Il giovane “William” e il tragico duello tra “Facio” e “Salvatore” – seconda parte
Città della Spezia, 1° marzo 2015
PARMA O SPEZIA?
La situazione delle bande partigiane in Lunigiana e in Val di Vara nel giugno-luglio 1944 vede una forte presenza della Colonna “Giustizia e Libertà”, poi la Brigata “Cento Croci”, autonoma anche se con partigiani comunisti, e il “Battaglione Internazionale” di Gordon Lett. Il distaccamento garibaldino “Vanni”, poi diventato “Segnanini”, comandato da Primo Battistini “Tullio”, non può sostenere il confronto. Ecco perché, spiega Luca Madrignani nel suo libro “Il caso Facio”, appena presentato a Spezia, “la dirigenza comunista spezzina deve trovare forze tali da riequilibrare il peso delle varie componenti politiche all’interno del comando unico che va costituendosi”. Occorre rafforzare la presenza garibaldina: è questo il ruolo che, con grande abilità, si ricava Antonio Cabrelli “Salvatore”, “proponendosi come uomo di sicura esperienza in grado di eseguire il compito”. “Salvatore”, da commissario politico di un distaccamento del “Battaglione Picelli”, che è alle dipendenze della XII Brigata Garibaldi parmense, inizia a lavorare per sottrarlo all’influenza di “Facio” e del comando del battaglione, trasformando il proprio distaccamento “Gramsci” nella costituenda IV Brigata Garibaldi “La Spezia” sotto il comando spezzino. E per questo non esiterà a sbarazzarsi di “Facio”, in un modo o nell’altro.
In questa partita “Facio” commette un errore. Si reca diverse volte fuori dal territorio, con un gruppo ristretto o con l’intera formazione. Addirittura fa un lungo viaggio a Campegine di Reggio Emilia e resta lontano dal luogo di comando per lunghi giorni, tra la fine di giugno e l’inizio di luglio. Secondo Giulivo Ricci (“Storia della Brigata Matteotti-Picelli”) Facio si reca a rifornirsi di alimentari dalla famiglia Cervi. In realtà, mi spiega Cesare Cattani, non fu così: “Possibile chiedere farina e riso a delle vedove alle quali hanno ammazzato i mariti e bruciato la casa? Con 9, 10 figli da mantenere? No, andò per ammazzare il geometra Pietro Cocconi, il marito della proprietaria della casa dove pochi giorni prima dell’arresto dei Cervi si erano ricoverati i soldati russi, inglesi, sudafricani nascosti da i Cervi e da ‘Facio’ stesso, e che aveva minacciato di denunciare il tutto ai fascisti repubblichini… Un comandante non abbandona il proprio reparto per una vendetta, portandosi dietro tre suoi uomini e attraversando 120 più 120 km di territorio pieno di tedeschi, repubblichini, Decima Mas. La macchina fu intercettata e vi fu uno scontro a fuoco: se li ammazzavano? Poi che ‘Facio’ fosse un fulmine di guerra è un altro discorso. Ma fu un errore mastodontico”. Anche perché Cabrelli, invece, resta fermo ad Adelano di Zeri, libero di costruire il suo progetto, convincendo i partigiani, in gran parte spezzini, che è più logico sottostare alle dipendenze di Spezia. E’ emblematico l’incontro dei primi giorni di luglio al Passo dei Casoni tra gli uomini del “Picelli” che rientrano nello zerasco, e Paolino Ranieri “Andrea”. Paolino, commissario di una formazione spezzina che agiva nel parmense, ha ricevuto l’ordine di tornare sul versante ligure; reca con sé un altro ordine, proveniente da Parma, per “Facio”, che a sua volta deve rientrare presso la XII Brigata Garibaldi parmense, realizzando un vero e proprio scambio di formazioni garibaldine tra i due territori. Le condizioni di “Facio” e “Andrea” sono speculari, ma con una differenza: il secondo rientra senza il suo distaccamento, mentre “Facio” non accetta di rientrare se non con i suoi uomini e le sue armi. Ma nel frattempo “Salvatore” ha lusingato molti partigiani, alcuni dei quali tradiscono “Facio”. A metà luglio, comunque, “Facio” ha con sé una parte del battaglione, il suo nucleo storico: perché, allora, non rientra a Parma? Una risposta credibile la dà a Madrignani Nello Quartieri “Italiano”, che in quel momento è il comandante di “Salvatore” nel distaccamento “Gramsci”, ma viene preso prigioniero dai tedeschi ed è distante dai fatti, fino a quando rientra e, posto di fronte alla scelta tra Parma o Spezia, fa votare i suoi uomini, che sono spezzini e scelgono quasi tutti Spezia: “Facio”, spiega “Italiano”, ha pochi uomini, vuole rientrare non come un “semisconosciuto”, ma vuole farlo con una formazione di tutto rispetto, non a ranghi ridotti. “Facio” si sente ancora forte per ottenere questo obbiettivo. Ma “Salvatore” non ha scrupoli: gli spara un colpo di nascosto, tendendogli un’imboscata, fuggendo quando il bersaglio è mancato.
