Il teatro alla Spezia, tra passato e futuro
Città della Spezia, 6 agosto 2017 –
LA CREATIVITA’ DEGLI ANNI SESSANTA
La storia del teatro alla Spezia è molto ricca e creativa. Ne ripercorro un tratto, quello degli anni Sessanta del secolo scorso, insieme all’amico Arturo Izzo, uno dei protagonisti. I suoi ricordi cominciano dal 1962. Leggiamo insieme un suo testo inedito:
“’Camicie rosse’ era il titolo di una commedia scritta da Orsola Nemi. Fu messa in scena alla Spezia giusto agli inizi degli anni ’60 da una compagnia dal nome un po’ pretenzioso e altisonante: ‘Piccolo Teatro della Spezia’. La regia fu affidata a un ufficiale della Marina Militare, tale comandante Asti. La commedia ricordava le gesta e le imprese garibaldine che portarono all’unità d’Italia. Alla Spezia praticamente ‘tutti’ parteciparono alla sua messa in scena. Cito a ruota libera non in ordine alfabetico: Gianni Ianelli, Luciano Francesconi, Roberto Danè, Umberto Cortis, Giuliano Disperati (poi in arte Esperati), Giorgio Balossino, io pure -giovanissimo-, Paolo Corvo… La musica fu composta dal Maestro Pasquale Izzo, ed eseguita appositamente… ‘Camicie Rosse’ andò in scena al Teatro Civico senza infamia e senza lodi…
In quegli anni un’altra parentesi teatrale spezzina fu “Comizzi d’amore”, rappresentato all’Astra e al Civico nel ‘65. Pensato da me con Aldo Rescio, Leo Bertanza, Eliano Andreani, Sandro Galli e altri, era un collage di testi, canzoni, e brani jazz suonati in scena, mentre venivano proiettate sequenze di grandi diapositive in bianco e nero. Tutto tematizzato contro la guerra nel Vietnam… Leo Bertanza volle la doppia zeta nella parola “Comizzi”: per collegarci e nello stesso tem¬po per distinguerci da “Comizi d’amore” di Pier Paolo Pasolini.
Parte dei componenti del “Piccolo Teatro della Spezia” confluirono in una scuola di recitazione. Terminata quella scuola più che dopolavoristica, coordinata dall’anziano ma capace Arrigo Chiostrini, ex attore di prosa a tutto tondo -allora viveva in un pensionato per ex attori a Bologna-, fummo esaminati e selezionati alla Spezia per essere scelti come allievi della scuola del Teatro Stabile di Genova. Avevamo così -in qualche modo- fatto una scelta. Vennero alla Spezia i registi Carlo Quartucci e Vittorio Melloni. Aspiranti allievi della Spezia eravamo alcuni diciottenni che da qualche tempo si cimentavano con scene e messe in scena.
Oltre a me, ricordo Carla Bolelli, Mara Baronti, Fulvio Acanfora, Augusto Caffaz, Antonello Pischedda, Bruno Montefiori. Ognuno di noi aveva preparato un brano da presentare e, non senza nervosismo e ansia, così fu. La serata finì davanti a una pizza, disquisendo su Beckett con Carlo Quartucci. Fummo, sostanzialmente tutti ammessi.
I cambiamenti furono non pochi, e di ogni tipo. Le lezioni con frequenza quotidiana si tenevano a Genova nella sede del Teatro Stabile. Ciò rendeva tutti ‘pendolari’ dalla Spezia, io da Carrara. Questa condizione è da leggere come indicatore di forte motivazione… Le materie erano: Dizione – Vittorio Melloni; Dizione e Recitazione – Marcello Aste e Vittorio Melloni; Mimo – Carlo Quartucci, qualche sporadica lezione la tenne Dario Fo; Trucco – Gino Carubbi, che svolgeva pure la mansione di amministratore delle compagnie che si via via si formavano; Storia del Teatro – Giorgio Guazzotti.
