L’8 settembre e il valore morale della scelta
Città della Spezia – 15 Settembre 2013 – Angiolino Falugiani ha la bella età di 98 anni, ma non ha voluto mancare alla cerimonia indetta da Comune, Marina Militare e Comitato Unitario della Resistenza il 9 settembre: la “Giornata della memoria dei marinai scomparsi in mare”, dedicata ai caduti della corazzata Roma e a tutti i marinai che, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, si sacrificarono nel tentativo di salvare la flotta italiana dalla cattura da parte degli ex alleati tedeschi. Falugiani, da presidente provinciale della Confederazione tra le associazioni combattentistiche, si batte da tempo -dal 1997- perché il 9 settembre sia proclamato, con apposita legge, “Giornata del riscatto nazionale”. Le motivazioni le abbiamo nuovamente ascoltate nella conferenza tenutasi il 9 pomeriggio in sala Dante, in particolare nella relazione del professor Marco Gemignani: la corazzata, al comando dell’ammiraglio Carlo Bergamini, prese il largo dalla diga foranea e andò incontro al suo destino, attaccata e affondata da un aereo tedesco. Morirono 1253 marinai su 1849 dell’equipaggio. Tra coloro che si salvarono c’era Gustavo Bellazzini, spezzino delle Pianazze, presente in sala. Angiolino, invece, settant’anni fa non era a Spezia: era marinaio silurista a Pantelleria, ed era stato fatto prigioniero dagli inglesi e poi dai francesi prima dello sbarco angloamericano in Sicilia. Fece la fame in Africa (Algeria e Tunisia), tornò in Italia alla fine della guerra, pesava 52 chili. Entrò in Termomeccanica, fece parte del Consiglio di gestione e si impegnò nella battaglia contro i licenziamenti nel 1950, con l’occupazione della fabbrica e la prosecuzione della produzione da parte degli operai per sei mesi (senza paga), fino al marzo del ’51. I licenziamenti diminuirono da 160 a 120, lui fu naturalmente tra i 120, perché era comunista. Da allora cominciò il suo lavoro nel sindacato: segretario della Fiom e quindi della Cgil, fino al 1969. Poi gli fu affidato il compito di far nascere l’Unipol a Spezia. Fu consigliere provinciale e comunale e membro del Consiglio di Amministrazione dell’Ospedale, fino alla conclusione del suo “percorso”, come ho ricordato, nelle associazioni combattentistiche. Insomma, il tipico “quadro operaio”, come si diceva una volta, uno dei più capaci e stimati. La classe dirigente della città era questa, si era formata così. Ad essa seguì una classe dirigente più giovane, formatasi nelle lotte studentesche e operaie degli anni ’60 e ’70, sotto la guida della precedente: ovviamente gli scontri politici tra le due generazioni non mancarono, ma dentro una comunità coesa che stava sopra ogni cosa. Oggi i “leader” crescono in modo radicalmente diverso: serve capeggiare una fazione del partito per occupare una carica pubblica; poi occorrono mezzi economici per costose campagne elettorali, che spesso legano mani e piedi agli interessi che contano; e naturalmente serve capacità mediatica. Le prime due classi dirigenti governarono: con pregi e difetti, ma governarono. Formavano una “squadra”, c’erano partiti “veri” e c’era la partecipazione popolare. C’erano anche gli interessi che contano, ma non dettavano legge. Oggi si appare molto più di prima, ma si governa (effettivamente) molto meno.
Anche di questo ho parlato nei giorni scorsi con Angiolino e la moglie Avia, che di anni ne ha pochi di meno ed è in buona forma come il marito. Tra vecchi ricordi e riflessioni su un presente che angoscia, abbiamo riflettuto sull’ultima battaglia di Falugiani. Che è attualissima. L’8 settembre è il simbolo della disfatta: la fuga al Sud del Re, lo sfacelo dello Stato e della classe dirigente. Ma è anche l’inizio di una pagina nuova: ciascuno, abbandonato a se stesso, dovette scegliere da che parte stare. E molti fecero la scelta della dignità e del “riscatto”, per dirla con Angiolino. Come Bergamini e i militari che non si arresero ai tedeschi; come i romani, soldati e civili, che difesero Roma a Porta San Paolo il 10 settembre; come i militari che finirono nei campi di concentramento in Germania e si rifiutarono di aderire alla Repubblica di Salò dietro la promessa di un ritorno a casa; come i giovani che diedero vita alle prime bande destinate a costruire l’esercito partigiano protagonista della Liberazione. Il vuoto di autorità rappresenta la condizione essenziale del nucleo fondativo di ogni atto morale: la scelta. Vengono in mente le parole di un protagonista della Resistenza, Vittorio Foa, a liberazione non ancora avvenuta: l’8 settembre fu in fondo un gran bene per l’Italia, perché segnò “l’inizio di un processo rivoluzionario che ha coinvolto gli italiani in un ingranaggio vorticoso dal quale potranno uscire solo con le loro forze”, combattendo non solo i tedeschi ma anche la parte peggiore di se stessi, che aveva creduto nel fascismo. Anche oggi l’Italia è di fronte a una svolta cruciale, sia pure meno drammatica rispetto a settant’anni fa: chiudere o meno un’epoca durata vent’anni. Sapendo che uscire dal berlusconismo, che ha contagiato tutti, significa rifondare la democrazia e i partiti, di destra e di sinistra. Allora, nel momento della disfatta, si formò una delle classi dirigenti migliori del nostro Paese. Sapremo fare altrettanto? Speriamo. Ma certo non potremo farlo con i partiti come sono oggi e con i “leader” come crescono oggi.
Post scriptum: a settant’anni dall’inizio della Resistenza dobbiamo dire con nettezza che la storia non si può dimenticare. Forza Nuova, quella dei manichini insanguinati contro la ministra Kyenge, quella che ha radunato a Cantù i fascisti e i nazisti europei, non va legittimata. La legge che vieta l’apologia di fascismo, che Forza nuova vuole abolire, è per fortuna ancora in vigore. La nostra Costituzione è antifascista per natura, quindi questa organizzazione è fuori dalla legge fondante della Repubblica e non può proporsi come soggetto di dialogo con le istituzioni. Gli amministratori locali che hanno incontrato nei giorni scorsi rappresentanti di Forza Nuova sono persone per bene, ma hanno commesso un grave errore politico.
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