Il Museo Lia vent’anni dopo
Solamente pochi appassionati sapevano, nel 1994, che l’ingegner Amedeo Lia, imprenditore di un’azienda di apparecchiature elettroniche, già ufficiale di Marina, possedeva una straordinaria collezione di opere d’arte. Alcuni critici, come Federico Zeri, avevano scritto su alcune sue opere. Ma pochi ne erano a conoscenza, e quasi nessuno aveva visto la collezione. L’ingegnere era riservatissimo. Nella primavera del 1994 Lia propose la donazione al Sindaco Lucio Rosaia, a una condizione: che il Museo destinato a ospitarla fosse inaugurato in due anni e mezzo, entro dicembre 2016. Rosaia informò la Giunta, raccomandandoci di tenere il segreto: dovevamo prima appurare se eravamo in grado o no di vincere la sfida. Ma certamente la sfida la accettammo subito. La dirigente del Comune Marzia Ratti fu incaricata di appurare il valore della collezione. Non avemmo dubbi: era eccezionale, soprattutto per la parte medievale. La Ratti accompagnò l’ingegnere nella ricerca della sede: la scelta cadde -scartati Palazzo Crozza, che ospita la Biblioteca Mazzini, e l’ex Ufficio d’Igiene di viale Garibaldi-via Roma, che presto ospiterà la nuova sede dell’Archivio di Stato- sull’ex convento dei Frati Minimi di San Francesco da Paola, seicentesco, costituito da un insieme di edifici compresi tra via Prione, via Vecchio Ospedale e via XX Settembre. Fummo subito d’accordo: il recupero dell’ex convento era già iniziato nel 1990, per destinarlo a sede della Pinacoteca di arte moderna e contemporanea, in cui esporre le collezioni civiche che erano depositate negli scantinati. Decidemmo di destinarlo al Lia, e di realizzare la Pinacoteca nell’ex Ufficio d’Igiene(ma in seguito optammo per l’ex Tribunale di piazza Battisti).
Tomaso Acordon, avvocato del Comune, fu incaricato di seguire la parte legale e amministrativa, assai complessa. Per l’opera pubblica incaricammo l’ingegner Franca Farina, già progettista della Pinacoteca, di elaborare una nuova soluzione progettuale, insieme all’architetto Cesarina Zanetti per la parte architettonica e strutturale e all’ingegner Paolo Caruana per gli aspetti impiantistici. Il tutto sotto la supervisione dell’ingegner Canneti, altro dirigente comunale. Alla Ratti fu affidato l’incarico di una verifica scientifica complessiva sulle opere oggetto della donazione, cui poi seguì lo studio analitico affidato a esperti dei vari settori artistici. La Ratti ebbe anche il compito dell’ordinamento museale, insieme alla Zanetti. Lia collaborò attivamente su ogni aspetto. Tolse le opere di arte contemporanea, e propose un percorso che rispecchiava la sua collezione. Aveva l’idea del padiglione tipo Louvre, e sostanzialmente la facemmo nostra.
Io ero l’assessore responsabile per l’opera, perché avevo la delega anche ai lavori pubblici. Scegliemmo di eliminare alcune manomissioni ottocentesche, in particolare l’avancorpo su via Prione, per consentire il riconoscimento della chiesa, che risultava priva di facciata. In questo modo fu reso possibile restituire la verticalità della facciata e ridisegnare il sagrato. Ripristinammo anche la facciata dipinta, di superficie rosso marrone, scaldata dal giallo: perché era quella originaria, ancora visibile in qualche tratto di muro. La riprendemmo volutamente, anche come stimolo per recuperare la tradizione della facciata dipinta ligure, che un tempo abbelliva la nostra città.
Fu una corsa contro il tempo, ma ce la facemmo. L’opera fu inaugurata il 30 novembre 1996; il 3 dicembre venne Walter Veltroni, Ministro ai Beni Culturali. Fu merito di una “squadra” assai affiatata. E anche della fortuna che, come si sa, aiuta gli audaci: l’impresa che si aggiudicò i lavori, la “Restauri e Recuperi” di Napoli, fu straordinaria. Tecnici e operai lavorarono alacremente e con allegria. Con molti di loro, grazie ai sopralluoghi quotidiani, si instaurò un sentimento di amicizia. All’inaugurazione li invitammo tutti, uno per uno.