Arrivò il momento del ‘saggio’. Fu scelto un brano de ‘La Giara’ di Luigi Pirandello. Io e Antonello Pischedda fummo chiamati a sostenere un dialogo tratto dalla ‘Giara’. Ottenemmo un buon apprezzamento del pubblico, una sorta di ‘promozione sul campo’. Pagavamo per frequentare quella scuola, tuttavia non ci venivano versati quei ‘contributi figurativi’, al pari per esempio dell’Accademia d’arte drammatica ‘Silvio d’Amico’ di Roma, che permettevano poi di maturare la pensione come ex attori di prosa. Ricordo ancora il suono della voce di Ivo Chiesa che diceva a volume molto alto: ‘Allora possiamo considerarli tutti diplomati!’.
Nella stagione 66-67 fui, con altri, inserito nell’organico del Teatro Stabile, con un piccolo particolare: il contratto mi scritturava per sostenere la parte del ‘Facchino’ ne ‘I due gemelli veneziani’. Tale parte aveva in tutto lo spettacolo n. 1 battuta; la ricordo ancora: ‘Verona l’è granda, Verona l’è bela…’.
Misteriosamente, malgrado il mio contratto, quella parte andò al genovese Mario Rodriguez… A me invece fu assegnata ‘sul campo’ quella di ‘Birro’, ovvero uno dei Birri che partecipavano all’ ‘arresto di Arlecchino’, interpretato dallo scomparso Gianni Fenzi. Essendo una messa in scena già allestita, mi trovai a dover fare i conti con la precedente impostazione della stessa: un po’ come salire su un treno in corsa….
Enrico Ardizzone, splendido attore genovese, caratterista allora in età avanzata che già aveva lavorato con Govi era, nei ‘Due gemelli’, ‘Il Bargello’. Nella scena dell’’arresto di Arlecchino’ soffiava in un potente fischietto e gridava: ‘Guardie scaligere, arrestatelo!!!’. Entravamo allora in scena io e Ireneo Petruzzi (che ritrovai anni dopo con Fo a recitare alla ‘Comune di Milano’), di corsa, con due scale (‘scaligere’) una per spalla. Con la voce che imitava la sirena della polizia ‘ingabbiavamo’ così Ardizzone e, sollevandolo, lo portavamo via, perpetuando così la commedia degli equivoci nella commedia dell’arte… Senonché quella scena era stata costruita anni prima senza tener conto che il buon Ardizzone non aveva più né la forza né l’agilità di sostenersi e, fatalmente -ogni sera-, o io o Petruzzi gli pestavamo i calli con suo gran disappunto… inevitabile…
Dopo molti anni da allora, pochi anni fa, trovai una videocassetta in vendita contenente un’edizione dei ‘Due gemelli’ datata ’73. La guardai con una certa distaccata curiosità: quella scena era stata totalmente modificata. Al momento del fatidico ‘arresto’ i ‘Birri’, Arlecchino e ‘Il Bargello’ si inquadravano da soli in un plotoncino che ordinatamente si avviava poi verso la galera….
Facciamo un passo indietro. A un certo punto, nel ’66, di questo percorso vi fu una pausa costituita dalla messa in scena di ‘Jacques ovvero la sottomissione’ di Eugene Ionesco, allestimento realizzato assieme alla scuola del Teatro Stabile di Genova. La regia era di Marcello Aste, il cast formato tutto da spezzini: Jacques, Arturo Izzo; moglie di Jacques, Carla Bolelli, poi Antonello Pischedda, Fulvio Acanfora, Augusto Caffaz, Gabriella Tartarini, Elide Manna. Fu rappresentato al Teatro Civico e demmo prova di una ormai raggiunta maturità. Le prove erano quotidiane, mattino e pomeriggio. Faticose e stressanti. Marcello Aste era molto esigente, poiché in realtà dall’esito di quella messa in scena sarebbe dipeso parte del suo futuro. Per contro, per tutti noi, costituiva forma di volontariato…
Facemmo, con quello spettacolo, una breve tournée estiva. ‘Organizzatore’ era Antonello Pischedda, forse più motivato a potenziare il proprio ruolo… Cosa che nello spezzino gli riuscì arrivando a dirigere il Teatro Civico…
Tornando a Genova, ricordo che nel ’67 entrai nell’allestimento de ‘Il drago’ di Evgenij Schwarz, con Ottavia Piccolo, Omero Antonutti, Eros Pagni, Camillo Milli, Giampiero Bianchi; regia di Paolo Giuranna.
