Il giovane “William” e il tragico duello tra “Facio” e “Salvatore” – prima parte
Città della Spezia, 22 febbraio 2015
DA PEGAZZANO AI MONTI
Nei giorni scorsi è stato presentato a Spezia il libro di Luca Madrignani “Il caso Facio”, una ricerca molto accurata su uno degli episodi più oscuri della storia del movimento partigiano: l’assassinio di “Facio”, comandante della leggendaria banda “Picelli” operante tra l’Appennino parmense e la Lunigiana, su ordine di “Salvatore”, suo sottoposto e rivale. Sono andato alla presentazione con il mio amico e compagno Umberto Bellavigna, partigiano del “Picelli”, che conobbe entrambi i protagonisti di quel tragico duello. Umberto aveva sedici anni quando salì ai monti: “Sono nato a Biassa ma abitavo a Pegazzano -racconta- in città la vita era diventata insostenibile, subivamo troppe prepotenze dai fascisti, decisi di raggiungere i partigiani insieme a due amici più grandi, Michele Russo e Egidio Danese”. Fu la sorella di Egidio Scarpato, già ai monti, a indirizzarlo. Il primo contatto avvenne alla fine del maggio del 1944, a Fontana Gilente, sopra Pontremoli. “Ci accolsero con calore e ci presentarono il comandante del distaccamento ‘Gramsci’ Nello Quartieri ‘Italiano’ e il commissario politico Antonio Cabrelli ‘Salvatore’… era un distaccamento del ‘Battaglione Picelli’ comandato da ‘Facio’… c’erano anche Giulio Bastelli e Silvio Mari… Erano accampati in una capanna, me la ricordo come un provvidenziale albergo pronto a soddisfare il nostro grande appetito con patate lesse e pattona”. Umberto prese come nome di battaglia “William”, Michele Russo “Black”, Egidio Danese “John”. “Ero il più giovane della formazione -continua “William”- ma mi sentivo rassicurato dal trovarmi in compagnia di persone di culture e idee diverse, unite per la Resistenza e la libertà”. Dopo qualche giorno i tre furono armati. Il primo combattimento lo affrontarono a Fontana Gilente, con sganciamento ai Due Santi: “Era la mia prima azione da partigiano, tenemmo testa a un gruppo di fascisti più numeroso, Silvio Mari con la sua sola presenza mi dava coraggio e sicurezza.
I nazifascisti contrattaccarono diverse volte, ma riuscimmo sempre a respingerli. In serata si ritirarono, distruggendo e razziando quel poco che i contadini avevano messo da parte con tanti sacrifici. Dopo il rastrellamento ci trasferimmo nella zona di Zeri. Nelle belle giornate andavamo nei canaloni a lavarci e a pulire il poco vestiario che indossavamo. La sera, quando possibile, ci si riuniva tutti intorno al fuoco e iniziavamo a cantare canzoni partigiane, mentre a turno uno di noi faceva la guardia. A cucinare per tutti noi ci pensava ‘Pippo’, era bravissimo come cuoco: una volta spezzatino di pecora, una volta pattona, e a volte si saltava proprio. In quelle serate i nostri comandanti ci mettevano a conoscenza dei fatti e ci parlavano dei nostri doveri e impegni per il dopoguerra. Tra questi ricordo ‘Italiano’ e ‘Facio’, che ci addestrò alle nozioni fondamentali della guerriglia, a dare l’esempio, a portare rispetto agli uomini, ad avere cura delle cose della montagna. ‘Italiano’ e ‘Facio’ dividevano tutto con noi, eravamo tutti eguali”. “Facio” fu ucciso da un gruppo di suoi compagni guidati da “Salvatore” all’alba del 22 luglio 1944. “Il giorno dopo vennero ‘Salvatore’, ‘Vittorio’ (Luciano Scotti) e altri a spiegarci, a raccontarci del processo, delle colpe di ‘Facio’… lo incolparono di cose non vere… erano uomini invidiosi e rancorosi… io e altri partigiani la verità la sapevamo già allora… in un primo momento pensammo di farci giustizia da soli vendicando ‘Facio’, poi per evitare di scatenare rappresaglie interne decidemmo in segno di protesta di andarcene”. Il giudizio di “William” su “Salvatore” è netto: “Era un mascalzone, che incitava negli uomini gli istinti peggiori perché cercava di corrompere tutti per averli dalla sua parte, con promesse di avanzamenti, di fare carriera nel Battaglione… parlava bene, ma era un disonesto… a differenza di ‘Italiano’ e di ‘Facio’ non condivideva nulla con noi, eravamo solo truppa… un giorno lui era a cavallo, noi dietro a soffrire ore e ore a piedi, mettemmo un riccio sulla coda del cavallo, che cadde… ‘Salvatore’ si ferì, se avesse saputo del riccio ci avrebbe ammazzati!”.IL TRADITORE
