Il terremoto Grillo
Città della Spezia – 3 Marzo 2013 – Nelle elezioni di domenica e lunedì c’è solo Grillo che ha vinto. La vittoria del centrosinistra è puramente virtuale, perché non ha i numeri per governare al Senato. Anzi, i dati ci dicono che il Pd è, assieme a Monti, il vero sconfitto politico. Il M5S ha attratto voti da tutti i partiti, in misura simile a sinistra e a destra, il resto dall’astensione e dai giovanissimi che si sono recati alle urne per la prima volta. Il Pd ha perso un terzo dei suoi consensi, il Pdl la metà. Quindi nemmeno Berlusconi, che pure ha recuperato, può cantare vittoria. Ma, ripeto, è il centrosinistra lo sconfitto, perché si sentiva la vittoria in tasca e ha perso un’occasione storica.
Il voto indica molto di più: si è sgretolato l’assetto istituzionale della Seconda Repubblica, quella in cui due schieramenti, di volta in volta identificati da una persona -in cui a destra Berlusconi rappresentava la costante e a sinistra si ruotava- si contendevano il potere. Il grillismo ha distrutto il bipolarismo, che c’era pure nella Prima Repubblica, tra Dc e Pci (sia pure imperfetto, perché il Pci non poteva governare). E ha ucciso sul nascere la Terza Repubblica a cui molti puntavano, quella di un tripolarismo con il terzo polo “montiano” al centro. Invece il terzo polo è sì nato, ma radicale e destabilizzante come il M5S, e con un consenso sostanzialmente analogo a quello degli altri due poli, fragili e in crisi.
Che cosa c’è all’origine del terremoto? Non solo la protesta, ma una profonda domanda di cambiamento. Che covava da tempo ed è diventata un’emergenza perché nessuno l’ha ascoltata e intercettata a sufficienza. Parlare di “antipolitica” a proposito del M5S è sbagliato (si veda quanto già scrivevo nel maggio 2012 dopo le comunali spezzine, nell’intervento sul Secolo XIX “Il centrosinistra a Spezia dialoghi con 5 Stelle”, ora in www.associazioneculturalemediterraneo.com): bisogna in realtà parlare di un’”altra politica”, non solo qualunquista e protestataria ma anche con istanze libertarie ed etiche condivisibili, come ho scritto domenica scorsa in questa rubrica. Quello che poteva non essere chiaro a maggio, lo è comunque diventato a ottobre, con le elezioni siciliane e risultati analoghi a quelli di domenica e lunedì: l’aumento dell’astensione, la coalizione di Crocetta vincente ma senza i numeri per governare, il boom di Grillo.
La domanda di cambiamento ha continuato a crescere su due punti chiave: questione morale e questione sociale, tra loro intrecciate. Se i costi altissimi della politica, i comportamenti biasimevoli di tanti politici, il carattere strutturale assunto dalle tangenti erano moralmente insopportabili prima della crisi economica, sono poi diventati assolutamente insostenibili con l’avvento della “Grande Crisi”: quando non si arriva a fine mese e il posto di lavoro non si trova o è a rischio la distanza tra questa società e questa politica non può non allargarsi. Eppure c’era il tempo per un’autoriforma della politica, per tagliare il numero dei parlamentari e abbattere gli stipendi d’oro e le prebende di parlamentari e consiglieri regionali; e per contrastare una politica di austerità che non guariva il Paese e accresceva il dolore sociale. Occorrevano segnali forti. Ma è successo troppo poco. Sul piano dell’autoriforma della politica praticamente nulla. Si pensi allo spettacolo offerto dalle “spese pazze” (mutande comprese) di tanti consiglieri regionali liguri. Sul piano della politica economica e sociale il Pd, pur incalzato dalla piccola Sel (che ha fatto una scelta di governo difficile ma ha salvato il patrimonio di idee della sinistra riportandolo in Parlamento), prima ha sottovalutato il peso del suo sostegno al Governo Monti, e poi ha sì individuato un’altra agenda, quella dell’eguaglianza e della giustizia sociale, ma l’ha appena sussurrata. La campagna elettorale di Bersani è stata troppo politicista, incentrata più sulle alleanze che sui contenuti, impegnata a corteggiare Monti mentre saliva, proprio grazie al montismo, l’onda di Grillo. Chissà, a volte viene da pensare che chi vive in modo agiato ha difficoltà a capire quello che bolle nei sottofondi della società e che si muove nel cuore e nel cervello dei ceti popolari. Sono del resto vent’anni che succede: è questa la vera, tremenda sconfitta del centrosinistra. Ed è il nodo irrisolto che sta di fronte al Pd: come ha scritto nei giorni scorsi Emanuele Macaluso, “un partito non può restare a metà strada tra essere una forza che opera per attuare programmi che non modificano sostanzialmente l’assetto della società italiana e una forza che invece vuole ricollegarsi alla storia della sinistra italiana ed europea, per coniugare il riformismo con una prospettiva di trasformazione profonda della società, che la renda sempre più vicina all’eguaglianza sostanziale dei cittadini”.
E ora, che fare? La coalizione che ha preso più voti, cioè il centrosinistra, ha il dovere di fare una proposta al Paese su contenuti di grande cambiamento, sulla questione morale e su quella sociale. La partita del cambiamento è quella da giocare se si vuole dar vita a un Governo, sia pure di minoranza e per un periodo transitorio, in vista di un inevitabile ritorno alle urne. Su questo si vedrà se il M5S sarà disposto o no a confrontarsi sulla sfida di cosa fare per il Paese: ognuno si assumerà le sue responsabilità. L’alternativa del “governissimo” basata sull’alleanza tra centrosinistra e centrodestra semplicemente non esiste, perché le due forze sono troppo distanti sui contenuti e sulla concezione della democrazia. L’alternativa, in realtà, è quella del rapido ritorno al voto. Certo, in questo caso il centrosinistra dovrebbe andare alle nuove elezioni con un altro assetto, in termini di idee, coalizione, leadership. Una fase storica si è chiusa, non ci si può illudere di riproporre una continuità di classi dirigenti e programmi. Tutti -anche il centrodestra- dovrebbero capirlo, per approdare a una fase del tutto nuova della politica italiana.
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