Ogni fine stagione, si perpetuava la stessa situazione di insicurezza esistenziale: a parte quei pochi molto bravi, degli altri che potevano risultare interscambiabili e soprattutto delle donne, chi sarebbe stato riassunto l’anno dopo? Questa permanente condizione determinava un notevole stress, assieme a una visione critica della conduzione del Teatro Stabile e delle scelte che caratterizzavano la sua politica culturale nel territorio.
La consapevolezza di questa condizione, l’essere a ridosso del ’68, le tensioni ideali e politiche che ci attraversavano, spinsero alcuni di noi a fare il grande passo: spostarsi a Roma per fare teatro di avanguardia e politico.
A Roma nacque così il ‘Teatro Pretesto’ che, dopo aver faticosamente messo in scena ‘Improvvisazione’ da Ruzante e Rabelais”, senza più trovare interlocutori, uscì definitivamente dal mercato. Quel gruppo si sciolse: chi tornò alla Spezia, chi andò a Milano, chi rimase qualche tempo a Roma….
Di quegli anni, quelle esperienze, mi restano ancora oggi impresse figure di grande spessore: Eros Pagni, Ottavia Piccolo, Giampiero Bianchi con cui ero molto legato. La ‘specificità’ dell’esperienza di palcoscenico fa sì che incontrando un ‘antico’ collega di anni e anni fa, resti un rapporto molto intenso, come se ci si fosse lasciati da mezz’ora… Ricordo Tonino e Zanetto – i due gemelli – interpretati dal grande attore, tanto istrionico quanto caratteriale, Alberto Lionello. Fra quegli interpreti ricordo Omero Antonutti, la simpatica e gentile Margherita Guzzinati, Camillo Milli. E naturalmente Eros Pagni, splendida voce, non solo gran ‘padrone’ della scena, con il quale lavorai ancora per alcuni anni. Gentile e a modo suo generoso, Pagni ‘sulla scena’ era sempre disponibile a venire in soccorso ai colleghi più giovani e quindi meno esperti e capaci. Ricordo in una occasione (forse nella ‘Balena bianca’ di Massimo Dursi, recitavamo nel teatrino sperimentale di Piazza Marsala a Genova) eravamo lui ed io in scena, quando la memoria, proprio nel momento in cui avrei dovuto parlare mi abbandonò totalmente e di colpo: buio totale e grande panico, in cui rimasi alcuni lunghissimi istanti tentando invano di ripescare la battuta. Nulla. Eros mi tese una metaforica mano, improvvisando una battuta di ‘collegamento’. La cosa funzionò, e molto bene. Ripresi a recitare in modo fluido anche se un pochino emozionato. Dopo, quando lo ringraziai, mi disse con molta modestia e umiltà vera: ‘Sono cose che possono succedere a tutti’. Questo era Pagni.
A proposito di teatrino sperimentale, lì conobbi anche Tino Buazzelli, recitando con lui nella commedia ‘La politica degli avanzi’ di Arthur Adamov, che era incentrata sulla crudeltà di certa legge verso la gente di colore. Buazzelli era un estroverso, sanguigno, egocentrico attore romano di Frascati. Ricordo un dettaglio: una volta il regista programmò le ‘prove di memoria’ forse ravvisando un’incertezza durante una replica. Buazzelli si arrabbiò moltissimo, considerandola quasi un’offesa… Di Buazzelli mi rimane una sua confidenza. Nelle conversazioni nei camerini una volta raccontò che quello che gli cucivano addosso come ‘recitazione epica’ per lui non era altro che ‘recitare semplice’…
Ma torniamo a Pagni. Nei ‘Due gemelli’, durante il monologo di un’attrice -Marzia Ubaldi – Luigi Squarzina mi chiese di intonare (da dietro le quinte) un ‘Miserere’. Già alla seconda replica, disse a Pagni di affiancarmi. La mia voce, evidentemente, non gli sembrava ancora abbastanza timbrata e sostenuta per riuscire da sola a reggere e svolgere quella funzione… Pagni ogni sera, quando lo spettacolo arrivava a quel punto, era lì, a fianco a me a timbrare: ‘Miserere, Miserere’. Era, insomma, un collega generoso ma soprattutto umanamente onesto. Certo, l’Accademia lo aveva formato bene; ricordo tuttavia Arrigo Chiostrini che sempre lo indicava come persona che aveva doti naturali per la recitazione…”.
