Israele e Palestina oggi, decisiva è la camera da letto
Città della Spezia, 27 agosto 2017
QUELLA BANDIERA SULLA MOSCHEA
A Gerusalemme il cuore della Spianata delle Moschee è al-Aqsa, “la più lontana”, terzo luogo sacro dell’Islam. E’ qui che, secondo il Corano, nel 620 d.C. Maometto arrivò in una sola notte, in sella al suo cavallo e accanto all’arcangelo Gabriele. Ed è qui -dalla roccia dove poi è sorta la Cupola- che, sempre secondo il Corano, quella notte il profeta ascese al cielo e ricevette da Allah l’ordine di pregare cinque volte al giorno. Al-Aqsa rappresenta oggi il conflitto israelo-palestinese. I palestinesi temono che Israele voglia dividere la Spianata tra musulmani ed ebrei, perché gli ebrei considerano questo luogo il Monte del Tempio biblico. Ecco perché la reazione palestinese alla decisione israeliana di installare i metal detector per i controlli agli ingressi principali della Spianata è stata così forte, tanto da costringere il Governo Netanyahu a tornare indietro. Quel giorno, il 27 luglio 2017, una bandiera ha sventolato sopra al-Aqsa per qualche ora, mentre sotto la folla urlava e cantava di gioia. La bandiera non aveva il colore verde dell’Islam o i versi dell’Adhan (la chiamata alla preghiera) ma era la bandiera palestinese: significa che il conflitto non è ancora una guerra di religione ma una lotta per il controllo della terra e la salvaguardia dell’identità nazionale. E’ ciò che rende possibile la speranza. Se la bandiera fosse stata non laica ma religiosa tutto sarebbe maledettamente più complicato. Gerusalemme non è Nizza o Berlino o Barcellona: non è una terra dove opera l’Islam criminale, come dice Netanyahu, che vuole far credere che la questione centrale non sia quella palestinese ma quella del terrorismo. E tuttavia il rischio della guerra di religione è molto concreto. Gerusalemme è sempre più divisa, l’odio rende l’aria sempre più irrespirabile, manca ogni orizzonte di miglioramento. La Gerusalemme storica, dentro le mura, dovrebbe essere una città internazionale, aperta a tutti, con la Spianata delle Moschee, il Muro del Pianto e la Basilica del Santo Sepolcro a pochi metri di distanza tra loro, simboli di convivenza e di pace. Invece l’ebraizzazione e la progressiva espulsione dei non ebrei dalla città sta aprendo ferite drammatiche.
LA CISGIORDANIA: OCCUPARE LO SPAZIO, UCCIDERE IL TEMPO
Ma come si vive oggi in Palestina? Consideriamo intanto la Cisgiordania, chiamata anche West Bank, o Giudea e Samaria dagli ebrei, occupata da Israele con la guerra del 1967 (si veda l’articolo di domenica scorsa). E’ divisa in tre zone. Quella “A”, in cui sono incluse le grandi città e in particolare Ramallah, funzionante da capitale, è controllata dai palestinesi, con gli israeliani nell’ombra. La zona “B” è in condominio. Nella “C”, che è la più estesa, circa due terzi del territorio, sono concentrate le colonie, in cui vivono all’incirca mezzo milione di israeliani, compresi quelli degli insediamenti che traboccano in altre zone, ed esclusi i quasi duecentomila dell’area di Gerusalemme. Sono nati, sotto la spinta dei coloni, importanti centri urbani, con decine di migliaia di abitanti, fabbriche, aziende agricole, scuole. Per collegare gli insediamenti tra loro e con Israele, gli israeliani hanno costruito un discriminatorio sistema stradale che ha ridotto la mobilità quotidiana dei palestinesi a un caotico calvario per favorire i veloci spostamenti dei coloni. La Cisgiordania è attraversata da 59.22 km di strade e superstrade a uso esclusivo degli israeliani,che permettono loro gli spostamenti bypassando le terre abitate palestinesi. L’antropologa italo-palestinese Ruba Salih ha parlato di “spazio-cidio” e “tempo-cidio”: “Il tempo e lo spazio sono divenuti esperienze parallele per i coloni israeliani e per la popolazione palestinese: ipermobilità e connettività per gli israeliani che si spostano agilmente tra le colonie e verso Israele grazie a una rete di superstrade veloci; attese infinite ai checkpoint, immobilità e segregazione per i palestinesi con i loro tempi di spostamento che si dilatano all’infinito per gli ostacoli e la frammentazione territoriale. Non solo il loro spazio è occupato, frammentato, sconnesso, quindi, ma anche il loro tempo”. Oggi vi sono 98 checkpoint ai “confini” delle terre palestinesi, mentre 59 sono i checkpoint interni alle terre palestinesi.