Il libro di Madrignani racconta in modo magistrale lo scontro tra le due personalità di “Facio” e di “Salvatore”, inquadrandolo nel momento storico particolare: la riorganizzazione delle bande partigiane. Su “Facio” altri hanno già scritto nel corso degli anni, soprattutto Giulivo Ricci nella “Storia della Brigata Matteotti-Picelli”, Laura Seghettini, la compagna di “Facio”, in “Al vento del Nord” e Carlo Spartaco Capogreco in “Il piombo e l’argento. La vera storia del partigiano Facio”. Il merito del libro di Madrignani è soprattutto quello di far luce sulla vita di “Salvatore”. Vediamone le tappe principali. Cabrelli, muratore nato nel pontremolese, emigrato in Francia, militante comunista, nel 1939 è a Tunisi, responsabile dell’organizzazione italiana per il Partito comunista tunisino. Ma Velio Spano e Giorgio Amendola, dirigenti del Partito comunista italiano, ravvisano in lui “uno scarso equilibrio politico, una gran presunzione, la mancanza assoluta di ogni spirito autocritico e una certa tendenza all’intrigo”. Cabrelli è sospettato dalle autorità francesi di spionaggio e collaborazionismo con l’Ovra, la polizia politica fascista, ed espulso dalla Tunisia. Il Pci apre un’inchiesta, ma non riesce a risolvere la questione dell’effettivo collaborazionismo di Cabrelli. La conclusione, secondo Spano, è che si tratta “in tutti i modi di un mascalzone” (le stesse parole usate da “William”!). Cabrelli viene allontanato dall’organizzazione, nella quale non sarà più riammesso, nonostante che i francesi, messi da parte i sospetti, lo spediscano nel campo d’internamento di Le Vernet d’Ariege in quanto comunista. L’espulsione dal partito avviene non per i sospetti tunisini ma su basi politiche, avendo Cabrelli manifestato, nel campo, posizioni dissidenti trotzkiste. Eppure il curriculum antifascista di Cabrelli ha un nuovo titolo di merito quando, scoppiata la guerra e rientrato in Italia, viene fermato al confine e incarcerato a Massa. Qui, però, firma un verbale in cui dichiara la propria fede verso il regime fascista e soprattutto descrive lo stato organizzativo dei movimenti comunista e antifascisti italiani in Francia. Ma i fascisti non gli credono, e lo spediscono al confino alle Tremiti, dove vive isolato dal resto dei suoi compagni di partito. Cabrelli riesce a tornare a casa dopo il 25 luglio 1943, prende i primi contatti con la Resistenza e chiede al Pci di essere riammesso. Luigi Longo, dirigente del partito, lascia aperta la possibilità di “considerare come un simpatizzante” Cabrelli e di impiegarlo in qualche ruolo: il movimento partigiano ha un disperato bisogno di quadri esperti… Appena salito ai monti nel parmense, Cabrelli viene arrestato nel gennaio 1944 a Borgo Val di Taro e recluso per quattro mesi, fino a maggio. I compagni di Parma sospettano di lui per la libertà ottenuta, Cabrelli allora cambia zona, va in Lunigiana e entra a far parte del “Battaglione Picelli” comandato da “Facio”, che nel “Picelli” era entrato a gennaio, dopo l’esperienza con i fratelli Cervi a Reggio Emilia. A marzo c’erano state l’eroica battaglia del Lago Santo e la morte del primo comandante del “Picelli, Fermo Ognibene “Alberto”, a Succisa. “Facio” e “Salvatore” si incontrano, e comincia il tragico duello.
Ma già a questo punto, ancor prima di raccontarlo, si impone la domanda: Cabrelli fu o no una spia? La questione non fu mai chiarita, neppure nel dopoguerra. Madrignani propende per una risposta negativa: fu un carrierista ambizioso e rancoroso, ma non un doppiogiochista. Laura Seghettini, in “Al vento del Nord”, propende invece per la tesi opposta, citando in particolare un episodio: Cabrelli era in confidenza con un brigatista nero, tale De Maria, che venne a Fontana Gilente, chiacchierò un poco con Cabrelli, che poi lo mandò “a fare legna nel bosco”. In gergo voleva dire che lo aveva fatto uccidere. Forse, scrive Laura, “anche la morte di De Maria può, in un certo qual modo, entrare nel piano di sbarazzarsi di tutti coloro che sapevano di lui, sospettato di connivenza con l’Ovra”. La testimonianza di Gianfranco Corradino allo studioso Cesare Cattani conferma questa tesi. Eccone il testo inedito, per il quale ringrazio l’amico Cesare: “C’era Fermo Ognibene che comandava, Facio era il vice. Però dei due chi aveva più personalità era Facio. Rimanemmo su fino a un rastrellamento, ci siamo sganciati e siamo andati a finire nel paese di Bratto, che era il paese di origine di uno di noi. Poi di lì scendemmo a Pontremoli, un po’ disorientati. A Pontremoli fummo arrestati, in modo drammatico. Buttarono giù il portone di casa nostra con una bomba a mano. E a Fontana Gilente c’era un partigiano che si chiamava De Maria, che era in realtà un infiltrato, si muoveva da Succisa a tutte le parti. Mi ricordo questo processo, dissero che era un processo militare. Erano tre ufficiali, quelli qui della brigata nera, c’era un cancelliere e io dicevo ‘Non so niente’. ‘Tu sei dei banditi’, ‘Io non so niente assolutamente’, fintanto che entrò da una porta laterale, me lo ricordo ancora adesso, questo De Maria, fumando. E disse: ‘Mi riconosci?’. Io non dissi niente. Cosa dovevo fare? Rimasi molto disorientato per capire quel mondo dei tradimenti. Un mondo quasi naturale. E ci condannarono a morte e fummo portati a Massa”. C’è, infine, che sottolinea che dopo il ’45 Cabrelli fu concubino con una donna di Borgo Val di Taro, anch’essa sospetta spia fascista.
