Il professore quasi cieco e il giovane ‘Spezia’
Città della Spezia, 1° maggio 2016 – Scrittrice, storica, insegnante, organizzatrice culturale, Rachele Farina, nonostante qualche acciacco, è ancora attivissima. Dopo una vita passata a Torino e a Milano è tornata al Fezzano, dove è nata. Tra le sue opere c’è “La Resistenza taciuta”, un libro importante sulla partecipazione delle donne alla Resistenza, scritto con Anna Maria Bruzzone e pubblicato nel 1976. E’ appena uscita la nuova edizione, che sarà presentata anche a Spezia. A quattordici anni, sfollata a Castagnetoli di Mulazzo presso parenti che ospitavano a casa loro i partigiani, Rachele conobbe, tra gli altri, anche “Facio” (“mi ricordo che sembrava un barbone”, mi racconta). Poi andò a Torino a studiare: la sua insegnante migliore, alle magistrali, fu Caterina Cossale, comunista, che aveva fatto la Resistenza in Piemonte. La Cossale in seguito si trasferì a Spezia perché sposò Ettore Spora, sindacalista della Cisl, che fu poi sindaco della città e parlamentare democristiano. Spezia si ritrova anche nel libro “La Resistenza taciuta”, nonostante sia una raccolta di testimonianze di partigiane piemontesi. La nostra città è infatti protagonista del racconto di Maria Rovano, un’ostetrica piemontese, di famiglia contadina, che esercitava la professione a Barge, in provincia di Cuneo. Nell’ottobre 1943 la sua casa diventò sede del Comando di zona di una Brigata garibaldina. Da allora Maria, con il nome di “Camilla”, svolse un’intensa attività partigiana nella zona. Leggiamo la sua testimonianza: “Più tardi sono arrivati a casa mia anche i Carando. Erano due fratelli, Ennio ed Ettore. La personalità più forte, enormemente più forte, era Ennio, che chiamavamo ‘Silvio’. ‘Silvio’ era professore di filosofia alla Spezia ed era venuto su con alcuni suoi allievi; era amico da tempo di Luigi Capriolo, di Geymonat e di Giolitti. Aveva una cataratta su un occhio e ci vedeva quasi niente dall’altro; inoltre soffriva di congiuntivite, per cui gli colavano le palpebre. Aveva 36 anni ma ne dimostrava settanta… Si sedeva lì e mi faceva dei discorsi con tanta bontà, delle parole indimenticabili. Quando sono nei momenti di massima disperazione mi sento Carando vicino… Carando era stato mandato nella zona per formare le giunte clandestine del C.L.N… Carando mi aiutava a capire, magari lavorando in cucina (mi ha insegnato a fare un certo risotto che ancora adesso chiamo ‘risotto alla Carando’)”.
Ennio Carando si era laureato in filosofia a Torino, ed era diventato amico del grande filosofo Piero Martinetti, uno dei pochi accademici italiani che, non avendo fatto giuramento allo Stato fascista, fu estromesso dall’Università. Nell’ottobre del 1940 Carando arrivò al Liceo Classico Costa della Spezia. Leggiamo la scheda scritta da Maria Cristina Mirabello per lo Stradario dell’Istituto Storico della Resistenza: “Le convinzioni etico-politiche di Carando, che saranno fondamentali per capire le sue scelte resistenziali, muovono da un fortissimo interesse non per la semplice teorizzazione del mondo ma per agire in esso e tra gli uomini… Particolare attenzione pone Carando a intessere relazioni umane, in cui e da cui possa ricavare e dare un senso etico. Non a caso egli tende a fissare, nei vari luoghi in cui insegna, la propria abitazione non vicina al luogo in cui esercita la sua professione, e ciò perché ritiene che questo gli consenta di stabilire più facilmente una pluralità di rapporti. È così che egli, docente del Costa alla Spezia, dimora a Levanto e compie tutti i giorni un bel tragitto per arrivare a scuola. Tale atteggiamento, volto all’altro e agli altri, si riverbera anche nel suo insegnamento che, in genere, affascina i giovani interlocutori i quali, per la prima volta nella loro