C’è poi il muro di separazione, che non solo espropria ulteriore territorio palestinese annesso anch’esso a Israele e alle sue colonie, ma separa e racchiude numerosi villaggi, chiudendo ai palestinesi l’accesso non solo all’esterno, ma anche alle proprie terre. L’occupazione scava inoltre sotto terra, dove i tunnel si accaparrano risorse naturali e falde d’acqua.
La situazione che mi ha sempre colpito di più è forse quella della città di Hebron. Shuhada Street, Via dei Martiri, un tempo era l’arteria principale della città. Oggi invece ha negozi serrati, le persone sono chiuse in casa e costrette a usare stradine secondarie per non trovarsi a contatto con i coloni israeliani.
GAZA ALLO STREMO
C’è poi la striscia di Gaza, separata dalla Cisgiordania: una prigione a cielo aperto tra Israele ed Egitto dove vivono un milione e ottocentomila palestinesi, governata dal 2007 dal movimento islamista Hamas. Dopo le distruzioni provocate dalla guerra con Israele del 2014, la ricostruzione procede molto lentamente. Gaza è oggi buio per le strade, afa soffocante nelle case, generatori spenti negli ospedali: manca l’energia elettrica in una zona dove, d’estate, la temperatura oscilla tra 30 e 40 gradi. Israele ha ridotto l’erogazione di energia elettrica, il Presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) Abu Mazen, che “governa” la Cisgiordania, ha deciso di non pagare il conto che ogni mese Israele gli presenta. Un modo per condizionare Hamas, da anni in rottura con l’ANP. I valichi con l’Egitto sono chiusi. Ora Israele ha deciso di costruire il muro sotterraneo: “Sarà la sola barriera sotterranea esistente al mondo”, ha detto l’ex consigliere nazionale per la sicurezza Yakoov Amidror. E’ la risposta ai tunnel nel sottosuolo scavati da Hamas.
GLI ARABI ISRAELIANI, POPOLO DI SERIE B
E in Israele? C’è il popolo invisibile degli arabi israeliani: quasi mai si pensa a quel milione e ottocentomila israeliani (oltre il 22% della popolazione) che vivono in Israele e che ebrei non sono. Come dice lo scrittore israeliano Assaf Gavron ebrei e arabi in Israele sono “due mondi opposti”. Il sistema giuridico israeliano si basa su almeno due categorie di cittadinanza. La categoria A vale per gli ebrei, cui la legge conferisce un accesso preferenziale alle risorse materiali dello Stato come anche ai servizi sociali e di welfare per il solo fatto di essere, per legge, ebrei; la categoria B vale per gli arabi, discriminati e più poveri: il tasso di mortalità infantile tra di loro è quasi il doppio di quello degli ebrei. Il Governo ha presentato una proposta di legge in Parlamento che rafforza questa condizione di cittadini di serie B: Israele viene descritto come Stato-nazione del popolo ebraico, e all’arabo viene revocato lo status di lingua ufficiale dello Stato. Si privilegia sempre più la natura ebraica dello Stato sul suo essere democratico.
GLI ULTIMI NOMADI DEL DESERTO
In Israele ci sono anche i nomadi del deserto, i beduini. Anni fa incontrai i beduini del villaggio di Umm al-Hiran, nel deserto del Negev. Occupano questa terra da secoli, vivono liberi tra le dune. Il villaggio è destinato a essere distrutto, sulle sue macerie crescerà un insediamento israeliano chiamato Hiran. I coloni vivono in una comunità provvisoria a pochi chilometri di distanza, in paziente attesa che il Governo espella i beduini. Sono coloni non nati in Israele, ma tornati in Israele per colonizzare la terra dei beduini. In altre aree del Negev, al posto delle tende dei nomadi, costretti all’urbanizzazione forzata, arriveranno le tende dei campi militari israeliani. I campi coltivati dai beduini sono stati cosparsi di pesticida, per costringerli alla fame e alla resa. Nel 1970 reclamavano il 10% del Negev. Di quel suolo, da cui sono sotto sfratto oggi, ne occupano solo il 4%.
