Impediamo la mutazione genetica della politica
Città della Spezia, 7 settembre 2014 – Ma davvero le riforme istituzionali e costituzionali sono la priorità? E’ uno schema interpretativo che non mi convince, perché ci mette su una falsa pista rispetto al problema principale dell’Italia. Il centro della nostra crisi, più che nelle istituzioni, sta nella società: nel venir meno della coesione sociale, delle legature sociali che fanno sentire un popolo una “comunità”. E’ in corso un processo che dura da molti anni e che sta desertificando la società e i suoi vincoli di reciprocità, solidarietà, cooperazione: quattro decenni all’insegna del mercatismo e del privatismo (l’individualismo egoistico), contro tutto ciò che è pubblico, in comune, statuale. Al termine dei quali la società è drammaticamente sperequata e segmentata, mentre noi siamo certamente più connessi in rete ma soprattutto più soli, diseguali e impotenti davanti alla crisi economica, allo smantellamento del lavoro e del welfare e alla mercificazione di ogni cosa. Nella società dell’homo homini lupus in cui siamo tornati a vivere è molto più importante la riforma della società che non quella delle istituzioni. Ecco perché la politica dovrebbe occuparsi più della rappresentanza che della governabilità e del comando.
Ma i nostri governanti non la pensano così. Hanno passato mesi a discutere di riforma del Senato e di riforma della legge elettorale, e per fortuna la loro è, per ora ancora, una mesta vittoria: la legge elettorale, approvata alla Camera, deve tornare in Senato, dove sarà modificata; la riforma del Senato, approvata in Senato, deve tornare alla Camera, dove anch’essa sarà modificata. Pessime riforme che hanno spaccato il Parlamento e il Paese grazie alla strategia muscolare di Matteo Renzi e del Ministro Maria Elena Boschi, e che nonostante tutto sono ben lungi dall’essere concluse. Se siamo arrivati a questo punto è anche perché le due riforme stanno insieme e non si possono affrontare separatamente, come si è fatto finora. La democrazia è un sistema, la sua qualità non si giudica per una parte, ma nell’insieme. Ed è sperabile che la discussione futura sia sul sistema.
Parto dal Senato. La situazione attuale -il bicameralismo perfetto- va superata, non c’è dubbio. Io ho sostenuto, negli anni Ottanta, la tesi del monocameralismo, cioè del’abolizione del Senato. L’obbiettivo era rafforzare la rappresentanza dei cittadini e la centralità del Parlamento: allora c’erano il sistema proporzionale, i grandi partiti di massa, regolamenti parlamentari che davano molti poteri ai gruppi di opposizione. Si poteva, quindi, passare tranquillamente a un sistema con una sola Camera. Poi, negli anni Novanta, emerse il tema del federalismo. Si cominciò a parlare di Senato delle autonomie, sul modello del Bundesrat tedesco, nel quale siedono i rappresentanti dei governi regionali. Io mi convertii a questa tesi: creare cioè, al posto del Senato attuale, il luogo della rappresentanza territoriale, regionale e comunale. In questa visione ogni livello dello Stato deve avere assolutamente chiara la propria “missione”, e a essa deve corrispondere attraverso entrate proprie, della cui riscossione e del cui utilizzo sia davvero responsabile di fronte ai cittadini. In questo federalismo autentico andrebbe riconsiderato sia il numero delle Regioni che quello dei Comuni. Ma oggi nessuno parla più di queste cose: va avanti, da anni, un processo contrario di ricentralizzazione. E, naturalmente, la spesa continua ad aumentare, perché nessuno è responsabilizzato. In questo contesto la riforma del Senato approvata in Senato è davvero un pasticcio. Paradossalmente si crea il Senato composto da rappresentanti delle Regioni proprio nel momento in cui il Governo riporta contestualmente allo Stato, con la riforma del Titolo V della Costituzione, funzioni importanti trasferite nel 2001 alle Regioni (mortificazione che le Regioni, per come hanno operato, si sono meritate in pieno). Logica vuole, comunque, che questo nuovo Senato composto da nominati delle Regioni abbia competenze assolutamente limitate alle relazioni Stato – Regioni – Comuni; invece non è così: avrà competenze sulle leggi costituzionali e sui trattati internazionali, e pure su questioni come il matrimonio, il diritto di famiglia e il diritto alla salute, cioè su materie di rilevanza etica. Diciamoci la verità: a questo punto sarebbe molto meglio abolirlo tout court!
