Il lavoro torni in Parlamento
Città della Spezia – 25 Novembre 2012 – Il 14 novembre, per la prima volta da quando la crisi finanziaria ha impattato sull’Europa ed è iniziata la politica del rigore a senso unico, dello smantellamento del welfare, dell’attacco ai diritti e della recessione economica ed occupazionale, c’è stata una mobilitazione che ha coinvolto nello stesso giorno i lavoratori e i giovani europei. E’ una data spartiacque, che segna un passaggio di fase. Certo, ci sono stati dei limiti. Intanto l’iniziativa ha riguardato solo i Paesi mediterranei, segno che i primi cinque anni della Grande Crisi hanno scavato un solco sempre più grande tra nord e sud del’Europa, il che configura una “questione meridionale” europea che rievoca quella che si trovò di fronte l’Italia all’indomani dell’Unità. Ancora: in Italia lo sciopero ha visto protagonista la sola Cgil, mentre le altre organizzazioni sindacali continuano incomprensibilmente a sottovalutare la gravità della situazione e il nesso che esiste tra i nostri problemi e la loro origine anche europea. E tuttavia la data è importante, perché l’internazionalismo del lavoro (di chi ce l’ha e di chi non ce l’ha) in questi anni si è indebolito fino a scomparire, mentre montava la globalizzazione, cioè l’internazionalismo della finanza. Il segnale di inversione di tendenza c’è stato.
E’ questa la lezione che ci consegna il 14 novembre: senza un internazionalismo sindacale, politico e civile il peggioramento italiano sarà più rapido, e il miglioramento altrui sarà più lento, ammesso che ci sia. Ma guardiamo meglio la situazione italiana, per capire perché è peggiore del resto d’Europa. Mario Monti, dopo i due primi decreti, aveva fatto grandi promesse: sentenziò che il Pil sarebbe cresciuto dell’11%; i salari del 12; i consumi dell’8; l’occupazione dell’8 e gli investimenti del 18. In realtà il Paese non è cresciuto di un centimetro, anzi è andato indietro. La Banca d’Italia ha rivisto tre volte al ribasso le ipotesi di decrescita. Non poteva, purtroppo, che finire così. Cito la previsione -era la fine dell’estate- non di un “estremista” della Fiom, ma di Pierre Carniti, ex segretario generale della Cisl: “Monti pensa che la soluzione per acquisire competitività sui mercati sia far lavorare di più gli italiani e pagarli meno. A me pare solo un’illusione, credo che con queste ricette non si potrà fare altro che aggravare il clima sociale che è già drammatico… In una fase recessiva come questa, le politiche deflazionistiche possono solo peggiorare la situazione, è come togliere sangue a un anemico”. Tra qualche anno tutti gli daranno ragione. Ma oggi sembra quasi che l’unica apparente “razionalità” sia quella del governo dei tecnici.
L’intervista di Carniti aveva questo titolo: “Così il premier svaluta il lavoro”. Ed è proprio questa la questione: la svalutazione, privatizzazione, mercificazione del lavoro. Quella del lavoro, si sa, è una storia di riscatto ed insieme di ricatto. Però il ricatto non ha mai avuto l’impudente visibilità e la durezza che ha acquistato da Pomigliano in qua. Ecco perché penso sia importantissimo firmare per i referendum che intendono sopprimere la riforma Fornero dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e l’articolo 8 di uno dei decreti emanati negli ultimi giorni del Governo Berlusconi. Sull’articolo 18 capisco Bersani quando dice “abbiamo limitato il danno”. Ma il danno c’è, e non è soltanto simbolico, è un danno materiale, morale, politico. Basta leggere il racconto di Yuri, Mirko, Martino, Daniele e Paolo, operai piemontesi vittime della riforma Fornero, i primi quattro iscritti alla Fiom, intitolato “Così ci licenziano col nuovo articolo 18” (Il Manifesto del 14 settembre). Ma l’articolo 8 è ancora più grave e devastante, perché prevede che la “contrattazione di prossimità” (aziendale e/ o territoriale) abbia la licenza di derogare non solo ai contratti nazionali, ma anche a gran parte della legislazione applicabile al rapporto di lavoro. In questo modo il diritto del lavoro, ha affermato Stefano Rodotà, “viene riscritto, privatizzato”. Si torna alla premodernità, perché si tende a superare il contratto nazionale: “è la riproposizione della legge più antica della storia umana, quella che precede la civiltà del diritto: il più forte vince”. La questione si è riproposta questa settimana, con l’accordo sulla produttività non firmato dalla Cgil: anch’esso va nella direzione della scomparsa del contratto nazionale. Dispiace, anche in questo caso, vedere il Pd incerto e Bersani non sostenere la Camusso in una battaglia che è sia simbolica per difendere la civiltà del lavoro, sia economica, perché il rischio è la riduzione (ulteriore!) del salario dei lavoratori. Per non parlare di Renzi, che sente forte il sentimento di insofferenza per il sindacato, come dimostra il suo entusiasmo iniziale per Marchionne. A proposito di questo presunto uomo della Provvidenza: gli sviluppi della vicenda Fiat ci dicono una volta di più che l’equazione “meno diritti uguale più lavoro” è del tutto falsa. Spero sia diventato chiaro a tutti coloro (ma quanti erano!) che ai tempi di Pomigliano stavano “con Marchionne senza se e senza ma” e sostenevano che “Pomigliano è un caso irripetibile”.