ISRAELE, IL RAZZISMO DILAGA
Un anno fa, nel giorno della commemorazione della Shoah, il vicecomandante dell’esercito israeliano, il generale Golan, ha compiuto il crimine irreparabile che la destra al Governo non gli ha perdonato: in un discorso equilibrato ha espresso preoccupazione per il processo di imbarbarimento estremista e razzista in corso in Israele e ha sottolineato la necessità di contenere queste derive prima che si arrivi alla tragedia. Netanyahu ha reagito con furia e lo ha pubblicamente ammonito. I miasmi del razzismo si respirano ovunque. Emblematica è la protesta inscenata dai “nuovi schiavi”, i falascià, gli ebrei etiopi. I rifugiati sudanesi vengono trattati non molto diversamente da come venivano trattati gli ebrei in Europa prima della Shoah. Secondo lo storico israeliano Zeev Sternhell, sopravvissuto alla Shoah, oggi si pone in tutta la sua drammaticità una “questione israeliana”: “L’apartheid è qualcosa di ben più profondo dei muri divisori, dei checkpoint, dei diritti negati. L’apartheid è anche una forma mentis: l’idea cioè che, per essere tollerati, i palestinesi e gli arabi israeliani debbano accettare la loro inferiorità e ringraziare per le briciole di libertà a loro benevolmente dispensate”.
IL DECLINO DELLA CLASSE DIRIGENTE PALESTINESE
Non c’è solo il declino della classe dirigente israeliana, ma anche quello della classe dirigente palestinese. Fatah e ANP in Cisgiordania e Hamas a Gaza: le due leadership continuano a farsi la guerra a suon di dichiarazioni, arresti, scontri. Nonostante i summit di questi ultimi anni nelle varie capitali arabe, l’unità del mondo politico palestinese al momento appare una chimera.
L’unica occasione di collaborazione c’è stata quando Hamas ha restituito al nipote di Yasser Arafat, Nasser al-Qidwei, la medaglia ricevuta dal “Capo” nel 1994, quando vinse il Premio Nobel per la Pace assieme al Primo Ministro israeliano Rabin e al Ministro degli Esteri Peres. La medaglia è stata così esposta nel museo dedicato al leader che più di ogni altro ha incarnato la causa palestinese, inaugurato a Ramallah il 18 novembre 2016. Ma recuperare i documenti non è stato facile, a causa della distruzione di parte dell’archivio personale di Arafat a Gaza, dopo che la Striscia è caduta nelle mani di Hamas.
Sia Fatah che Hamas sono oggi in grande difficoltà. Nei giorni scorsi un decreto firmato da Abu Mazen prevede la detenzione per i giornalisti e i blogger che “mettono a rischio la sicurezza dello Stato”. E a Gaza le cose non vanno certo meglio: anche la polizia di Hamas arresta giornalisti e blogger che criticano il movimento.
Abu Mazen sembra ormai impotente di fronte all’arroganza di Netanyahu e alla sudditanza verso Israele della comunità internazionale, Usa di Trump in testa. Il suo consenso in patria è molto diminuito. E Hamas? Nel maggio di quest’anno ha operato una svolta: nella versione emendata del suo Statuto del 1988, il movimento prevede la creazione di uno Stato palestinese in Cisgiordania e a Gaza, quindi solo nei territori occupati da Israele dopo il giugno 1967.Non c’è ancora il riconoscimento dello Stato ebraico, ma di fatto, accettando uno Stato solo in una parte della Palestina storica, è come se ci fosse. Inoltre Hamas ora distingue gli ebrei da Israele e proclama di non essere contro l’ebraismo. Infine prende le distanze dai Fratelli Musulmani e sottolinea di essere un movimento islamico indipendente. Hamas cerca in questo modo di ammorbidire il regime egiziano di Al-Sisi, nemico giurato dei fratelli Musulmani, che è fondamentale per rompere l’assedio di Gaza. I negoziati con l’Egitto sono in corso. In essi si è inserito Mohammed Dahlan, ex capo di Fatah e dei servizi di sicurezza palestinesi nella Striscia di Gaza, per lunghi anni indicato come successore di Arafat, poi espulso da Abu Mazen dal gruppo dirigente di Fatah. Nel 2007 i miliziani di Hamas rasero al suolo la sua sontuosa villa. Ora, evidentemente, lo hanno riabilitato. Un pessimo segnale per Abu Mazen.