IL PROCESSO E LA MORTE DI “FACIO”
La mattina del 21 luglio il comandante Primo Battistini “Tullio” va al comando del “Picelli” intimando a “Facio” di seguirlo ad Adelano, dove lo attendono i vertici della costituenda divisione per un chiarimento sulla sparizione di materiali lanciati dagli alleati. “Tullio” vuole disarmare “Facio”, ma deve recedere perché è in condizioni di inferiorità. Il pomeriggio dello stesso giorno è Giovanni Albertini “Luciano” a fare un nuovo tentativo. Gli dà la parola d’onore che non gli sarebbe stato torto un capello. E’ incredibile che, dopo tutto quello che era accaduto, “Facio” decida di seguire Albertini: però lo fa, accompagnato da soli due uomini. L’inganno orchestrato ai suoi danni viene svelato solo dopo che “Facio”, insieme a “Luciano”, entra nella stanza della casa Lorenzelli, sede del neonato comando di divisione. Ci sono “Salvatore”, “Tullio”, Renato Jacopini “Marcello”, Luciano Scotti “Vittorio” e suo padre Nello Scotti. “Facio” viene subito immobilizzato e aggredito da “Salvatore”, che lo colpisce con pugni in faccia e un calcio nel ventre. Nel frattempo viene condotta a casa Lorenzelli la compagna di “Facio”, Laura Seghettini. L’unico capo di imputazione è il presunto lancio rubato. “Facio” si dimostra accondiscendente, accetta il nuovo comando per cercare di rientrare a Parma con chi gli è rimasto fedele. Ma a nulla vale quest’ultima offerta: ormai “Salvatore” e i suoi vogliono l’intera posta, non sono disposti ad accettare la perdita anche di una sola piccola parte del “Picelli”. L a sentenza emessa dal tribunale di guerra condanna a morte Dante Castellucci. Non c’è neppure un difensore. Tra i membri accusatori non tutti sono convinti della decisione: “Luciano” e “Marcello” rimangono fortemente scossi e non nascondono la commozione del momento; Scotti padre e figlio si ritirano dal giudizio; “Tullio” e “Salvatore” sono i più determinati a procedere. Ciò significa che la sentenza non è una decisione presa collettivamente a priori. Se “Facio” non avesse incontrato, nella sua vita, “Salvatore”, una composizione di questa vicenda sarebbe stata quasi sicuramente trovata. Dante passa la sua ultima notte da prigioniero assieme a Laura, scrive alcune lettere di addio, rifiuta la via di fuga offertagli dagli uomini di “Tullio”: “Non sono fuggito ai tedeschi, non scappo ai compagni”. Lo prelevano all’alba, esce dalla stanza salutando Laura con gli occhi e dicendole “grazie”. Dinanzi agli uomini del plotone di esecuzione che non vogliono e non riescono a sparare, racconta Laura, li esorta a compiere il loro dovere. Leggiamo la testimonianza di Luigi Sau, uno dei suoi partigiani più fedeli: “Esemplare era stato il comportamento del condannato a morte davanti al plotone di esecuzione. Ai compagni aveva distribuito le sue sigarette e aveva egli stesso comandato il ‘Fuoco’ con la raccomandazione a colpire giusto il bersaglio. Aveva salutato affettuosamente tutti; e mentre una raffica di pallottole lo colpiva sulla fronte, egli dischiudeva le labbra a un aperto sorriso, leggermente coperto di malinconia. Era il mattino del 22 luglio 1944. Ore 5”. Perché “Facio” si sia, di fatto, lasciato morire resta un mistero insoluto.
