In memoria di Fabrizio, torturato a Bolzaneto
Città della Spezia, 31 luglio 2016 – Quindici anni sono molti. Nella vita di chiunque. Ma le mattanze del luglio 2001 a Genova, nella scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto, non hanno mai abbandonato né le vittime, né i carnefici dei giorni del G8. E’ una ferita che non si è mai rimarginata. Né sono bastate le condanne. Anche perché gli autori delle violenze e delle sevizie e i loro mandanti sono stati promossi, oppure lautamente prepensionati, o sono morti nel frattempo. Condannati solo gli ultimi, pochi. I leader politici dell’epoca hanno governato ancora a lungo. Ma sono e saranno i fatti a parlare per sempre, a costringerci a non dimenticare la più grave sospensione dei diritti umani in Occidente dal dopoguerra. I fatti e anche una sentenza, quella della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo a Strasburgo. Lo scorso anno, il 7 aprile 2015, la Corte ha condannato il nostro Paese, riconoscendo la richiesta di giustizia di Arnaldo Cestaro: un signore di 61 anni che al momento dell’irruzione nella Diaz si era messo davanti a una parete con le braccia alzate, ma fu picchiato ferocemente. Subì fratture multiple e traumi che gli segnarono la vita. Gli autori della violenza non sono stati identificati, né sanzionati. I giudici di Strasburgo hanno rilevato un “difetto strutturale nell’ordinamento giuridico italiano che può impedire la punizione dei responsabili di tortura e di atti inumani e degradanti”: il nostro Paese è colpevole di tortura, e le più alte istituzioni hanno garantito l’impunità ai responsabili. Per un racconto dei fatti avvenuti a Bolzaneto rimando a un articolo di Giuseppe D’Avanzo, un grande giornalista d’inchiesta che purtroppo ci ha lasciati: “Le torture a Bolzaneto e la notte della democrazia” (“La Repubblica”, 17 marzo 2008), leggibile qui. Le torture a Bolzaneto e la notte della democrazia
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Fabrizio Ferrazzi aveva quattro anni più di me, ma faceva parte, negli anni del liceo e poi dell’Università, del gruppo di amici che frequentavo. Ci univa la passione per la filosofia. Lui si laureò a Pisa, io a Firenze, ma ci si incontrava nei fine settimana. Era di sinistra, cattolico e pacifista. Una persona molto intelligente e molto umana. Poi lo persi di vista: si era dedicato all’insegnamento, e in seguito all’azienda agricola di famiglia in Puglia, cosa che gli permetteva di ritagliarsi tempo per la sua vera passione, la storia e letteratura polacca. Ricordo, all’inizio degli anni Ottanta, il suo primo soggiorno a Cracovia, il suo amore a prima vista per la Polonia, la sua opposizione, a fianco del sindacato cattolico Solidarnosc, al “socialismo reale” che opprimeva il Paese. Nel luglio 2001 Fabrizio andò a Genova, insieme a tanti uomini e donne, giovani, gruppi laici e cattolici dell’universo solidale. Quella che segue è la descrizione di ciò che accadde allora e dopo, scritta da Lorenzo Carletti, figlio del cugino di Fabrizio, sul “Manifesto” del 20 luglio 2013.
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Fabrizio uscì dal carcere di Alessandria lunedì. Sconvolto, sulle prime non volle parlare e solo nei giorni immediatamente successivi raccontò alla stampa e partecipò a un presidio alla Spezia. Era andata così: quel venerdì in piazza Novi voleva aiutare una signora, «chiaramente un’esaltata religiosa che camminava in mezzo al lancio di lacrimogeni della polizia e alle pietre degli anarchici, ripetendo “Dio non vuole questo”». Lui le andò incontro, nello zaino aveva un libro di grandi dimensioni, che avrebbe brandito per difendersi dalle forze dell’ordine, alzò le braccia e si prese una scarica di botte, lo braccarono e lo caricarono sul cellulare. Le immagini lo mostrano col sangue che gli cola sul viso, «affettuosamente abbracciato» da un paio di carabinieri, e lui che reagisce cantando la “Marsigliese”. «La stretta al collo di uno di loro m’ha fatto abbassare sul più bello la tonalità» osservava e spiegò che era stato un amico polacco, il giorno prima al telefono, a ricordargli della Marsigliese, canto proibito nella Polonia di Jaruzelski come nella Spagna di Franco. I giornali lo definirono «blac bloc», «straniero», «militante dei Cobas», “Il Manifesto” pubblicò la sua foto definendolo “manifestante francese”.