Non c’è dubbio che Hamas resti un gruppo islamo-nazionalista, interessato forse a combattere a oltranza più che ad amministrare e a governare, ma non c’è dubbio anche che non ha nulla a che fare con l’Isis. Del resto l’Isis, proclamando il Califfato, ha idealmente abolito anche i confini dello Stato palestinese agognato da Hamas e guarda a una prospettiva globale nella quale quello palestinese è solo uno dei tanti teatri di conflitto. Inoltre l’Isis non accetta l’idea che si possa andare al potere per via elettorale, come è accaduto a Hamas, critica il movimento perché non impone strettamente la Sharia a Gaza, perché tollera i cristiani palestinesi, e così via. Ma per Netanyahu Hamas e Isis sono la stessa cosa: è un’equazione che non sta in piedi, e che punta solo a neutralizzare qualsiasi critica nei confronti del Governo israeliano.
L’ARMA DEMOGRAFICA
Mi sono sempre battuto per la causa dei due Stati e continuo a farlo. Eppure oggi, come tutti, mi interrogo: questo sogno si è dissolto? In Palestina c’è rabbia -che potrebbe scatenarsi nella forma jihadista- ma anche rassegnazione. E la classe dirigente è quella che è. In Israele è scesa la notte: ha preso piede la corrente d’opinione che considera duraturo ciò che dovrebbe essere provvisorio, mentre l’idea messianica che l’intera terra biblica spetti al popolo eletto convince un numero sempre crescente di persone.
Leggiamo ancora Ruba Salih: “Paradossalmente, l’effetto più evidente del caos strutturato dell’occupazione israeliana è la realizzazione di una contiguità territoriale e materiale tra israeliani e palestinesi che rende il progetto di due Stati ormai impensabile. L’architettura dell’occupazione israeliana in altre parole si trova paradossalmente a dover separare ciò che è sempre più inseparabile, a dividere ciò che è divenuto, per suo stesso effetto, indivisibile”.
Ma se tutto spinge verso un unico Stato si prospetta per Israele una “minaccia esistenziale”. Leggiamo lo studioso israeliano Neve Gordon: “L’annessione de facto della Cisgiordania può soddisfare le brame territoriali di Israele ma al tempo stesso ha prodotto una nuova realtà che a lungo termine non sarà possibile sostenere. Ha prodotto un cambiamento dell’equilibrio demografico le cui ramificazioni sono senza dubbio politiche. Il territorio su cui Israele ha un controllo effettivo non ha una maggioranza di cittadini ebrei… Anche se non lo dicono esplicitamente, il futuro immaginato dall’attuale élite politica israeliana va in due direzioni: o una consistente espulsione di palestinesi o la fortificazione di un regime di apartheid”. I tassi di natalità sono tali che aumenteranno, nel prossimo futuro, la proporzione a favore dei palestinesi, che fanno molti più figli. Chi vuole Israele “grande, democratico ed ebraico” dovrà rinunciare a una delle tre condizioni. Se lo Stato sarà uno e binazionale non potrà essere “ebraico” nel caso sia conservato il principio “una testa un voto”. Se non varrà quel principio non sarà “democratico” ma di apartheid. E se invece si opterà per mantenerlo “ebraico” e “democratico” bisognerà rinunciare all’idea che sia “grande”. Come dico sempre ai miei amici palestinesi: “La guerra la state vincendo in camera da letto”. Ecco perché il sogno dei due Stati è forse ancora vivo. Qualche raggio di luce, in una situazione disperata, c’è ancora. Ne scriverò domenica prossima.
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