Arturo abbandonò poi il teatro, e diventò un fotografo e un documentarista di grande valore. Il suo prezioso archivio professionale, frutto di trent’anni di lavoro, è stato donato, anni fa, alla Mediateca. Ma Arturo non è nemmeno stato invitato, nelle scorse settimane, all’inaugurazione. “E’ un segno dei tempi”, mi dice con amarezza. Ha ragione.
CIVICO E DIALMA OGGI: POTENZIALITA’ E POLEMICHE
Gli anni successivi sono stati, alla Spezia, gli anni della pubblicizzazione del Teatro Civico, diretto da Antonello Pischedda dal 1972 al 2007. I risultati sono stati straordinari dal punto di vista della fruizione dello spettacolo, assai meno dal punto di vista della produzione culturale (laboratori, ricerca, formazione). E’ un punto su cui mi sono sempre battuto, con convegni e iniziative, quando dirigevo il settore cultura del principale partito di maggioranza, il Pci, e “pungolavo” le Amministrazioni Comunali: ma con scarsi risultati. Ovviamente le responsabilità non furono solo degli altri, ma anche mie: quando uno non riesce a raggiungere un obbiettivo deve sempre, autocriticamente, chiedersi dove ha sbagliato. Da Sindaco presi nuovamente di petto il problema: la realizzazione del Centro culturale giovanile Dialma Ruggiero fu pensata come “la soluzione”. E il coordinamento Teatro Civico – Dialma doveva essere molto forte. Quattordici anni dopo che giudizio dare? Negli ultimi dieci anni il lavoro e la vita mi hanno portato spesso fuori città, non ho più il “polso” della situazione di Civico e Dialma, che non posso più frequentare come un tempo. La mia impressione è che ci siano due compartimenti stagni: il Civico destinato all’intrattenimento, con proposte più “commerciali”, il Dialma dedicato al teatro contemporaneo e alla costruzione di un pubblico nuovo. Manca del tutto il coordinamento tra le due realtà. Il che è un problema anche perché il Dialma non può essere definito in tutto e per tutto un teatro, per mancanza di spazi e per dotazione di posti. E’ più uno spazio laboratoriale. In altre città, specie all’estero ma non solo, la distinzione tra questi due diversi modi di fare teatro non esiste, o è assai meno marcata. E quello che da noi è teatro “di nicchia” è altrove teatro “popolare”
Ho chiesto a Andrea Cerri, degli Scarti, compagnia teatrale che ha la residenza al Dialma, la sua opinione. Eccola in sintesi:
“Il Dialma Ruggiero, con la rassegna ‘Fuori Luogo’ e con le attività di alcune giovani compagnie stabili di produzione come Scarti e Balletto Civile, dal 2011 sta portando avanti un progetto di costruzione dal basso di un pubblico nuovo: attraverso l’ospitalità di opere e di artisti tra i più importanti e significativi nel campo del teatro contemporaneo italiano ed europeo; attraverso un quotidiano lavoro di ‘formazione’ del pubblico che parte dalle giovani e giovanissime generazioni; e attraverso numerosi progetti di formazione in campo teatrale che coinvolgono studenti e fasce disagiate della popolazione come anziani e persone disabili.