Il cellulare dei carabinieri fece tappa alla caserma della polizia stradale presso la Fiera del Levante e qui rimase dalle due alle nove di sera, «in piedi, sotto il sole, il sangue rappreso sulla faccia, la voglia di svenire e la paura di farlo». Era in compagnia di un ragazzino straniero e di un romano; nel corso del pomeriggio si aggiunsero una ventina di fermati e, non appena provavano a dir qualcosa, ricevevano botte e insulti. Verso le nove di venerdì furono portati al lager di Bolzaneto e in un’intervista rilasciata a “La Repubblica” leggo: «Ci danno il benvenuto i signori in grigioverde col giubbotto nero dei Gom (Gruppo Operativo Mobile), solito trattamento: ginocchia a terra, calci e manganello. I colleghi della polizia ci mettono in fila di fronte al muro e guai a chi si gira, soprattutto se sentiamo qualcuno che si lamenta o piange. Il gioco era provocarci per vedere se si reagiva. Anche il medico vede queste scene. La sua visita, quelle che il Ministro nomina come prova del nostro stato di salute, consiste in un’occhiata al volo e due pacche sulle spalle. Eppure io continuavo a sanguinare dalla testa e tremavo». Fabrizio aveva un taglio profondo che solo il giorno dopo gli cucirono con venti punti, senza togliergli i lacci dal polso. Fu un inferno: non poter andare in bagno per un giorno intero, subire e assistere a umiliazioni continue (soprattutto sulle donne), sentirsi dare dello «sporco comunista» (a lui), dover gridare «viva il duce» per non prendere botte, e ricevere «colpi da dietro, calci; niente da spezzare le ossa, ma faceva impressione perché quel ragazzo era ferito e quando ha posato la fronte sul muro gli è stato detto di non sporcare, gli hanno tirato i capelli e dato pugni e schiaffi». Comunicarono a Fabrizio che l’accusa a suo carico era d’aver tirato una molotov, al che reagì, chiese d’incontrare il suo accusatore e subì nuove angherie, tra cui una minaccia ripetuta: «La festa te la facciamo dopo!» Tutti dovevano sottostare ai giochi sadici di quei picchiatori, che facevano assumere posizioni vessatorie e, «come dei cosacchi quando danno la punizione», riempivano di calci e pugni chi doveva raggiungere l’ufficio matricola di fronte all’infermeria. In mezzo a quell’odore di sangue e orina, chiese di telefonare all’anziano padre, ma non voleva che fosse una concessione, bensì «il riconoscimento di un diritto». Gli rispose Alessandro Perugini -allora vice-capo della Digos di Genova- domandandogli se pensava di essere in America. Forse si riferiva all’America del Quinto Emendamento, pensò Fabrizio, che con coraggio ribatté: «Magari in America no, però forse neanche in Turchia». «Beh, diciamo che siamo a metà strada» fu la chiosa di Perugini. Fu anche per questo dialogo che i compagni di sventura presero a chiamarlo «prof», «professore», e cercavano conforto in lui, il più anziano.