E’ chiara, dunque, la questione politica che abbiamo davanti: nell’ultimo ventennio c’è stato un arretramento grave nelle condizioni materiali del lavoro, nel livello delle retribuzioni, nel ruolo stesso che il lavoro gioca nella società. Luciano Gallino, nel suo “La lotta di classe dopo la lotta di classe”, calcola che in questo ventennio lo spostamento di ricchezza dal monte salari al monte profitti sfiori i 250 miliardi di euro all’anno: l’equivalente di numerose manovre finanziarie lacrime e sangue. Questa diseguaglianza sociale esplosiva è la misura della perdita di potere del lavoro, della sua espulsione dalla sfera pubblica e della sua conseguente privatizzazione: è il lavoro “regolato da rapporti di comando-obbedienza individuali e irrimediabilmente asimmetrici” di cui scrive Marco Revelli. Un pezzo di società viene progressivamente escluso dal sistema europeo di garanzie in cui siamo cresciuti per decenni. La perdita del lavoro, il lavoro che non c’è, la riduzione dei diritti di chi lavora (diritti “nani”, cioè condizionati e subordinati alla crisi) hanno a che fare con qualcosa di più della sicurezza economica: limitano la libertà, la partecipazione, la democrazia. Si rompe così il nucleo di valori della nostra bellissima Costituzione. Senza il lavoro si spezza l’identità della persona. In tanti lavoratori e giovani prevale la sfiducia negli altri. E avanzano ribellismo, populismo, ritirata nella vita privata: se non si ha la sicurezza economica la democrazia può essere sentita come un guscio vuoto. Ecco perché serve un progetto che scalzi dal trono le tecnocrazie e le oligarchie finanziarie: la crisi della politica si supera se si supera la crisi della sinistra, cioè la sua subalternità al neoliberismo, così come afferma, sia pure genericamente, la carta d’intenti che è alla base delle primarie del centrosinistra. La questione di fondo è riconnettere la sinistra alle sue radici sociali, altrimenti la sinistra sarà solo ceto politico facilmente spiantabile. La strada ce la indica Giorgio Airaudo, responsabile del settore auto della Fiom, che così conclude il suo libro “La solitudine dei lavoratori”: “Dobbiamo riportare nella politica la rappresentanza, e con questa la cittadinanza del lavoro, per uscire da quella solitudine che, per troppo tempo, in questo Paese, ha trasformato in fantasmi le donne e gli uomini che lavorano”. Ecco il cuore del problema: chi rappresenta il lavoro? Oggi non c’è rappresentanza. Il problema segnala la crisi della sinistra ma anche lo spazio enorme che essa ha, se ne è consapevole. Ricordiamoci che Obama ha vinto grazie agli operai dell’Ohio. Ci avevano detto che questo Stato era perso, perché la working class era smarrita e delusa. Ma l’impegno del Presidente afroamericano e quello della leggenda vivente del rock, Bruce Springsteen, che ha regalato all’America e a tutti noi i suoi straordinari inni “laburisti” e negli ultimi giorni è sempre stato al fianco di Obama, hanno impedito che l’Ohio cadesse. Cominciamo anche noi, allora, dalle prossime elezioni politiche. Non abbiamo né Obama né “The Boss”, ma possiamo ancora fare ciò che in America è ormai impossibile: eleggere i rappresentanti di una comunità di lavoratori che si propongono di riportare in Parlamento il tema del lavoro e dei diritti. Partendo dai punti di resistenza che abbiamo ammirato in questi anni: i lavoratori che a Pomigliano e a Mirafiori hanno avuto il coraggio di dire “no” e che, con il loro senso di dignità, hanno visto lontano.
Intanto ci sono le primarie. Anch’io, come tanti, oggi mi metterò in fila per scegliere il candidato premier del centrosinistra. Lo farò con lo spirito che ha animato queste righe. Pensando che la politica va rifondata nelle fondamenta, e quindi riconnessa al lavoro. Che riconsegnare dignità al lavoro significa riconsegnarla anche alla politica. E che bisogna costruire un grande partito popolare, del lavoro e dei giovani. E’ con questa ispirazione, “laburista” e unitaria, che voterò per Vendola.
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