La fratellanza, la nostra ultima carta
Città della Spezia, 14 marzo 2021 – Il fatto che più mi sconvolse, nella fase dell’adolescenza, fu la morte di Papa Giovanni XXIII, il Papa buono, che parlava a “tutti gli uomini di buona volontà”, non solo ai cattolici, e dimostrava come fosse necessaria una cooperazione tra persone di diverso credo ideologico. Il Papa che indicava la necessità di migliorare le condizioni della classe lavoratrice, che auspicava l’ingresso delle donne nella vita pubblica, che comprendeva le ragioni delle lotte anticoloniali nel Terzo Mondo.
Poi, in gioventù e dopo, il PCI di Berlinguer, sulla scia del partito di Gramsci e Togliatti, mi educò a studiare la “questione cattolica”, a leggere le encicliche, a cercare l’unità delle forze popolari. Ma non avrei mai detto che un giorno mi sarei trovato così vicino alle posizioni di un Papa, come mi è capitato in questi ultimi anni con Bergoglio. Certamente mi affascina il suo linguaggio: autentico, semplice, non formale, così distante dal linguaggio teologico tradizionale. Ma ancor di più mi affascinano i suoi concetti.
Le foto di oggi sono state scattate durante l’Incontro mondiale dei movimenti popolari, tenutosi in Vaticano per iniziativa di Francesco il 5 novembre 2016. Eravamo in migliaia, credenti e non credenti, delegati di movimenti di oltre 60 Paesi: dai campesinos e cartoneros (raccoglitori di stracci) latino americani ai contadini africani, dai resistenti curdi alle associazioni italiane ed europee. Quasi gli stessi che avevo incontrato, all’inizio del millennio, a Porto Alegre e nei Forum sociali mondiali. I più importanti tra questi i Sem terra, con il loro capo, Joao Pedro Stedile. Quel giorno, parlando dei poveri, Francesco osservò che il problema non era “fare una politica ‘verso’ i poveri, ma mai ‘con’ i poveri, ma ‘dei’ poveri”. Affermava cioè un concetto molto avanzato: non basta la carità, i poveri devono acquisire soggettività, diventare protagonisti di una loro politica. Poco dopo ripeté il concetto in forma più diretta dicendo: “Ragazzi, la carità è una bellissima cosa, ma ci vuole la politica!”. La politica come fare degli sfruttati che si organizzano per la loro emancipazione: una vocazione altissima, la forma più preziosa della carità.
Il concetto è centrale nell’ultima enciclica “Fratelli tutti”:
“Ogni giorno ci viene offerta una nuova opportunità, una nuova tappa. Non dobbiamo aspettare tutto da coloro che ci governano, sarebbe infantile. Godiamo di uno spazio di corresponsabilità capace di avviare e generare nuovi processi e trasformazioni Dobbiamo essere parte attiva della rivitalizzazione e nel sostegno delle società ferite”.
Ma sul complesso dell’enciclica rimando, tra i tanti possibili, all’articolo dell’amico Tiziano Ferri, pubblicato su cronachevaldimagra.blogspot.com. Vorrei soffermarmi sul concetto fondamentale di questo testo potentissimo: la fratellanza. Ha scritto Raniero La Valle:
“La figura emblematica dell’identità di questa enciclica, prima ancora che quella di Francesco d’Assisi, è quella del Samaritano, che ci pone di fronte a una scelta stringente: davanti all’uomo ferito (e oggi sempre di più ci sono persone ferite, tutti i popoli sono feriti) ci sono solo tre possibilità: o noi siamo i briganti, e come tali armiamo la società dell’esclusione e dell’iniquità, o siamo quelli dell’indifferenza che passano oltre immersi nelle loro faccende e nelle loro religioni, o riconosciamo l’uomo caduto e ci facciamo carico del suo dolore: e dobbiamo farlo non solo con il nostro amore privato, ma col nostro amore politico, perché dobbiamo pure far sì che ci sia una locanda a cui affidare la vittima, e istituzioni che giungano là dove il denaro non compra e il mercato non arriva”.