Sabato pomeriggio Fabrizio fu trasferito nel carcere di Alessandria. Tutto questo, però, lo abbiamo letto sui giornali o sugli atti del tribunale, perché lui non entrava mai nell’argomento e, se sollecitato, cambiava discorso. Parlava per ore di Adam Mickiewicz, compiendo digressioni continue, indugiando in citazioni in polacco e russo. Spiegava l’importanza del poema filosofico “Konrad Wallenrod” (1828) o di “Dziady”, (1822-1832), opera teatrale in cui sono descritte le sofferenze terrene, il martirio della Polonia paragonata alla Passione di Cristo, e nell’ultima parte lo spirito di un giovane suicida, consumato dalla passione che lo ha portato alla morte. Fabrizio era malato: prima di Genova, nel 1998, si era operato all’intestino, ma i giorni di Bolzaneto e Alessandria lasciarono una traccia indelebile. Le operazioni si susseguirono una dietro l’altra e lui continuò a tradurre, a lottare, sebbene con fatica crescente. Denunciò i suoi aguzzini, andò alle prime udienze del processo, nel 2003 fu impegnato nel movimento contro la guerra in Afghanistan, contro il secondo governo Berlusconi, nel 2005 partecipò ai funerali di Wojtyla, di cui pure vedeva le contraddizioni. Scrisse saggi di argomento filosofico incentrati su Scoto Eriugena, Anselmo d’Aosta, Tommaso d’Aquino, ancora sul messianesimo polacco, ma le sue condizioni di salute peggioravano. Ricoveri, operazioni, Fabrizio non riusciva più a occuparsi dell’azienda agricola. Morì nel dicembre 2011, «consumato dalla passione» come il giovane protagonista dell’opera di Mickiewicz, in esilio nella sua casa che guarda il Golfo dei poeti. A metà strada tra l’America e la Turchia.
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Quando si è torturati le ferite psichiche sono più forti di quelle fisiche. La storia della tortura dimostra inoltre che chi subisce gli abusi perde fiducia nell’altro e nella società: la tortura è praticata proprio con il fine dell’esclusione sociale e dell’annientamento. Fabrizio, dopo aver visto in quei terribili due giorni il suo Dio della Vita sconfitto dal Dio della Morte, se ne è andato dalle umane sofferenze. La sua vicenda rimanda alle più limpide dichiarazioni della legge: “E’ punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà” (Costituzione della Repubblica italiana, art. 13, co. 4). E ancora: “Il termine ’tortura’ designa qualsiasi atto con il quale sono inflitti a una persona dolore o sofferenze acute, fisiche o psichiche, segnatamente al fine di ottenere da questa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che ella o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimidirla od esercitare pressioni su di lei o di intimidire od esercitare pressioni su una terza persona…”. “… o per qualunque altro motivo basato su una qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o tali sofferenze siano inflitti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito. Tale termine non si estende al dolore o alle sofferenze derivanti unicamente da sanzioni legittime, ad esse inerenti o da esse provocate» (Convenzione Onu contro la tortura, art. 1).
Anche questa volta non sono bastate queste due limpide dichiarazioni, della Costituzione e della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, a indirizzare il Parlamento verso la soluzione di questo autentico misfatto italiano. L’assenza, cioè, del reato di tortura dal nostro ordinamento giuridico. Anzi, a dire il vero, il reato c’è. Manca solo la sanzione: sarebbe bastato replicare le parole della Costituzione o della Convenzione nel codice penale e aggiungervi un minimo e un massimo di pena, e gli odiosi casi di tortura, come quelli di Genova, avrebbero avuto la loro equa punizione. E invece no. Ancora una volta il Parlamento ha stabilito nei giorni scorsi che fosse troppo presto approvare un provvedimento che attende di essere accolto nella nostra legislazione dal 1988 (data di ratifica da parte dell’Italia della Convenzione Onu). Se non dal 1948 (data di entrata in vigore della Costituzione repubblicana). Un altro episodio che segna il crollo di credibilità di una classe politica incapace di mantenere ogni promessa.
Per i più giovani, gli adolescenti di oggi, è importante sapere che la democrazia va affermata e vigilata, difesa e pretesa a chiara e forte voce, che non si deve permettere mai di violare i diritti umani, di vederli calpestati. Queste violazioni, la negazione della democrazia non dimorano solo in zone ‘altre’ da noi. La Turchia, l’Eritrea, l’Egitto, la Siria di oggi sono il Cile del golpe del settembre 1973 come l’Argentina del regime dei colonnelli di ieri: in mezzo c’è l’Italia di quella Genova, di quelle violenze del G8 del 2001.
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