Presentazione di “Tra utopia e realismo. Appunti sul Sessantotto” – Mercoledì 18 Settembre ore 21 – Circolo Arci Solaro a Lerici, dialogo tra Giorgio Pagano e Roberto Centi – Un’intervista e una recensione sul libro
11 Settembre 2024 – 08:07

Presentazione di
“Tra utopia e realismo. Appunti sul Sessantotto”
Mercoledì 18 Settembre ore 21 – Circolo Arci Solaro a Lerici
dialogo tra Giorgio Pagano e Roberto Centi
Un’intervista e una recensione sul libro
Mercoledì 18 settembre alle ore 21 al …

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Il seme è l’ideale nella testa dell’uomo

a cura di in data 4 Agosto 2024 – 13:57

La famiglia Cervi
(foto archivio Cesare Cattani)

Città della Spezia 31 dicembre 2023

L’ultimo racconto storico dell’anno è il più bello e il più significativo tra quelli scritti per la rubrica. E’ stato per tanti anni memoria collettiva, e deve restare parte di ognuno di noi. E’ il racconto dei sette fratelli Cervi, contadini della campagna reggiana e partigiani, fucilati dalle milizie fasciste ottant’anni fa, il 28 dicembre 1943. Insieme a loro c’era Quarto Camurri, ex repubblichino convertito all’antifascismo. Vennero uccisi al Poligono di Reggio Emilia, dopo un mese di prigionia nel carcere politico dei Servi, come rappresaglia per la morte di un funzionario della Repubblica sociale nel corso di un’azione partigiana. Erano stati arrestati nella notte tra il 24 e il 25 novembre di quell’anno.
E’ il racconto più bello e significativo perché, come scrisse dieci anni dopo Italo Calvino su “Patria Indipendente”, contiene tutto ciò che di meglio il popolo italiano espresse nella Resistenza: “lotta contro la guerra, patriottismo concreto, nuovo slancio di cultura, fratellanza internazionale, inventiva nell’azione, coraggio, amore della famiglia e della terra”.
Alcide, il padre dei Cervi, era cattolico e militante del Partito Popolare. Durante il regime fascista il padre e i figli Gelindo, Antenore, Aldo, Ovidio, Fernando, Agostino ed Ettore – questi i nomi dei sette fratelli, dal più grande di 42 anni al più giovane di 22 – si avvicinarono al socialismo e al Partito Comunista. Si può dire che religiosi i Cervi lo furono sempre. Lo spiegò il vecchio Alcide nel libro, scritto con Renato Nicolai, “I miei sette figli”:
“I primi socialisti ci hanno insegnato una religione. Che bisogna essere legati al popolo, mica con le prediche, ma con l’organizzazione. Fare il bene per noi vuole dire organizzarsi. E organizzarsi vuol dire non essere superbiosi, ma modesti nella massa che fa tutta insieme. Aiutiamo a crescere i bambini senza stenti e malattie, aiutiamo i lavoratori invalidi, facciamo nascere gli asili e le scuole, diamo lavoro. […] Giuda ha tradito perché ha avuto i soldi, e oggi la religione si sciupa perché ci sono i ricchi che offendono il vangelo dei poveri. Invece Gesù ha detto: a chi ha più sarà chiesto”.Parole semplici e “popolari”, di quella “sinistra di popolo” di cui ci sarebbe uno straordinario bisogno anche oggi. Ecco perché, mentre il comunismo che c’è stato in URSS è finito da tempo, siamo ancora qui, ottant’anni dopo, a celebrare e a ricordare i Cervi.
I Cervi, ha scritto Liano Fanti nell’altro libro chiave per comprendere la loro vita – “Una storia di campagna” – erano “innanzitutto contadini con uno spiccato senso dell’imprenditorialità, con una carica a un tempo individualista e socialista”. Volevano il socialismo ma anche la loro terra e la loro libertà.
Furono contadini d’avanguardia: studiavano, sperimentavano, fallivano e riuscivano. Nella loro Campegine realizzarono una biblioteca popolare per stimolare i contadini a emanciparsi. Furono i primi nella zona a disporre di un trattore e di un mappamondo, divenuti icone di Casa Cervi, oggi un bellissimo museo della storia dell’agricoltura, dell’antifascismo e della Resistenza. Leggiamo ancora Italo Calvino:
“Così la biblioteca di questi agricoltori progrediti e fortunati, s’ingrandiva di pari passo con gli avanzamenti tecnici ed economici della fattoria. Un giorno famoso fu quello in cui Aldo andò a Reggio a comprare un trattore. Fece la strada del ritorno guidando un trattore nuovo fiammante, e i contadini lungo la strada venivano a vederlo passare, il terzo dei fratelli Cervi al volante di quella macchina, sopra la quale troneggiava uno strano oggetto che non ci si sarebbe mai aspettato di trovare là sopra; un mappamondo, nuovo fiammante anche esso. Era un’altra compera fatta in città da Aldo quel mattino. Da tempo capitava che alla sera i fratelli si perdessero in interminabili discussioni geografiche; ora con il mappamondo molti problemi che si presentavano nei loro studi sarebbero risolti. Per la via Emilia e per le strade campestri della bassa. Aldo avanzava col trattore e col mappamondo multicolore che girava sul suo asse”.
Quando cadde il fascismo i Cervi offrirono a Campegine quella che passerà alla storia come la “pastasciutta antifascista”: fu una festa conviviale, all’interno della quale, senza distinzioni e gerarchie, una comunità ritrovava il senso della propria identità. Quasi la prefigurazione utopica di un mondo nuovo.
Ma la pace e la libertà non erano ancora arrivate. Dopo l’8 settembre, la fattoria dei Cervi divenne deposito di armi, ma soprattutto rifugio ospitale per soldati sbandati e prigionieri di guerra riusciti a fuggire. La prefigurazione utopica della società futura si concretizzò nella realizzazione di una sorta di “avamposto di fratellanza internazionale nel cuore della guerra più crudele”, come lo definì Calvino. Tanti furono i fuggiaschi che si fermarono alla fattoria nei mesi dal settembre al novembre 1943: italiani, inglesi, sovietici, sudafricani, americani… Furono accolti e curati, e aiutati ad avvicinarsi al fronte.