L’EROE
Madrignani ripercorre tutta la vicenda di “Facio” partigiano, da Reggio Emilia al “Picelli”, un Battaglione che fu una vera spina nel fianco del nemico: “Non esistono, nel territorio battuto dal ‘Picelli’’ né in quelli adiacenti, altre formazioni che possano vantare un ruolino di quel tipo”. E ciò vale anche per lo spirito di eguaglianza che era legge all’interno del gruppo. Leggiamo, su “Facio”, la testimonianza di Paolo Acerbi, allora sedicenne, in “Dalle terre di Godano”: “La Banda ‘Facio’ aveva la sua base operativa nel versante zerasco del monte Gottero, era scesa a Sesta per fare rifornimenti e, all’occasione, dare una lezione a qualche fascista. Non ce n’erano in realtà molti di fascisti nella nostra zona; ne trovarono solo alcuni perché gli altri si erano velocemente nascosti. Non fuggì Pietrin che venne catturato in casa e portato in Municipio, dove ‘Facio’ aveva installato provvisoriamente il comando. Venne chiesto a mia madre di fare un tentativo di salvare Pietrin. Mia madre non si tirò indietro, si affrettò anzi ad entrare in Municipio e chiese, in modo fermo e risoluto, di parlare col comandante. La sua richiesta non poté essere ignorata. ‘Comandante, lei ha la fama di essere un uomo duro ma onesto. Non si macchi di un crimine! Lasci libero quest’uomo; posso assicurarle che non è una spia’. ‘Facio’ si irrigidì e chiese con tono altezzoso: ‘Ma chi è questa donna che viene a dirmi quel che devo o non devo fare? Perché vuol salvare questo lurido fascista?’. La frase non intimorì mia mamma, anzi ne aumentò la determinazione: ‘Sono una che ha quattro figli dalla vostra parte, ai monti, e anche in questo momento non so cosa possa essere loro capitato. Non posso negare che quest’uomo sia stato un fascista, ma non una spia, come qualcuno lo ha descritto. Lei deve credere a me, deve lasciarlo andare!’. E ‘Facio’ lo lasciò veramente andare, anzi glielo consegnò”. Viene in mente l’episodio raccontato da Otello Sarzi e ripreso da Madrignani: dopo il 25 luglio la folla festeggiante di Fabbrico sta per linciare un giovane fascista, ma è proprio Dante Castellucci a salvargli la pelle rischiando a sua volta il linciaggio, frapponendosi tra lui e gli aggressori e urlando “Non è così che si combatte il fascismo, massacrando un povero scemo”. Due episodi diversi: ma entrambi dimostrano umanità, coraggio e lucidità.
Leggiamo ancora Paolo Acerbi: “’Facio’ era un bravo comandante, duro con se stesso e con i suoi uomini, alcuni dei quali aveva severamente punito per vessazioni sulla popolazione civile; i suoi partigiani ne subivano, comunque, un profondo fascino. Egli aveva insegnato loro l’uso delle armi e degli esplosivi, le tecniche di guerriglia, ma li aveva anche indottrinati, con quotidiane lezioni di marxismo da buon studente di filosofia qual era. ‘Facio’ aveva un buon ascendente anche presso i contadini più poveri ai quali parlava di riscatto e di eguaglianza”. Un sedicenne cattolico, che diventerà democristiano, descrive Dante Castellucci quasi con le stesse parole del sedicenne garibaldino “William”, che diventerà comunista. “Facio” è in Val di Vara nel giugno del ’44. A maggio “Salvatore” era arrivato nel “Picelli”: diventa commissario politico del distaccamento “Gramsci” (lo è già quando “William” sale ai monti) ma, al contempo, si mette alle dipendenze del Pci e del Cln della Spezia, col compito di creare e organizzare un comando unico di divisione ligure. Il “Picelli”, infatti, operava nel territorio sotto l’influenza ligure ma continuava a dipendere da Parma, come all’inizio. “Salvatore” comincia a lavorare per spostare il “Picelli” o parte di esso, dalle dipendenze di Parma a quelle di Spezia. E’ su questo punto che avverrà lo scontro drammatico tra Dante Castellucci e Antonio Cabrelli: lo racconteremo domenica prossima.
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