Il Tenente Piero e le filandine Elvira e Dora
Il primo, “Il partigiano Tenente Piero” dello studioso sardo Gino Camboni, è dedicato a Piero Borrotzu, comandante della Brigata d’Assalto Lunigiana” con nome di battaglia “Tenente Piero”, e al suo sacrificio: il 5 aprile 1944 a Chiusola, frazione montana di Sesta Godano, alle pendici del monte Gottero, si consegnò ai tedeschi e diede la vita per sottrarre ai carnefici una settantina di uomini, rastrellati casa per casa e raccolti nel sagrato della chiesa di San Michele. Si addossò ogni responsabilità per essere stato ospitato in paese da un’anziana donna: “Non fate del male agli abitanti, non hanno colpa”, disse a un ufficiale nazista, “mi sono presentato loro come un viaggiatore”. Chiusola fu salva, ma il “Tenente Piero” venne condotto nel chiuso di una casa, spogliato e torturato, e poi spinto sul piazzale della chiesa, dove fu fucilato. Il suo sacrificio, che gli valse la Medaglia d’Oro, fu ricordato nel dopoguerra da Giuseppe Nestini nel suo “Piero Borrotzu caduto per la libertà”, e poi più recentemente da Giulivo Ricci in “La colonna Giustizia e Libertà” e da Laura Lotti in “Il Tenente Piero”. Camboni riprende il filo della Storia e raccoglie altre testimonianze, tratteggiando il ritratto di un grande sardo-ligure. Borrotzu, nato a Orani (Nuoro), visse la sua infanzia anche a Vezzano Ligure, il paese natio della madre. L’8 settembre, ufficiale dell’Esercito, era a Milano: indignato per il contegno dei capi, fuggì con un carico di armi e iniziò la Resistenza in Lombardia, per poi raggiungere, tramite il parente Antonio Ferrari, il movimento cospirativo legato a “Giustizia e Libertà” che il colonnello Giulio Bottari stava organizzando a Vezzano. Nel gruppo entrò a fra parte anche Franco Coni, nato a Cagliari, che di Borrotzu era stato compagno di accademia. Dopo un tradimento, a seguito del quale fu arrestato e poi ucciso Gino Dallara, il “gruppo Bottari” si spostò a Torpiana di Zignago. La brigata guidata dal “Tenente Piero” si insediò nella zona di Antessio, Airola e Chiusola, sotto il monte Gottero, e si contraddistinse per azioni valorose. Dopo l’assalto alla caserma fascista di Carro per fare incetta di armi, Borrotzu e i suoi si mossero verso Groppo, inseguiti dai repubblichini. Il fuoco nemico uccise un partigiano barese, Serafino Giovannello, mentre, assediati e ormai sconfitti, si diedero la morte l’aretino Arrigo Scopecchi e Hans, un disertore tedesco che si era unito ai partigiani. Il 3 aprile il comando tedesco spezzino decise “un grande e salutare rastrellamento” in tutta l’Alta Val di Vara. La notte del 4 fu rastrellato casa per casa il borgo di Chiusola, mentre la gente ancora dormiva. All’alba Borrotzu, “offertosi volontariamente al nemico per salvare da strage un paese innocente” (come recita la lapide murata a fianco della chiesa), fu ucciso. Chiusola l’ha ricordato successivamente con un cippo e con l’intitolazione di una piazza, e strade, piazze e scuole gli sono state dedicate a Orani, a Nuoro, a Sesta Godano, alla Spezia (Favaro) e a Vezzano Ligure, dove è sepolto: nella tomba è scritto “lottò e morì con la virtù di un cavaliere antico”. Prima della scarica dei fucili gridò “Viva l’Italia libera”. Forse era un socialista umanitario, più probabilmente un “badogliano”, che era solito affermare che “a tutto ci si può adattare, tranne che alla servitù”. Sempre il 5 aprile altri tre uomini del “Tenente Piero”, il parmense Elio Pavesi, il ragusano Giovanni Salice e il cosentino Salvatore Icones, catturati dai tedeschi a Pian di Mezzo, vennero condotti a Sesta Godano e, di fronte alla gente costretta ad assistere, fucilati nella piazza del Comune. Bottari, dal giugno, si spostò a Genova a dirigere l’Ufficio Informazioni del Comando ligure della Resistenza: scoperto il 14 settembre, fu arrestato e deportato a Mauthausen, dove si spense poco prima della liberazione del campo.