Ma il merito fu di tutta la città. Il Consiglio Comunale, maggioranza e opposizione, approvò la scelta di fare un mutuo di 10 miliardi con la Cassa Depositi e Prestiti senza nemmeno sapere quali opere il Museo ospitasse. Io battei più volte tutti i quartieri, per spiegare ai cittadini che non potevamo realizzare altre opere pubbliche, e che gli interventi già previsti sarebbero stati rinviati di uno-due anni. La città capì.
Sul significato della realizzazione del Museo Lia nella storia recente della città ho già scritto in questa rubrica (“Il sogno di Lia ha cambiato la città”, 9 settembre 2012): dopo la deindustrializzazione e “una crisi assoluta, così profonda e strutturale” da minare “lo stesso orgoglio e senso di appartenenza degli spezzini”, l’evento inatteso della donazione “concorse in modo decisivo alla reazione e al riscatto della città”.
Partimmo dal Museo Lia per dar vita a un programma che puntava sulla cultura, sul turismo e sulla “riscoperta” di un centro storico che era sopraffatto dall’asfalto e dalle macchine. Facemmo una lotta senza quartiere al traffico automobilistico, creammo un’ampia area pedonale con le vie pavimentate in pietra. Realizzammo altri musei, grazie anche a nuove donazioni; riaprimmo il Teatro Civico; nacque l’Università; risanammo il Poggio, eredità dei bombardamenti della seconda guerra mondiale, e volemmo a tutti i costi l’insediamento di un hotel. Cambiò l’immagine della città, fino ad allora luogo in cui solo i bancomat erano aperti, per dirla con la celebre battuta di Vergassola. Ci lasciammo alle spalle la fase in cui gli spezzini, e i residenti degli altri Comuni, andavano quasi sempre a Sarzana, e quasi mai a Spezia.
E oggi? Il Museo Lia aveva 13.000 visitatori circa nel 2007; dopo un calo nel 2012-2013 (10.000 visitatori circa), nel 2014 e 2015 è risalito a circa 12.000. Segno che è probabilmente cominciata una correlazione con il turismo delle Cinque Terre e delle crociere. Come dimostra il dato complessivo: 66.000 visitatori dei musei comunali nel 2105, grazie soprattutto al Museo Archeologico del Castello San Giorgio (non si considerano qui i dati del Museo Navale, il museo cittadino più visitato). Naturalmente dobbiamo fare molto meglio: più promozione, più legame della cultura con il turismo, più attività, più didattica… E soprattutto più partecipazione e più apertura: i musei, e le strutture culturali in genere, devono diventare sempre più luoghi sociali e inclusivi, che non si limitino a offrire attività culturali ma si aprano alla voglia di fare cultura dei cittadini e li coinvolgano. Il tutto praticato su scala comunale e sovracomunale, anziché museo per museo: perché è necessario che, anche in campo culturale, si operi sempre più in una logica di sistema territoriale e di rete, contro ogni particolarismo. Su questi temi rimando alla documentazione dell’incontro “Le città e la cultura” del 22 febbraio 2014, consultabile su www.associazioneculturalemediterraneo.com.
Uno degli studiosi più quotati in questo campo è uno spezzino, Fabio Donato, docente di Economia e Management all’Università di Ferrara, autore di due libri importanti: “Il museo oltre la crisi” (con Anna Maria Visser) e “La crisi sprecata. Per una riforma dei modelli di governance e di management del patrimonio culturale italiano”. Donato propone di favorire “forme di gestione associata, attraverso la creazione di reti, sistemi, distretti e consorzi, aperti anche alla partecipazione di soggetti privati” e invita alla partecipazione e all’apertura: “il pubblico cambia nella sua composizione e si pone con forza la necessità di conoscere il ‘nuovo’ pubblico di ogni museo”, per “stringere alleanze e costruire interscambi e relazioni”. Il museo va considerato dunque il luogo non solo dell’istruzione, dell’apprendimento, della ricerca e della conservazione ma anche della comunicazione e dell’intrattenimento, aperto ai cambiamenti sociali e all’integrazione con teatri e biblioteche.