Con ‘Fuori Luogo’ vengono proposti al pubblico progetti artistici spesso rischiosi che non strizzano l’occhio alle mode più corrive del momento, ma si pongono nella prospettiva di non dare al pubblico quello che si crede voglia vedere, ma offrirgli quello che ancora non c’è, creare aperture a nuovi linguaggi e nuovi saperi, che vadano a modificare la realtà e non a ricalcarla rifugiandosi in accomodanti e rassicuranti cliché…
Non si è trattato di proporre solo un cartellone di spettacoli preconfezionato, ma di aver costruito negli anni una comunità di persone, una comunità di cittadini che si riconoscono nell’arte e nella bellezza, che vogliono condividere, attraverso il teatro, momenti di socialità e di vita vera, che arricchiscono il proprio vissuto con esperienze reali oggi sempre più rare in un mondo ormai votato alla completa virtualità…
Nel giro di pochi anni La Spezia ha visto dunque la nascita e la crescita di una nuova realtà teatrale che oggi è riconosciuta e apprezzata a livello nazionale, un ‘piccolo puntino’ di riferimento per artisti, compagnie nazionali, operatori teatrali e per tante famiglie e giovani della nostra città.
Prova ne è il fatto che per la prima volta nella sua storia La Spezia può contare due realtà teatrali riconosciute dal Ministero dei Beni Culturali nella ripartizione del Fondo unico dello spettacolo (Gli Scarti e Balletto Civile), che oltre all’attività sul territorio, portano le loro produzioni, – create spesso al Dialma Ruggiero – , in giro per l’Italia e l’Europa”.
E circa il futuro? Leggiamo ancora Andrea:
“Nel lungo periodo mi piacerebbe che Spezia, nel suo piccolo, tendesse sempre di più al modello europeo. Mi piacerebbe che il teatro più ‘istituzionale’ della città oltre agli spettacoli più classici e di tradizione ospitasse anche i grandi artisti della ricerca europea e mondiale. Mi piacerebbe fosse un luogo di socialità e di riflessione, un punto di riferimento centrale per la città.
Ma perché ciò succeda sono necessari, oltre a condizioni sistemiche nazionali, processi che sono tutt’altro che semplici e di breve periodo (anzi spesso i cambi improvvisi in questi processi risultano dannosi). Serve un’attività quotidiana e faticosa di diffusione della cultura teatrale e di una cultura della bellezza. È necessario formare un pubblico nuovo e più consapevole, partendo dalle nuove generazioni.
E’ necessario che chi frequenta quel luogo, e ogni altro luogo di ‘cultura’, lo senta un luogo ospitale, dove l’esperienza teatrale non sia la mera fruizione passiva di uno spettacolo, ma un esperienza culturale e sociale”.
Diversa, in buona parte, l’analisi di Anna Maria Monteverdi, studiosa di teatro. Leggiamo, in sintesi, il suo pensiero:
“In un momento storico in pieno stravolgimento, privo di certezze, non posso tollerare un teatro che rinneghi la sua funzione primaria, cioè non si interroghi sul senso del nostro devastato mondo, sul significato di identità (da coniugare al plurale) che come dice Remo Bodei è un ‘cantiere aperto’, conflittuale, dai contorni incerti.
Il teatro è stato il mio centro di gravità: come non possiamo essere coinvolti nelle storie di emarginazione raccontate da Ascanio Celestini, o non ridere amaramente della presa in giro delle dittature mascherate da democrazia quando a scriverle è un drammaturgo del Kosovo censurato e perseguitato, come nel caso di Jeton Neziraj? La città dovrebbe cibarsi di queste storie che ci mostrano le infinite sfumature dell’esistenza attuale, le sue contraddizioni, e avere il coraggio di produrlo e ospitarlo cercando non nelle agenzie ma direttamente nei territori nascosti, addirittura feriti, di un teatro vivo; finora invece la città ha intrapreso un banale percorso sedendosi dalla parte del terzo trasportato, senza la possibilità di indicare il tragitto. Un teatro inutile, un teatro da intrattenimento che non serve a nessuno e non salva nessuno perché non produce alcun cambiamento. Questo teatro non mi interessa, è un teatro contro se stesso. Preferisco vedermi una serie Tv. Non capisco la ragione di chi programma queste cose, a meno di non immaginarsi interessi, scambi, accordi. E appunto, come possiamo trattare e barattare così volgarmente il teatro quando il grande Shakespeare ci ricorda con i suoi capolavori, che il teatro è quell’organo miracoloso che parla a noi di ciò che consapevolmente o meno, abbiamo sepolto nelle nostre coscienze?…
In questa malsana aria che tira, in cui per anni ha dilagato il protezionismo politico (l’uguaglianza di opportunità non è mai stata contemplata, e la qualità e la competenza se c’era era un caso), dove non c’è un coordinamento tra le iniziative e non si è mai investito seriamente nei progetti promozionali e formativi, con conseguente desertificazione dei musei (altro che ‘motori dell’innovazione, attivatori sociali della creatività’, slogan della campagna elettorale di Federici) non sarebbe male ripensare la cultura e il teatro all’interno di un serio e partecipato dibattito civico attualmente azzerato”.