Parole dense e vere: è così che si trasmette la memoria. I ragazzi di Nuoro che ogni anno vengono a Chiusola sono colpiti e coinvolti: il germe dell’indifferenza, di fronte a valori alti come la solidarietà, il sacrificio, il dono di sé, non è padrone, viene sconfitto. Così come accade ai ragazzi calabresi di Petilia Policastro, giunti anche quest’anno nella nostra provincia, a Varese Ligure e a Zignago, per ricordare il calabrese Dante Castellucci.
Il secondo libro, della giornalista spezzina Sondra Coggio, è altrettanto importante. Si intitola “Noi, le donne della filanda” e parla con la voce delle donne, delle operaie che entravano giovanissime in quella filanda di Fossamastra, lo jutificio, che ha rappresentato per più di mezzo secolo un “pezzo” importante della nostra industria. Il libro ci fa conoscere una realtà dove le condizioni di lavoro, igieniche e ambientali, erano terribili. Dove si usciva sporche e stanche, dove ci si ammalava e si moriva. Dove le donne venivano seguite anche in bagno, per contare i minuti perduti nel lavoro e recuperarli a fine giornata. E’ la storia di donne straordinarie che ho avuto la fortuna di conoscere, come Delfina Betti e Ines Maloni, combattenti fino all’ultimo, che non “non sono mai state zitte”, come diceva Ines con orgoglio. Delfina ha raccontato in “Classe operaia e Resistenza” lo sciopero allo jutificio del marzo 1944, l’arresto di sette operaie, la deportazione in Germania delle sorelle Elvira e Dora Fidolfi. Solo Dora tornerà viva dai campi. La sua testimonianza è la parte più intensa del libro: “Ventisei anni, ho lavorato in quella fabbrica: ventisei anni. Lavoravo dalle 7,30 della mattina fino alle 17 del pomeriggio. Era un orario lungo, faticoso. E si andava a lavorare a piedi, da Baccano di Arcola a Fossamastra: era molto lunga. Dovevamo attraversare campi e saltare fossi, alla sera si faceva una bella fatica. In fabbrica volevano che portassimo gli zoccoli, d’estate e d’inverno. E quando era brutto tempo, c’era tanta umidità, e sentivamo l’acqua nei piedi e nelle gambe. Fossamastra era una palude… C’era tantissima polvere, dappertutto. L’odore della juta ti si attaccava addosso, non c’era modo di levarselo. Non avevamo le docce e i servizi, e nemmeno la mensa. Ci davano una pausa, ognuna mangiava il suo panino lì fuori e beveva un po’ d’acqua dal rubinetto… Certe cose non mi piacevano: lo sfruttamento, le imposizioni. E se c’era da dire quel che si pensava, io non ero una che si nascondeva. E poiché eravamo controllate, continuamente, queste cose le ho pagate care. Ricordo che una volta il capo sala ci minacciò: riprendete immediatamente il lavoro. Io dissi: no. Noi non lo riprendiamo. Non fino a quando non abbiamo ottenuto ragione. E avevamo veramente ragione. Insomma, le condizioni di lavoro erano inaccettabili, e c’erano anche tante differenze di trattamento salariale. Quel poco che ci veniva dato, era troppo importante. Ci serviva per vivere. Per questo, era importante far capire che avevamo una voce e una coscienza. So di aver pagato fino all’ultima parola”. Ancora parole dense e vere. Storie che oggi appaiono impossibili, ma che sono accadute. Lezioni morali e politiche più che mai attuali, perché, conclude Dora, “i diritti sono costati fatica, lacrime e sofferenza, e non è scontato che restino come sono: bisogna tenere gli occhi aperti, non perdere mai la forza della solidarietà, non rinunciare mai a far valere gli ideali di giustizia”.
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