vita scolastica, sentono parlare di valori censurati o negati dall’ideologia fascista. Nello stesso tempo egli presta grande attenzione agli avvenimenti politici italiani che stanno drammaticamente precipitando. In un volumetto del 1939 scritto da Carando (e non pubblicato), che egli fa circolare fra gli amici e di cui, grazie a ciò, ci sono arrivate tracce postume, afferma, con parole premonitrici: ‘Una vera riforma deve essere contemporaneamente morale, sociale, economica… l’importante, se si deve morire, è saperlo fare con dignità e per un’ideale che meriti un sì grande sacrificio’. Gli anni fra ’41 e ’43 sono di particolare importanza per la maturazione delle scelte del professore di filosofia che, a Torino, ha occasione di conoscere, insieme a un gruppo di intellettuali torinesi, Luigi Capriolo, un operaio comunista, appena uscito da dodici anni di carcere e confino. Proprio Capriolo, con il suo esempio, molto etico e poco dogmatico, fa superare a Carando qualsiasi riserva verso il comunismo: egli si iscrive così al Partito comunista e lo rappresenta nel primo C.L.N spezzino, formatosi all’indomani dell’8 settembre 1943, quando l’armistizio blocca il trasferimento di Carando ad altro Liceo. Proprio nell’ambito del C.L.N spezzino, il professore, in coerenza con i suoi assunti teorici precedenti, esprime l’urgenza dell’azione, spesso in disaccordo con altre componenti politiche di questo organismo che, anche a causa delle diversità di opinione, registra uno stallo per vari mesi, finché le iniziative prese autonomamente dal basso non smuovono tale situazione. Carando rimane alla Spezia fino a quando, verso il 20 luglio 1944, il C.L.N non viene praticamente annientato dalla polizia fascista che arresta e deporta il delegato azionista Mario Da Pozzo, costringendo gli altri membri del C.L.N. a cambiare zona o a recarsi ai monti. In questo frangente Carando preferisce ritornare in Piemonte, regione che egli conosce meglio, in cui può fare affidamento su una più vasta rete di relazioni ed in cui molti suoi ex allievi hanno già raggiunto le formazioni partigiane. Arrivato in Piemonte, entra nelle Brigate garibaldine comandate da Pompeo Colajanni ‘Barbato’ e gli viene affidato il compito di coordinare la Polizia partigiana, incarico assai delicato in quanto volto da un lato a reprimere lo spionaggio fascista e dall’altro a stabilire rapporti con le popolazioni, favorendo la nascita di un nuovo ordine democratico, che provenga dal basso e sia ispirato dai C.L.N. Carando, che nel frattempo ha convinto il fratello Ettore, capitano di artiglieria, a entrare nelle formazioni garibaldine, porta avanti il compito assegnatogli muovendosi continuamente, a piedi e in bicicletta. Questo nonostante la sua pressoché completa cecità, anzi, fidando addirittura sulla sua infermità che egli reputa possa metterlo al riparo dai sospetti fascisti. E proprio mentre sta portando a termine un’importante missione, insieme al fratello Ettore e al partigiano Leo Lanfranco, un operaio, figura di spicco dell’antifascismo piemontese e commissario politico nella prima Divisione delle Brigate Garibaldi, i fascisti lo catturano nella locanda del Pino a Villafranca Piemonte, probabilmente per una delazione. I tre partigiani vengono qui interrogati per ore e crudelmente seviziati a opera del capo fascista Spirito Novena, infine fucilati il 5 febbraio 1945. Nella motivazione della Medaglia d’Oro alla memoria si legge a tale proposito: ‘Incaricato di importanti funzioni nelle formazioni partigiane, veniva catturato dal nemico a seguito di vile delazione e sottoposto alle più crudeli sevizie. Minacciato di morte se non avesse rivelato le notizie che interessavano al nemico, mantenne imperterrito il silenzio fin tanto che non veniva barbaramente trucidato’”.