Si tornerebbe così all’ipotesi del monocameralismo, che però abbisogna di numerosi contrappesi, altrimenti il pericolo di un governo autoritario si profilerebbe inevitabilmente. Questi contrappesi servono comunque anche con il Senato così com’è stato riformato. In sostanza: senza il Senato o con un Senato dai poteri limitati così come da pasticcio approvato, e con le Regioni che hanno perso ambiti di intervento, diventa decisiva la legge elettorale per la Camera, il cosiddetto Italicum (si veda in questa rubrica Italicum: quando il rottamatore si trasforma in restauratore, 9 febbraio 2014). Una pessima legge, ipermaggioritaria: se fosse approvata così com’è, un partito con poco più del 20% dei voti rischierebbe di diventare dominus dell’intero sistema, impadronendosi pure delle massime istituzioni di garanzia, la Presidenza della Repubblica e la Corte costituzionale. C’è stato qualche segno di ripensamento rispetto alle soglie previste, alzando dal 37% al 40% quella che esclude il ballottaggio tra le due prime coalizioni e facendo scendere quella prevista per i partiti in coalizione. Ma, riconosciuta questa distorsione, rimane inalterata quella che pone all’8% la soglia per l’ingresso alla Camera dei partiti che si presentano da soli: una scelta di chiusura al nuovo, che scoraggia le dinamiche politiche innovative. Così come rimane intatta la negazione del diritto degli elettori di scegliere i loro rappresentanti: le liste sono bloccate, come con il “Porcellum”, dichiarato per questo incostituzionale dalla Corte. E’ chiaro che servono cambiamenti radicali. Il doppio turno va bene, ma ogni ballottaggio che si rispetti si evita solo se al primo turno si prende il 50 più uno. Le soglie di accesso vanno riviste, per renderle compatibili con un sistema democratico: in nessun altro Paese al mondo sono così alte! Vanno poi eliminate le liste bloccate, anche perché incostituzionali. A mio parere la soluzione migliore è il ritorno ai collegi uninominali, per i quali le primarie di collegio funzionerebbero molto bene. Il rimedio invocato da altri per ridare voce ai cittadini consiste nel reintrodurre le preferenze. In realtà, la memoria corta degli italiani ha cancellato i guasti prodotti dalle preferenze per quarant’anni: corruzione e spese folli, frammentazione correntizia e correntismo. Meglio evitare questo ritorno al passato. L’obiezione a tutte queste proposte è nota: abbiamo fatto un patto con Berlusconi, dicono al Pd, e lui non vuole. Ma come si fa a non capire che in tempi di antipolitica e di politica antipartitica l’Italicum comporterebbe disastri nel rapporto tra cittadini e istituzioni? Se il Pd discutesse con tutti senza patti preventivi con Berlusconi il Parlamento potrebbe fare una buona legge elettorale; e ciò, in una logica di sistema, sdrammatizzerebbe il dibattito sulla riforma del Senato, del quale si potrebbe, con maggiore coerenza riformatrice, a quel punto, proporre il totale ed effettivo superamento.
C’è, infine, un’ultima questione: la riforma istituzionale sarebbe monca se la democrazia rappresentativa non venisse integrata con quella partecipativa: nuova disciplina delle iniziative legislative popolari, forme di intervento dei cittadini, per esempio con referendum propositivi, uso dei media civici… Sono misure che servono per riaprire i canali di partecipazione tra le istituzioni e i cittadini e che, come scrive Stefano Rodotà, “costituiscono la gamba di cui una democrazia azzoppata ha bisogno per non declinare in democrazia plebiscitaria”.
Se il complesso di queste misure passasse potremmo impedire la “mutazione genetica” in corso: una politica del tutto inedita rispetto ai tratti sperimentati della tradizione, la sua riduzione cioè a competizione individuale per la leadership, in cui la novità non è l’emergere del leader politico, ma il fatto che dietro il leader c’è il deserto delle idee. In questa politica mutata il leader non è, ha scritto Riccardo Terzi in La pazienza e l’ironia, “il punto culminante di un processo collettivo, l’incarnazione di un progetto politico, come è sempre stato nella nostra storia passata, ma esso rappresenta solo l’idea pura del comando”. E quindi “la domanda non è più: che cosa fare, quali programmi realizzare, qual è il modello sociale a cui tendere, ma solo a chi consegnare il potere di decidere”. Deve tornare in campo, invece, una concezione della politica in cui non conti solo il comando, che pure è necessario, ma anche e soprattutto la rappresentanza sociale. Perché senza rappresentanza la società, priva di coesione, si dissolve. E la politica diventa solo il campo di competizione degli avventurieri del potere.
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