Aldo Cervi
(foto archivio Cesare Cattani)

Alcuni salirono con Aldo Cervi sull’Appennino reggiano subito dopo l’8 settembre. Ma era troppo presto per il partigianato ai monti. La “banda Cervi”, anche in seguito a una dura polemica con i dirigenti del Partito Comunista, rientrò in pianura e si dedicò ad azioni di sabotaggio, ad attentati, al reperimento di armi. Con la banda collaboravano le donne di famiglia, con l’azione di cura e di sostegno e con il lavoro quotidiano nella stalla e nei campi, quando gli uomini erano assenti.
Aldo era la “testa politica” – così lo definì il padre. Al suo fianco c’era un altro giovane di grande audacia: il calabrese Dante Castellucci, che con il nome di battaglia “Facio” diventerà poi protagonista della Resistenza spezzina e lunigianese. Alcide lo ricordava così:
“Ragazzo fantasioso, intellettuale, pitturava e scriveva. Insieme a lui e alla Lucia [Sarzi, sorella di Otello, il celebre burattinaio] i miei figli organizzano un piano per far scappare i prigionieri dal campo di Fossoli. Di notte vanno ai lati del campo, tagliano i fili spinati, e Castellucci chiama i prigionieri in francese, come fa l’uccellatore con gli uccelli. I prigionieri scappano e trovano nella strada donne in bicicletta che li portano a casa mia. Così se prima la casa sembrava una caserma, adesso somigliava alla Società delle Nazioni”.
I Cervi mantennero fino all’ultimo il loro impegno di ospitalità, anche quando era diventato ormai troppo pericoloso. Cercarono inutilmente altri rifugi. Fino alla notte tra il 24 e il 25 novembre, quando la fattoria fu circondata dai fascisti e incendiata. La banda si arrese. Il padre, i sette fratelli e Camurri furono arrestati e imprigionati a Reggio. Gli stranieri e Dante – che si fece passare per francese perché aveva vissuto a lungo in Francia e conosceva la lingua – furono invece incarcerati a Parma, alla Cittadella, e per questo si salvarono. Dante, fuggito dal carcere, cercò inutilmente di liberare i Cervi.
Alcide, trasferito in un altro carcere, non seppe nulla della morte dei figli. L’8 gennaio 1944 un bombardamento alleato gli aprì la via per fuggire: tornato a casa, fu informato, anche se non subito, dalla moglie Genoeffa Cocconi. Alcide riuscirà a riprendersi dal durissimo colpo. Non fu così per Genoeffa, che morì di dolore a meno di un anno di distanza dalla morte dei figli. La sua bara fu portata fuori casa dalle quattro nuore: le donne, anche in quella circostanza, colmarono il vuoto dell’assenza degli uomini, come poi faranno per tutta la vita. Solo nell’ottobre 1945 papà Cervi riuscì a far celebrare un funerale per i sette fratelli. Al cimitero di Campegine pronuncerà la celebre frase: “Dopo un raccolto ne viene un altro”.
In un altro discorso, tenuto a Roma nel 1954, Alcide disse:
“Mi hanno sempre detto… tu sei una quercia che ha cresciuto sette rami, e quelli sono stati falciati, e la quercia non è morta… la figura è bella e qualche volta piango… ma guardate il seme, perché la quercia morirà, e non sarà buona nemmeno per il fuoco. Se volete capire la mia famiglia, guardate il seme. Il nostro seme è l’ideale nella testa dell’uomo”.
Quello dei Cervi era un “umanesimo di razza contadina”, scriverà Salvatore Quasimodo in una poesia che porterà in dono a casa Cervi. Un umanesimo che fu il segno distintivo anche di Dante Castellucci “Facio”. E che fu uno degli architravi della Resistenza. Un umanesimo libertario e un candore morale eccentrici rispetto al Partito Comunista. Il Partito Comunista da un lato aveva ragione: era stato un errore, da parte dei Cervi, trasformare la propria casa in una base armata e piena di prigionieri. La loro strategia avrebbe richiesto una estrema mobilità di sedi, anzi addirittura un non aver sede. Ma, come ha scritto Renato Nicolai nel libro del figlio Paolo “I fratelli Cervi”, “appariva loro giusto affermare il diritto alla libertà nel territorio a loro naturale”. Quello dei Cervi fu un “tenace e febbrile tentativo di rendere naturale la politica”, uno “stupendo tentativo di restituire ricchezza e potenza umana alla politica”. In questo – in una visione “lunga” della storia – avevano ragione loro.

Buon Anno a tutte e a tutti

lucidellacitta2011@gmail.com

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