Anna Maria vuole un teatro internazionale, politico, impegnato. Che cambia la vita di chi lo fa e anche di chi lo vede. E l’esperienza del Dialma? Anna Maria apprezza alcune scelte artistiche di “Fuori Luogo”, altre meno. Ma soprattutto trova “autolimitante” il fatto che la rassegna sia portata in uno spazio ridotto. Ecco le sue proposte:
“La mia idea è che debba esserci continuità e collegamento tra Civico e Dialma. Ci dovrebbe essere un’unica direzione artistica. Amo l’idea che possa esserci anche per Spezia una Casa del teatro come era nell’utopia dei grandi padri fondatori della regia contemporanea da Grotowsky a Mejerchold: si abita il teatro, si vive il teatro, non lo si ‘consuma’”.
Infine una considerazione: “Il Dialma è e deve rimanere uno spazio pubblico e non privato, per la libera e autonoma gestione delle associazioni con la supervisione di qualcuno che ne controlli, però, la qualità. Per la logica della rotazione spero che la nuova Amministrazione prepari un bando per avere residenza e disponibilità di spazi, per fare in modo che tutti abbiano gli stessi diritti a fare arte, a produrre, a divertirsi e a fare cultura per la città”.
Andrea Cerri è d’accordo sul bando:
“Noi siamo molto favorevoli alle assegnazioni tramite bando, tant’è che lo avevamo richiesto anche alla scorsa Amministrazione, proprio per evitare polemiche. Anche perché noi viviamo sui bandi: negli ultimi anni abbiamo vinto i bandi del Ministero per il FUS, tre bandi di Fondazione Carispezia, ogni anno vinciamo il bando della Compagnia di San Paolo col quale finanziamo “Fuori Luogo”, il bando Funder 35 di Fondazione Cariplo, il bando della Regione Liguria “Abilità al plurale” sul coinvolgimento di persone con disabilità e progetti con i detenuti e altri minori…. Dunque ben venga il bando… La cosa fondamentale è che noi non siamo qui per meriti ‘politici’… Siamo qui perché abbiamo portato dei risultati e perché a differenza di tanti altri, ci abbiamo investito, e ci abbiamo investito tanto. In termini di soldi, di lavoro e di vita. E abbiamo costruito negli anni una comunità di persone”.
Lo scontro è dunque molto duro, al di là di impostazioni di merito che non mi sembrano, a leggere bene le parole, del tutto inconciliabili. Ed è uno scontro per certi versi simile a quello che ha accompagnato, negli anni passati, la nomina del “direttore” del Civico, o, proprio in questi giorni, l’aggiudicazione del bando per le attività dell’Estate spezzina. Se ne può uscire in un solo modo: l’Amministrazione, dopo un ampio dibattito partecipato, definisca con chiarezza i suoi obbiettivi, sul Civico, sul Dialma e sulle politiche per lo spettacolo. Su questa base -solo su questa base- emani bandi chiari e non equivoci. E si doti di commissioni con esperti di alta levatura per la successiva aggiudicazione. Solo così si potrà forse superare lo scontro in atto. Perché il teatro -e la cultura in genere- devono essere il terreno di massima espressione della libertà.
Post scriptum
Sui temi affrontati in questo articolo si vedano, in questa rubrica:
“Quarant’anni di Teatro Civico”, 10 giugno 2012
“Il ritorno dell’Odeon. E della creatività”, 7 luglio 2013
Si veda inoltre, su www.associazionecultuarlemediterraneo.com:
“Spezia imiti Genova. Premio a Eros Pagni”, “Il Secolo XIX”, 25 ottobre 2016
lucidellacitta2011@gmail.com
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