Concludo facendo riferimento a una mia vecchia proposta: “La riflessione dovrebbe affrontare anche un punto controverso: è giunto o no il momento di abolire il biglietto d’ingresso nei musei o almeno di offrire frequenti occasioni di entrata gratuita? A Bologna l’hanno fatto dal 2006, e i visitatori sono passati da 210.000 a 350.000. Le minori entrate paiono giustificate dall’innalzamento dalla vera redditività dei musei, quella sociale. Il problema è complesso, perché far pagare significa anche “responsabilizzare” il cittadino. E’ una discussione che va aperta”. (“Museo gratis perché no”, “La Nazione”, 21 settembre 2012, leggibile su www.associazioneculturalemediterraneo.com). Ormai si va sempre più in questa direzione, come dimostrano gli esempi che seguono. Una fila interminabile di ombrelli, migliaia di persone incuranti della pioggia e facce giovani, come di solito si vedono per le svendite del marchio alla moda: era domenica 6 novembre, racconta “La Repubblica”, e in tanti hanno aspettato per ore di entrare al Museo Archeologico di Napoli, che ha staccato 7.200 tagliandi omaggio per la prima domenica del mese a ingresso gratuito. Alla Pinacoteca di Brera durante l’estate il nuovo direttore James Bradburne lo aveva lanciato come un esperimento, per vedere come sarebbe andato: il giovedì sera per ammirare la Madonna di Piero della Francesca e gli altri capolavori si potevano pagare due euro invece di 10. È stato un successo inatteso, i giovedì low cost andranno avanti almeno fino al 29 dicembre e la Pinacoteca ci ha voluto vedere chiaro. Ha condotto un sondaggio tra i visitatori, scoprendo che il 40 per cento ha meno di 35 anni, il 16 per cento sono studenti e il 34 per cento è alla sua quarta visita. Il fenomeno attraversa tutta Italia: a Reggio Calabria 6.201 visitatori al Museo Archeologico, dove sono ospitati i Bronzi di Riace, per la domenica a ingresso gratuito per le Olimpiadi dello scorso agosto; a settembre a Ferrara, sempre per la domenica gratuita, a Villa D’Este per i tanti visitatori si è dovuto contingentare l’ingresso, non più di mille persone presenti tutte insieme. E’ come gettare un sasso nello stagno, le orme si propagano. Anche all’estero è così: dal Louvre al British Museum, fino al Metropolitan Museum of Art di New York. Il fenomeno va studiato e capito.
Post scriptum
E’ un po’ che non scrivevo di cultura nella rubrica. E’ quindi l’occasione giusta per ricordare un protagonista della vita culturale cittadina, il gallerista Alberto Rolla, che ci ha lasciati il 25 dicembre scorso. Il 22 gennaio ci siamo ritrovati in tanti al CAMeC, per rendergli omaggio. E’ stato un bel momento corale di affetto. Ecco le parole che ho pronunciato quel giorno:
“Misura, equilibrio, gentilezza, ironia. E talento: suo, e degli altri di cui era scopritore. Sono le parole che mi vengono subito in mente per ricordare Alberto. Le nostre vite si sono incrociate tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso: io ero segretario della Sezione Centro del Pci, poi responsabile della Commissione Cultura della Federazione, lui era iscritto alla sezione della Chiappa, e aveva aperto la galleria Menhir. C’era un grande fervore: le riunioni, i convegni, le discussioni sulla Pinacoteca da fare… Alberto partecipava alla discussione come operatore privato, interessato alla collaborazione con il pubblico. Fu un grande scopritore di talenti, le cui opere mi mostrava in quel soppalco della Menhir… Ma era anche un divulgatore storico: Gino Bellani era un grande, lo fu ancora di più grazie a lui. Era un buongustaio, amava l’amicizia e al natura. Ho tanti ricordi: da un campeggio a Porto, in Corsica, negli anni Ottanta, con la moglie Sonia e la figlia, fino a una camminata nei sentieri di Tramonti, pochi mesi fa. Era un taoista perfetto. E un comunista: per lui e per molti il comunismo non era il legame con Mosca, era uno strumento di conoscenza. Alberto è stato protagonista di un tempo che non tornerà più. Non ci saranno più le Commissioni Cultura dei partiti o le gallerie come la Menhir. Ma ci sarà sempre l’arte contemporanea, in forme sempre nuove, e la gente continuerà a frequentare mostre e musei. Per fortuna: perché l’arte contemporanea è un linguaggio che provoca domande, costruisce un gusto critico e sollecita continuamente il cervello. Ne abbiamo bisogno in un’epoca in cui i cervelli li si vuole atrofizzati. Grazie Alberto: hai sempre lottato perché i nostri gusti non siano narcotizzati e i nostri cervelli atrofizzati”.
Poi, dopo i ricordi di tanti, abbiamo idealmente brindato con Alberto, accogliendo il suo desiderio di essere ricordato tra i sorrisi.
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