“Camilla” riferisce le ultime ore di “Silvio” con le parole del priore di Villafranca. Carando gli sorrise dicendogli: “Reverendo, ognuno ha la sua metafisica, non insista!”. “Camilla” andò a raccogliere informazioni da un fascista, la cui moglie era sua paziente: “Mi son dovuta subire tutto il racconto della cattura e dell’interrogatorio dei Carando e di Lanfranco. Sentivo la testa che mi scoppiava. E quello finendo il discorso: ‘Io ho detto ai miei ragazzi: ‘Imparate da quelli’. I tedeschi non li volevano più fare fuori; ma erano tre pezzi purtroppo potenti, noi li abbiamo fatti fuori!’”.
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Tra gli allievi spezzini di Carando che combatterono in Piemonte c’era anche Enzo Minichini. Enzo ci ha lasciati da poco. Era uno spirito libero e scanzonato. Si è fatto beffe anche della propria morte, salutando tutti con un manifesto funebre ironico e originale. “Con disappunto, a cremazione compiuta -si è letto nelle vie di Spezia- Enzo Minichini partecipa la propria morte, memore e grato a tutti quanti lo hanno amato e che ha amato”. Enzo era nato a Spezia e aveva un cognome unico in città. La sua famiglia era di origine napoletana, “con qualcuno finito nei libri di storia”, raccontava. Il nonno materno era infatti scappato di casa con il fratello per andare nella spedizione dei Mille insieme a Garibaldi. I Minichini custodivano la sciabola del nonno garibaldino, e la raccolta giornalistica sull’uccisione del socialista Giacomo Matteotti: come diceva Enzo, erano “piuttosto antifascisti”. Nel 1942, a 17 anni, Minichini si iscrisse al Partito comunista, nel 1944 partì per il Piemonte su indicazione del suo maestro Carando, per unirsi ai partigiani. Qui conobbe personalità leggendarie come i già citati Capriolo, Antonio Giolitti (il suo primo commissario politico), Ludovico Geymonat (grande filosofo), “Barbato”, e anche Giancarlo Pajetta. A Barge ci fu la prima azione, la distruzione con il fuoco di 42 aerei tedeschi. Raccontava: “Gli abbiamo dato fuoco. Fuoco come? Con la benzina. Eravamo un po’ gasati al ritorno… Non abbiamo avuto bisogno di sparare un colpo”. Enzo ricordava sempre, inoltre, la grande reazione della sua Brigata al rastrellamento del 21 marzo 1944 (“Non ho mai visto i tedeschi scappare come allora… facevamo il tiro al piccione”). L’attività di guerriglia di Enzo proseguì fino al ferimento alla gamba e alla cattura, il 7 settembre 1944. Fu fortunato a non morire, perché al tedesco gli si inceppò la machine pistol. E fortunato anche perché fu liberato, proprio grazie a “Camilla”. Ecco il suo racconto: “Tra gli studenti di Carando ricordo Minichini, ventenne, che era stato uno dei suoi più bravi allievi. Si davano del tu. L’avevamo battezzato ‘Spezia’ perché veniva da quella città (oggi è avvocato e viene tutti gli anni a trovarmi). A ‘Spezia’ aveva fatto crescere il pizzo per farlo sembrare meno giovane… Nelle riunioni questo ragazzo faceva parlare tutti quanti, prendeva appunti con ordine… era tanto preciso… e poi tirava le conclusioni. ‘Ma guarda, così giovane’, mi dicevo, ‘com’è serio’. Uno dei tanti giorni sento sparare in piazza. La farmacista viene a chiamarmi: ‘Camilla!’. Corro in paese a vedere cosa succedeva. C’era un gruppo di tedeschi, venuti su a riparare le linee telefoniche che i partigiani facevano continuamente saltare o portavano via con azioni di disturbo. Sulla strada tra Barge e Bagnolo avevano catturato ‘Spezia’ e un altro partigiano che scendevano per i rifornimenti. I ragazzi erano buttati per terra feriti, in piazza davanti al caffè, con questi tedeschi che gridavano: ‘Banditi! Portiamo impiccare a Saluzzo!’