Presentazione di “Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista” di Dino Grassi, Venerdì 22 novembre ore 17 al Palazzo Ducale di Massa
14 Novembre 2024 – 21:22

Presentazione di
“Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista” di Dino Grassi
Venerdì 22 novembre ore 17 al Palazzo Ducale di Massa
Massa, Palazzo Ducale – Sala della Resistenza
Il libro di Dino Grassi “Io …

Leggi articolo intero »
Crisi climatica e nuove politiche energetiche

Economia, società, politica: anticorpi alla crisi

Quale scuola per l’Italia

Religioni e politica

Ripensare il Mediterraneo un compito dell’Europa

Home » Città della Spezia, Rubrica Luci della città di Giorgio Pagano

Il parroco che ama la gente quasi più di Dio

a cura di in data 2 Ottobre 2022 – 09:53

Don Sandro Lagomarsini, a sinistra, alla manifestazione della Val di Vara a Genova del 4 giugno 1987
(foto archivio Lagomarsini)

Città della Spezia, 21 agosto 2022

Anche quest’estate dedicherò alcuni articoli alla creatività di scrittori e artisti spezzini (si vedano, in questa rubrica, le quattro parti dell’articolo “Spezia civile e creativa”, 8, 16, 22 e 29 agosto 2021).  Lo scorso anno diedi spazio soprattutto ad autori giovani, quest’anno mi soffermerò più su alcuni “nonni”. Forse perché penso che sul futuro abbiano più da dirci i “nipoti” e i “nonni”, i giovani e gli anziani, che le generazioni di mezzo… O forse perché penso che la “rivoluzione” o “conversione” -la sempre più necessaria “grande trasformazione” della società nel segno della giustizia sociale e ambientale- abbia il suo motore segreto in un appuntamento misterioso tra le generazioni che sono state e la nostra, come pensava il filosofo Walter Benjamin. E che non avesse ragione un altro filosofo, Carlo Marx, quando scriveva che la “rivoluzione” non trae la sua poesia dal passato.

LE RIFLESSIONI DI DON SANDRO LAGOMARSINI SULL’ECOLOGIA E SULLA CHIESA
Oggi scriverò degli ultimi due libri di Sandro Lagomarsini, da 56 anni parroco di Càssego di Varese Ligure, ed ora anche di Valletti e Scurtabò. Nel 1968, con lo stesso spirito e lo stesso fine di don Milani, don Sandro diede vita a un doposcuola per i figli dei contadini. Da allora ha sostenuto molte battaglie per la dignità del mondo della montagna.
Queste ultime sono al centro della riflessione del libro “Coltivare e custodire. Per una ecologia senza miti”. Dalla lunga permanenza sul territorio don Sandro ricava una visione di “ecologia integrale” che rivede molti luoghi comuni dell’ambientalismo: perché non concepisce la natura come un’area protetta, una “natura naturale” da contemplare, ma come un patrimonio rurale da far vivere. La bellezza della montagna è lontana dall’essere naturale: quando l’ammiriamo dobbiamo sapere che stiamo guardando, nel bene e nel male, un paesaggio che è stato profondamente modificato e mantenuto per generazioni da pratiche agricole e da saperi contadini. Da qui alcuni moniti: la vegetazione non va lasciata a se stessa, il bosco maturo va tagliato, le bestie al pascolo hanno una funzione positiva, e così via. Senza il taglio degli alberi i mirtilli non sopravvivono ad alte quote, mentre con l’erba alta le marmotte non si accorgono dei predatori. Sulle terrazze dell’Uccellina, gioiello botanico del parco della Maremma, la “biodiversità” è frutto dell’attività dei carbonai: sono loro che hanno depresso il leccio, pianta dominante; la ripresa incontrollata del leccio, togliendo la luce al sottobosco, farà sparire i tre quarti delle altre specie vegetali. L’attività umana regolatrice, dunque, serve. Soprattutto se esercitata in modo comunitario: la gestione dei beni collettivi in montagna è stata lungo i secoli una scuola di democrazia e di buon governo.
Naturalmente questa visione sa bene che deve contrastare la visione che tende a una totale sottomissione della natura ai bisogni dell’uomo. Consideriamo, per esempio, la cultura comunista e socialista (ma analoghe considerazioni potrebbero essere fatte per tutte le altre culture): alcune pagine di “Letteratura e rivoluzione” di Lev Trockij abbozzano l’immagine grandiosa di una natura futura completamente rimodellata dalla tecnologia, in grado di “spostare le montagne”. A questa visione radicalmente antropocentrica, in cui il rapporto tra esseri umani e natura è gerarchico, don Sandro contrappone la visione basata su “una relazione di uso e di gestione, prudente, non violenta e non distruttiva” (cito dal secondo libro di cui parlerò: “La polvere sulla tunica”). O riusciremo a costruire questa nuova armonia o, come dimostrano anche le vicende di questa estate, la natura, che è sempre stata anche violenta, lo sarà sempre più: una “violenza innaturale”, provocata dall’uomo.
Il titolo del secondo libro riprende una tesi già espressa da don Sandro nella mia ricerca sugli anni Sessanta, dove egli dice:
“Come ai tempi del Vaticano Secondo un po’ di ‘impazienza applicativa’ sembra di nuovo necessaria. Altrimenti Papa Francesco non ce la farà: la sua sembra, a volte, una voce nel deserto. Serve un colpo di battipanni sulla tunica impolverata della Chiesa”.
Nel libro l’autore testimonia i modi per togliere “una polvere fatta di disattenzione, insensibilità, durezza, pigrizia mentale, sordità al disagio, piccole e meno piccole prevaricazioni, mancanza di sincerità, formalismi, ostentazioni”.
Le proposte sono molte: investire di più sull’istruzione cristiana dei ragazzi, rendendo i giovani catechisti protagonisti attivi di un laboratorio di esperienza; manifestare maggiore misericordia verso le “famiglie ferite”, per esempio i genitori battezzati non sposati in chiesa che chiedono i sacramenti per i figli, ma sono loro esclusi; evitare forme liturgiche troppo raffinate nelle uniche occasioni in cui le chiese sono piene, i matrimoni e i funerali; non presentare, ai ragazzi nei confessionali, una visione solamente negativa della sessualità… Bisogna evitare “la paura del protestantesimo che ci opprime da secoli”, scrive don Sandro. Cioè: il protestantesimo insiste solo sull’interiorità e non dà importanza alla liturgia, il cattolicesimo ha troppa ritualità, deve dare più attenzione alla vita, al Gesù che ama la presenza umana. Don Sandro ricorda davvero don Milani, che amava la gente “quasi più di Dio”.

