comunità dei Paesi ricchi e dei Paesi poveri. E’ questo il senso della cooperazione decentrata, che vede da tempo impegnato anche il Comune della Spezia, a Jenin in Palestina e in Niger (su queste due esperienze rimando ai miei articoli sul Secolo XIX, leggibili nel sito www.associazioneculturalemediterraneo.com). E’ la cooperazione più utile e efficace. In Palestina e in Africa, perché noi puntiamo all’autonomia degli aiutati, non a creare degli automi che devono limitarsi a fare quanto deciso nei Paesi donatori. Ma utile ed efficace anche da noi, perché così comprendiamo meglio che Medio Oriente, Africa e Europa sono molto vicini, e che il futuro può essere costruito solo insieme. Mettendo in discussione anche le nostre forme di governo e i nostri stili di vita, travolti dai crac bancari e dal tramonto in atto dell’impero dei consumi.
Nell’iniziativa che ha aperto la tre giorni è emersa tutta la ricchezza dell’impegno spezzino, che vede associazioni impegnate anche in Bosnia, in Brasile, nei territori del popolo Saharawi… Non sono le proporzioni di una città a determinare la sua capacità di esercitare un ruolo nel mondo, ma la sua propensione all’apertura e la sua volontà di essere portatrice dei valori della solidarietà, del dialogo e del rispetto delle differenze. Quegli stessi valori che stanno alla base della nostra identità di città, e che ci hanno consentito di esercitare un ruolo in tanti momenti della storia, dalla Resistenza a Exodus. Lo facemmo anche dieci anni fa, nei giorni precedenti e durante il G8 di Genova. Nel decennale è giusto ricordare che demmo l’immagine di città aperta, ospitale, con gli occhi puntati sul mondo. Chiamammo Bob Dylan al Picco: ricordo la difficile decisione di tenere il concerto, presa con l’artista e con Marco Ferrari e Antonello Pischedda, a poche ore dalla morte di Carlo Giuliani. E di dedicarlo alla sua giovane vita appena stroncata. Dylan, come d’abitudine, non disse nulla. Ma cantò le canzoni più impegnate del suo repertorio, da “The Times They are a-changin” a “Blowin’ in the Wind”, fino a “Masters of War”, invettiva contro i potenti della terra: sembrava scritta apposta per il vertice del G8, e invece aveva quasi quarant’anni. Che fosse questo il modo di commentare i fatti di Genova, usando le canzoni e non le parole? L’impressione di molti fu questa, chissà se fu così. E ascoltando “Knockin’ on Heaven’s Door” e il verso “Posa quelle pistole, non posso più sparare” sentimmo una stretta al cuore. Ospitammo, inoltre, tante personalità dell’economia e della cultura e i principali rappresentanti del mondo sociale latino americano, organizzammo un importante summit di scrittori e letterati che produssero un libro che inviammo ai “grandi della terra”… Ecco, durante la tre giorni sono tornato con la memoria a quel concerto e a quelle iniziative, e poi alla conferenza internazionale per la pace in Medio Oriente che organizzammo nel 2007. E ho pensato che la mia città deve guardare il mondo, e non chiudersi mai in se stessa.
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