. Ne avevano già impiccato uno a Cavour. I ragazzi zitti. Intanto vedo ‘Spezia’ sgranare gli occhi addosso a me, imploranti”. ‘Camilla’ convinse i tedeschi che a Enzo dovevano essere messe due asticelle alla gamba, prima di trasportarlo all’impiccagione. Disse loro che sarebbe andata in ospedale a prendere il necessario, ma ne approfittò per avvisare i partigiani, che riuscirono a liberare i due prigionieri. Enzo fu curato in ospedale, il suo compagno, un siciliano, non ce la fece a sopravvivere. I tedeschi rinunciarono alla rappresaglia in cambio di un compenso: soldi raccolti dai “signori”, i commercianti di Barge. ‘Spezia’, costretto a portare il bastone (che lo accompagnò per tutta la vita), fu spostato dalla montagna alla pianura: “la montagna è protettrice, la pianura è come il mare, è infido”. Partecipò a numerose azioni, fino alla liberazione di Torino. Nel dopoguerra fece l’avvocato, a ottant’anni fu eletto per qualche anno Presidente provinciale dell’Anpi. Ricordava sempre Carando: “E’ stato il mio mentore, da lui ho imparato tante cose, anche sulla vita e sulla morte… l’ultima nostra chiacchierata è stata la notte prima della sua cattura, su Socrate e Platone. I garanti della mia prima tessera al Partito comunista, nel 1942, furono Carando e Ludovico Geymonat, di passaggio a Levanto per andare a una riunione a Roma”.
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Quando diventai dirigente di partito e poi amministratore pubblico, Enzo mi fu molto vicino, prodigo di consigli, pronto a sostenermi ma anche a criticarmi: sempre, però, con l’affetto e la delicatezza di un padre. Ci univa l’essere liberi da ogni condizionamento di potere. Lo ricordo ottimo amministrativista: negli anni ottanta fu membro e Presidente per lungo tempo del Comitato Regionale di Controllo sugli atti degli Enti locali spezzini, funzione che svolse con unanime riconoscimento di imparzialità e autorevolezza giuridica. Fu poi membro della Fondazione della Cassa di Risparmio della Spezia, indicato dal Comune: conducemmo insieme una forte battaglia per la trasparenza. Amava Spezia, ma anche Lerici, il Comune dove andò a vivere (a San Terenzo): il legame con queste due nostre città era un altro elemento che ci univa. Ho chiesto a Sandro Bertagna, che fu come me e prima di me segretario provinciale del Pci e sindaco, di aiutarmi a ricordare Enzo. Mi ha inviato poche righe che lo descrivono come meglio non si potrebbe fare, e che per questo riporto integralmente:
“Ho iniziato a conoscere e a incontrare Enzo sempre più frequentemente dalla metà degli anni ’60, forse anche prima perché era molto legato alla famiglia di Orietta (la moglie, ndr). Sicuramente era legatissimo a mio suocero (Giuseppe Montalti, sindacalista della Cgil, ndr), penso il suo migliore amico. Allora viveva assieme alla famiglia paterna in centro città. Il padre, Annibale, era un personaggio incredibile. Un antifascista da sempre, irriducibile, colto e arguto, un napoletano tutto d’un pezzo oltreché comunista. Gli piaceva far salotto, ricevere per discutere delle vicende del mondo ( ricordo il suo sgomento dopo lo scambio di cannonate sull’Ussuri tra Urss e Cina). Il tutto accompagnato da cene pantagrueliche che finivano con le zeppole eccellenti che la moglie preparava. Enzo sosteneva che il padre amava comportarsi come un aristocratico napoletano. Vero ma, aggiungo io, del tipo della cerchia di Eleonora de Fonseca Pimentel (patriota italiana, protagonista della Rivoluzione Napoletana del 1799, ndr). Enzo era in tutto e per tutto il figlio di Annibale. Aveva un fratello, segretario di una importante Camera del Lavoro meridionale. Ma era Enzo a essere il clone di Annibale: stessi valori, il culto della famiglia, integerrimo nella vita e nella