IL PARTITO COMUNISTA
La Federazione spezzina del Pci prese le distanze dall’eliminazione di “Facio”. Lo fa “Andrea”, inviato ad Adelano, con un rapporto. La Federazione, in una lettera, esprime un sentimento di disagio politico e morale: “Avete agito verso di lui con la stessa indifferenza che si usa contro una spia o un fascista”. In un rapporto successivo, scrive che “il comando di divisione è costituito da un branco di piccolo borghesi, compresi i nostri compagni che non godono troppo la nostra stima… tengono la mensa separata e un contegno tale che la democrazia nelle formazioni è una chimera”. C’è la consapevolezza delle lacune e delle deficienze del movimento nel suo complesso e della presenza comunista in particolare. Il 9 settembre ’44 Cabrelli scrive alla federazione spezzina lamentando il proprio isolamento politico, dovuto a un ambiente che gli è ostile. Intanto cominciano ad arrivare al Pci spezzino le informazioni sul suo passato. Si arriva così, nel novembre-dicembre, alla decisione di sostituire “Salvatore” con Tommaso Lupi. Cabrelli, da gennaio ’45 in poi, si dà all’organizzazione di una piccola formazione nella sua terra di origine, il battaglione “Pontremolese”: ma l’esperienza è brevissima, anche da qui viene allontanato perché “non si dimostra un degno compagno”.
La prima grande domanda, a questo punto, è questa: come poté un personaggio del genere ricoprire un ruolo così importante, sia pure per un breve periodo, nella Resistenza garibaldina? Certamente incise il fatto che vi furono problemi di comunicazione con il centro del partito e anche con Parma, per cui i comunisti spezzini vennero a conoscenza troppo tardi dei sospetti su Cabrelli. Ma emerge un problema più generale: “Il Pci spezzino si diede un compito enorme, ma senza avere la classe dirigente all’altezza”, mi spiega l’amico Maurizio Fiorillo, storico. Era già la tesi di Ricci: “Va approfondito il discorso attorno alla carenza di uomini e di strumenti e al duro travaglio attraverso il quale il movimento clandestino antifascista, prima, e poi lo schieramento unitario nella lotta armata di Liberazione sono, nonostante tutto, pervenuti al conseguimento dei loro obiettivi di libertà e di indipendenza nazionale”. Ricci ricorda che nel dopoguerra a “Salvatore” fu rifiutata la tessera del partito, che “Tullio” fu escluso, che Scotti e Jacopini assunsero posizioni di indipendenza, mentre Albertini emigrò all’estero. E rileva la differenza con i quadri comunisti sarzanesi che guidavano la garibaldina “Muccini”, “uomini pienamente formati”, come dimostrò la loro influenza politica nei decenni successivi. Il discorso storico che va affrontato è dunque quello sul “materiale umano” della Resistenza nella IV Zona Operativa, in particolare sul “duro travaglio” delle forze garibaldine nell’estate del ’44.
La seconda grande domanda è se “Facio”, nel dopoguerra, fu vittima di una strategia di occultamento orchestrata dal Pci, passata attraverso l’assegnazione della falsa medaglia del 1963, secondo cui “Facio” cadde per mano dei nazifascisti. Madrignani lo nega: perché il Pci, spiega, allontanò Cabrelli e non lo riammise mai nel partito; e perché la vicenda dell’eliminazione di “Facio” fu sempre pubblica, non fu insabbiata: su di essa ci sono sempre state due “storie”, una dalla parte di “Facio”, una da quella di “Salvatore”. “La sola e vera colpa del Pci spezzino -conclude Madrignani- ,una volta allontanato definitivamente ‘Salvatore’, fu di aver preso per buona la sua versione dei fatti e non aver avviato una ricostruzione pubblica e veritiera di tutta la vicenda”. Condivido, e aggiungo che fu una colpa grave. E penso che l’assegnazione della falsa medaglia, da chiunque sia stata proposta, abbia a che vedere con il fatto che sia mancata quella “ricostruzione”. Aggiungo che la questione dei documenti originali mancanti e il fatto che gli Istituti Storici della Resistenza non li abbiano cercati non può non far riflettere. Gli originali sono in possesso, da qualche anno, della figlia di Renato Jacopini, Oretta, che ha il merito di averli conservati fino a oggi, integri e disponibili (Madrignani li ha utilizzati). Pare che Jacopini li tenesse con sé dopo aver evitato la loro distruzione in una sezione del Pci. Che gli originali fossero in una sezione e che siano finiti in un’abitazione privata non può non far pensare alla volontà, dominante per molti anni, che sulla vicenda non si facesse chiarezza. Ora bisogna andare fino in fondo: revocare la falsa medaglia del ’63, assegnare la Medaglia d’Oro ai combattenti del Lago Santo.