Dice il Papa: di fronte a questo mondo che ci dà pena serve una rivoluzione culturale, dobbiamo diventare una comunità di fratelli: “Vivere indifferenti davanti al dolore non è una scelta possibile: non possiamo lasciare che qualcuno rimanga ai ‘margini della vita’. Questo ci deve indignare, fino a farci scendere dalla nostra serenità per sconvolgerci con la sofferenza umana. Questo è dignità”.
La fratellanza è, nel nostro mondo malato, la nostra ultima carta: se la fratellanza non si esercita veramente anche la libertà e l’uguaglianza sono perdute. E’ il valore più difficile da vivere. Ma il più necessario.
E’ il valore emerso come centrale in entrambi i Volumi del libro “Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia”, che ho scritto con Maria Cristina Mirabello.
In questi giorni sono scomparsi due tra i protagonisti del libro, a cui dedico l’articolo di oggi: don Domenico Lavaggi, Parroco al Limone e all’OTO Melara, e Armando Zangani, operaio del Cantiere Muggiano, militante comunista e della FIOM CGIL. Le loro vite sono state accomunate dall’aspirazione espressa non solo dalla generazione degli anni Sessanta, ma anche dalla precedente, la generazione della Resistenza: l’aspirazione alla fratellanza, che nasce da un’esperienza personale di responsabilità e conduce alla comunità.
Leggiamo don Lavaggi:
“Un giorno giravo il reparto macchine, un giovane sindacalista della CGIL mi fermò per dirmi: ‘Dobbiamo fare un’assemblea generale, Laffond [il Direttore] non ci consegna il salone’. Io, che ero Parroco del Limone, gli risposi: ‘Venite nella chiesa di Santa Teresa’. L’assemblea si tenne in chiesa. Poi non volli fare la messa ai caduti di tutte le guerre, su richiesta di Laffond, perché era un’ipocrisia in una fabbrica di cannoni. Lui fece venire un sacerdote in pensione al mio posto”.
Armando Zangani organizzò lo sciopero del Muggiano, il 3 giugno 1963, in segno di lutto per la morte di Papa Giovanni. Lui che era stato, negli anni della repressione, della “guerra fredda” e dello scontro frontale tra DC e PCI, confinato nel reparto 21, isolato e senza poter nemmeno lavorare:
“Ho sempre pensato che il fine della vita non fosse il successo personale, ma lo stare insieme, l’aiutare chi è in difficolta. Il messaggio comunista è il messaggio del Vangelo”.
Poi Armando fu protagonista, nell’Autunno caldo, della lotta per la dignità del lavoro:
“Ricordo che battevamo i bidoni sotto la Direzione, e gli scioperi ‘a gatto selvaggio’, reparto per reparto. E l’urlo ‘La bogia’. Fu una lotta per la fraternità, eravamo gli uni per gli altri”.
Non possono non venire in mente i partigiani e le partigiane.
Leggiamo, per esempio, Rosetta Solari, protagonista del libro mio e di Maria Cristina Mirabello “Sebben che siamo donne”:
“Cosa vuol dire essere partigiana?
Vuol dire fare parte di un gruppo e condividere il rancio, l’idea e il senso della fratellanza.
Vuol dire dormire con le scarpe ai piedi, molto spesso dormire sulla paglia o il fieno, lavarsi in uno stambugio con l’odore brutto delle capre e delle pecore, mettersi in linea per ricevere il mestolo di rancio e la pagnotta.
Vuol dire essere convinti che il mondo è messo insieme malamente e sentirsi forti a sufficienza, assieme, uniti, per scombussolarlo un poco e resistere ai prepotenti.
Vuol dire credere che un ordine nuovo sia possibile e ciò vuol dire avere illusioni e delusioni”.
Francesco ci spiega che le pulsioni alla fratellanza rinascono e rinasceranno continuamente: anche se un progetto per lo sviluppo di tutta l’umanità “oggi suona come un delirio” -scrive in “Fratelli tutti”- non bisogna arrendersi ma camminare nella speranza e “alzare la testa per mettersi accanto a chi è caduto lungo la strada”.
Post scriptum:
Sull’incontro mondiale dei movimenti popolari del 5 novembre 2016 rimando al mio articolo “Il messaggio del Papa in difesa degli ultimi” (“Il Secolo XIX”, 12 novembre 2016, leggibile su www.associazioneculturalemediterraneo.com)
lucidellacitta2011@gmail.com
Popularity: 3%