professione. E soprattutto una persona generosa e buona. Amava con tenerezza la moglie Giovanna -una tellarina forte e splendida- e la loro figlia Aurora. Sul piano politico Enzo era soprattutto antidogmatico e anticonformista, anche nei modi. A me è capitato a volte di trovarlo nel suo studio, mentre riceveva i clienti, vestito da metalmeccanico, con la tuta. Talvolta (molto spesso) irriguardoso con la dirigenza. Ci riteneva -da aristocratico figlio di Annibale- gli impiegati del partito. O forse traeva queste posture da alcune letture, che certamente conosceva, di Piero Calamandrei. Ammetto che, per chi non lo conosceva bene, i suoi interventi talvolta potevano apparire disorganici, privi di conclusione. Ho sempre pensato invece che i suoi interventi intendessero offrire agli interlocutori spunti e suggerimenti culturali e ideali, anche solo accennati, inerenti l’oggetto della discussione. Come se ci invitasse a riflettere ancora su una pluralità di aspetti e questioni prima di trarre le conclusioni, o come lui diceva ‘prima di emettere sentenza’. Di questo aspetto della personalità di Enzo ne parlai una volta con Rinaldo Pelagotti, suo amico e collega di studio legale, della cui opinione ho sempre tenuto gran conto. Scoprii che anche Rinaldo condivideva la mia valutazione dicendomi che Enzo sfiorava le argomentazioni, senza esplicitarle nella loro interezza, ‘solo per modestia’ e ‘non andava a sentenza per intima umiltà’”.
Carando e Minichini diedero molto alla città e al Paese. A proposito di filosofi, viene in mente l’ultima intervista ad Aldo Masullo, filosofo napoletano novantatreenne: “Il nostro tempo storico ci mostra qualcosa di paradossale: nel massimo della connessione informatica, l’uomo sta vivendo il massimo della sconnessione civile. Il compito della politica dovrebbe essere quello di ricreare una tensione verso l’unità, la connessione… Ma ho l’impressione che stiamo vivendo ciò che io chiamo la ‘razionalità idiota’. Idiota non tanto delle scarse capacità intellettive, ma come suggerivano i greci dell’attenzione dedicata al proprio particolare. Siamo come i topi di una nave che affonda, ciascuno cerca la sua via di salvezza. Ma non è così che ci si salva… Una delle chiavi della modernità civile è il rispetto. Che non vuol dire devozione, ma consapevolezza della relazione. Tutto ciò che io penso ha un senso solo se si confronta con quello che pensano gli altri. Il rispetto significa non interferire con la vita mentale dell’altro, ma confrontarsi con essa”. Il superamento della concezione della vita come cammino dedicato al proprio particolare, il rispetto, la consapevolezza dell’importanza della relazione con gli altri sono gli elementi costitutivi dell’eredità politica e morale della Resistenza. Un grande storico, Roberto Battaglia, comandante partigiano in Lunigiana, indicò con l’espressione “società partigiana” l’assunzione di una responsabilità collettiva, per rispondere alle esigenze non solo delle proprie famiglie ma della comunità tutta: il noi che prevalse sull’io. La nostra Costituzione è il riflesso di questa presa di coscienza. Oggi l’eredità della Resistenza e la Costituzione sono a rischio non solo perché sono scomparsi i partiti popolari e “costituzionali”, ma anche perché si è impoverito il tessuto della “società partigiana”. Ma se vogliamo che rinascano partiti popolari e “costituzionali” non possiamo aspettarci molto dai loro vertici. Il più dipende dal cambiamento personale e sociale, dalla nostra capacità di rimettere il noi al posto dell’io. Dobbiamo ricostruire relazioni, guardare agli altri, tornare a essere protagonisti, attori e non spettatori.
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