Carlo Bellotti
(2018) (foto archivio famiglia Bellotti)

UN RICORDO DI CARLO BELLOTTI
L’articolo odierno è dedicato a Carlo Bellotti, che ci ha lasciati nei giorni scorsi. Fu per diversi anni, a Spezia, presidente degli Universitari Cattolici (FUCI) e poi del Movimento dei Laureati Cattolici, e delegato diocesano del Movimento Studenti dell’Azione Cattolica. Era presidente della sezione spezzina dell’Unione Cristiana Imprenditori e Dirigenti (UCID), dopo una lunga esperienza come dirigente di Termomeccanica. E’ stato un esempio di cattolico democratico gentile e impegnato nel sociale: dalla LILT (Lega contro i tumori) a Tele Liguria Sud.
Nel 1968 era con don Lagomarsini nel circolo don Milani di Spezia. Poi se ne staccò, come ha raccontato in “Un mondo nuovo, una speranza appena nata”, a causa della scelta politica del circolo di non votare per la DC. In Termomeccanica era il Capo del Personale, stimato dai lavoratori. Così lo ricorda, nel libro, Amedeo Lavaggi, operaio della Fim Cisl: “Noi battevamo i tamburi, avevamo bisogno dei bidoni vuoti… Li chiesi a Bellotti, che mi disse: ‘Io non so niente, ma i bidoni sono dietro quel muro’”.

CI BASTA LO SMARTPHONE?
Le due figure di cui ho scritto oggi fanno riflettere. Nel 1968-1969 tante energie si svilupparono anche nel mondo cattolico, portando a una frammentazione nelle associazioni e all’avanzata di un inedito pluralismo, di grande complessità. Guardiamo solo alle scelte politiche: sempre meno ci si sentiva vincolati agli ultimi ed estenuati indirizzi politici esternati dalle gerarchie ecclesiastiche. Emerse una nuova generazione di cattolici estranea all’esperienza religiosa e culturale delle generazioni precedenti: una generazione che non era democristiana e che non sarebbe neanche esatto definire tout-court antidemocristiana ma piuttosto postdemocristiana. Il che non significa che non ci fossero coloro che invece scelsero di impegnarsi nella DC, magari proponendosi di cambiarla: ma il tratto dominante non fu questo, fu quello del distacco dal mondo dei partiti.
Don Lagomarsini era un prete, non impegnato nei partiti: ma certamente con la DC non fu mai tenero. Bellotti fu consigliere comunale della DC dal 1964 al 1969, poi si staccò dall’impegno partitico. In “Un mondo nuovo, una speranza appena nata” ha affermato: “Si stavano perdendo alcuni valori all’interno della DC, prendevano campo sempre più posizioni di tipo personalistico… Non mi ricandidai più”.
Entrambi furono sconfitti sul punto di fondo: volevano una modernità senza secolarizzazione, senza cioè la perdita di Dio. Ma una modernità senza secolarizzazione la voleva tutto il Sessantotto, non solo i cattolici: per il Sessantotto la secolarizzazione era la mancanza di una riforma del sapere e della cultura e di un senso morale da dare alla vita, i grandi obiettivi per cui era nato.
Oggi la questione resta intatta. Papa Francesco usa il termine “fraternità”. Come nel Sessantotto.
Ci basta lo smartphone o abbiamo bisogno di un nuovo “senso comune”, di una nuova moralità, di un nuovo senso della vita?

Post scriptum
Su don Sandro Lagomarsini si vedano:
“Il doposcuola di don Sandro, il parroco di Càssego”, “Città della Spezia”, 4 settembre 2018
“Don Sandro Lagomarsini, un saggio scomodo”, dicembre 2021-gennaio-febbraio-marzo 2022, leggibile su
www.amegliainforma.it e www.associazioneculturalemediterraneo.com

lucidellacitta2011@gmail.com

Popularity: 3%