“WILLIAM” E LO SMINAMENTO DI SPEZIA
Dopo la morte di “Facio” Antonio Pocaterra, Vittorio Marini, Terenzio Mori, Luigi Sau e un’altra decina di uomini lasciano il “Picelli”, nel quale avevano combattuto fin dall’inizio, se ne vanno e tornano nel parmense per ricominciare la lotta nel distaccamento “Ognibene”. Laura li raggiungerà di lì a breve, diventando vicecomandante della XII Brigata Garibaldi. Diversa fu la scelta di Umberto Bellavigna “William”. Riprendiamo il suo racconto inedito: “Dopo la fucilazione di ‘Facio’ subimmo un rastrellamento di enormi proporzioni da truppe militari nemiche addestrate alla guerriglia, tedeschi, Monterosa e San Marco. Nello zerasco resistemmo quanto più possibile e poi ci sganciammo verso i monti, sopra Adelano. Anche questa volta le truppe nazifasciste, non catturandoci, sfogarono la loro rabbia sui contadini che tanto facevano per noi, portando via i viveri, le bestie e anche le persone di mezza età, per poi dar fuoco alle loro abitazioni. Decidemmo di lasciare lo zerasco e di costituire una nuova formazione. Eravamo una decina, con in testa i fratelli Fantoni, Gianni detto “Tonio”, il comandante, e Elio detto “Capriolo”, sotto il comando della Brigata Beretta. Dopo qualche giorno di cammino ci fermammo sopra Succisa, la notte dormivamo per terra nei pochi fienili rimasti; in seguito passammo la Cisa e ci trasferimmo sopra il paese di Molinello, in una vecchia scuola. In quei giorni Gianni Fantoni reclutò una ventina di partigiani sbandati dal grande rastrellamento del 3 agosto. Mi propose di fare il caposquadra, ma rifiutai in ragione della giovane età e dell’inesperienza. Una sera il comandante ci riunì per comunicare che la nuova formazione era ‘priva di risorse’ e chiese la disponibilità di due volontari per andare a fare un ‘prelievo in banca’. Ci offrimmo io e ‘Black’. ‘Voi andate bene perché sembrate due bimbi’, ci disse. Fu così che ci trovammo a Pontremoli davanti alla banca con un nostro informatore. Entrammo e disarmammo la guardia rassicurando i presenti che eravamo partigiani e che volevamo solo prelevare dei soldi. Purtroppo uno della banca si mise a urlare dicendo che eravamo dei ribelli. ‘Black’ lo affrontò con fermezza dicendogli che eravamo patrioti, non ribelli. In quel momento, per fortuna, sorvolò la zona il famoso Pippo, l’aereo inglese disturbatore; suonò l’allarme e tutti i presenti scapparono nei rifugi, anche noi scappammo con metà prelievo. Dopo due giorni, sempre con il nostro informatore, andammo a Scorcetoli per tentare nuovamente un prelievo, non ricordo se in una banca o in un ufficio postale: questa volta andò tutto a buon fine. La nostra formazione controllava la rotabile della Cisa, dove transitavano colonne di camion carichi di armi e viveri, diretti verso il fronte: noi attaccavamo sempre l’ultimo camion. Dopo qualche giorno, era il dicembre del ’44, io e il mio compagno ‘Alpino’ fummo incaricati di attraversare la Cisa per andare a prelevare dei viveri, ma fummo fatti prigionieri dai tedeschi, che ci aspettavano nascosti nel cimitero. Ci portarono a Berceto, durante la notte il mio compagno riuscì a scappare. Io fui trasferito alla caserma del XXI Reggimento a Spezia, dove feci la conoscenza del torturatore Aurelio Gallo, che mi picchiò ben bene per qualche settimana. Mi trasferirono come ‘partigiano’ nel carcere di Villa Andreino. Non volli collaborare e fui ripetutamente picchiato a sangue per diverso tempo”. Da lì “William” fu trasferito a Genova, poi a Novara, “dove ci addestrarono per mandarci al fronte. Fortunatamente, durante un’incursione aerea, in tre riuscimmo a scappare. Fu così che tornai a casa, pelle e ossa e bronchite ma vivo”. Poi “William” visse un intermezzo triste: venne a trovarlo il padre del cognato, repubblichino, per dirgli che lo stavano cercando e che, se voleva salvarsi, doveva approfittare dell’amnistia e arruolarsi nei repubblichini. “L’unica mia idea era tornare ai monti, ma non stavo ancora bene. Alla fine -continua “William”- ascoltai i consigli di mia madre e mi arruolai nella GNR. Era una grande sofferenza abbandonare momentaneamente i miei principi di libertà e indossare quella divisa. Fortunatamente in caserma rividi il mio vecchio compagno ‘Black’, che nel frattempo era tornato a casa per motivi di salute, e insieme tornammo a meditare di tornare ai monti. Nel frattempo avevamo ricominciato a operare da patrioti, grazie al cognato di ‘Black’, che era un sappista che ci portava dei volantini antifascisti da distribuire. Finalmente un giorno ci offrì la possibilità di incontrare una donna sua conoscente, che a breve avrebbe avuto un incontro con un responsabile partigiano per favorire il passaggio tra le fila dei partigiani del suo compagno sottufficiale tedesco che comandava il gruppo minatori. Il contatto avvenne in un portone di via Prione. Andò tutto bene e dopo qualche giorno ci incamminammo tutti insieme verso Calice. Ero di nuovo felice di tornare a respirare aria di libertà”. “William” accompagnò la donna da Daniele Bucchioni Dany”, che ricorda l’episodio, importantissimo, nel libro “Resistenza nello spezzino e nella Lunigiana. Scritti e testimonianze”. I tedeschi avevano minato, con potenti cariche di esplosivo, tutte le strade adducenti a Spezia, il porto e i vari stabilimenti militari e civili, nonché Lerici e Portovenere: sarebbe stata una distruzione immane. Racconta Dany: “Il comando venne a conoscenza che il sottufficiale comandante del plotone che si occupava delle mine aveva una relazione con una donna spezzina; si cercò quindi di entrare in contatto con l’amica del tedesco. Si chiamava Edelmira Sanfedele, abitava in via del Prione”. Giunto a Calice, con la donna, “William” e “Black”, il sottufficiale mostrò la pianta del golfo di Spezia, Lerici e Portovenere: “Un quadro impressionante -continua “Dany”- erano circa tremila ordigni, molti di grande potenza, innescati con detonatori elettrici e comandati a distanza. Fu concordato che il sottufficiale sarebbe tornato in città ed avrebbe tolto gli inneschi alle mine”. Cosa che fece. Il resto fu sminato dopo la Liberazione, grazie a quella preziosa mappa.
Era tra marzo e aprile. “William” e “Black” rientrarono nella loro prima formazione, il “Picelli”, che ora si chiamava “Matteotti-Picelli”. Nello Quartieri, dopo la morte di “Facio” aveva infatti trasferito il poco che restava del glorioso Battaglione verso Spezia, in Val di Vara, cambiandone il colore da comunista a socialista. La Brigata “Matteotti” fu costituita nell’agosto ’44, al comando di Franco Coni “Franco”: nata ultima tra le formazioni spezzine, aveva cominciato a distinguersi e ad imporsi. Visse vita autonoma fino al dicembre ’44, quando si fuse con il “Picelli” (ma senza “Franco”, che era passato alla “Compagnia Arditi”). La sera del 22 aprile i tre Battaglioni della Brigata “Gramsci”, tra cui il “Matteotti-Picelli”, ricevettero l’ordine di raggiungere Riccò del Golfo e di occupare la Foce, poi di combattere a San Benedetto e di tornare alla Foce. “La mattina del 25 aprile -conclude “William”- fummo accolti a Spezia con grandi feste e immensa gioia da parte della popolazione impazzita di felicità per la fine di un incubo. Insieme a noi era finalmente scesa anche la Libertà”.
La prima parte di questo articolo è stata pubblicata in questa rubrica domenica scorsa, 22 febbraio 2015.
Su “Facio” e il “Picelli” si vedano:
“E’ tempo di riabilitare il partigiano Facio”, Il Secolo XIX, 1° giugno 2011, in www.associazioneculturalemediterraneo.com
“Facio, settant’anni dopo”, Città della Spezia, 22 luglio 2014
In questa rubrica:
“Il comandante Italiano e il segreto della felicità”, 22 aprile 2012
“La leggenda del Lago Santo”, 23 marzo 2014
“Laura, l’amore perduto e la speranza nella giustizia”, 3 agosto 2014
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