Presentazione di “Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista” di Dino Grassi, Venerdì 29 novembre ore 16.30 a Pontremoli
24 Novembre 2024 – 21:44

Presentazione di
“Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista” di Dino Grassi
Venerdì 29 novembre ore 16.30
Pontremoli – Centro ricreativo comunale
Il libro di Dino Grassi “Io sono un operaio. Memoria di un maestro …

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Il coraggio contro la paura

a cura di in data 30 Giugno 2019 – 07:57
Sao Tomé e Principe, Nova Moca, vecchio e bambini (2016) (foto Giorgio Pagano)

Sao Tomé e Principe, Nova Moca, vecchio e bambini
(2016) (foto Giorgio Pagano)

Città della Spezia, 23 giugno 2019

Siamo diventati tutti, o comunque buona parte di noi, rancorosi e cattivi?
La parola rancore è una parola usata da molti sociologi. Anche dal Censis, nel Rapporto 2017, uscito nel 2018: il blocco della mobilità sociale, la crisi economica, le diseguaglianze sono, secondo il Censis, alla radice del rancore. L’87,3% degli italiani appartenenti al ceto popolare pensa che sia difficile salire nella scala sociale, così l’83,5% del ceto medio. Il 71,5% del ceto popolare pensa di scivolare in basso, così il 65,4% del ceto medio. La paura del declassamento è il nuovo fantasma sociale. Allora si demarcano le distanze dagli altri: ecco il perché del rancore.

LE RADICI SOCIALI DEL RANCORE E DELLA CATTIVERIA
Nel Rapporto 2018, uscito nel 2019, il Censis parla di “sovranismo psichico”: dopo il rancore la cattiveria. Che ha sempre radici sociali. Leggiamo qualche passo del Rapporto:
“La delusione per lo sfiorire della ripresa e per l’atteso cambiamento miracoloso ha incattivito gli italiani. Ecco perché si sono mostrati pronti ad alzare l’asticella.
È una reazione pre-politica con profonde radici sociali, che alimentano una sorta di sovranismo psichico, prima ancora che politico. Che talvolta assume i profili paranoici della caccia al capro espiatorio, quando la cattiveria -dopo e oltre il rancore- diventa la leva cinica di un presunto riscatto e si dispiega in una conflittualità latente, individualizzata, pulviscolare. Il processo strutturale chiave dell’attuale situazione è l’assenza di prospettive di crescita, individuali e collettive. L’Italia è ormai il Paese dell’Unione europea con la più bassa quota di cittadini che affermano di aver raggiunto una condizione socio-economica migliore di quella dei genitori: il 23%, contro una media Ue del 30%, il 43% in Danimarca, il 41% in Svezia, il 33% in Germania. Il 96% delle persone con un basso titolo di studio e l’89% di quelle a basso reddito sono convinte che resteranno nella loro condizione attuale, ritenendo irrealistico poter diventare benestanti nel corso della propria vita.
E il 56,3% degli italiani dichiara che non è vero che le cose nel nostro Paese hanno iniziato a cambiare veramente. Il 63,6% è convinto che nessuno ne difende interessi e identità, devono pensarci da soli (e la quota sale al 72% tra chi possiede un basso titolo di studio e al 71,3% tra chi può contare solo su redditi bassi). La insopportazione degli altri sdogana i pregiudizi, anche quelli prima inconfessabili. Le diversità dagli altri sono percepite come pericoli da cui proteggersi: il 69,7% degli italiani non vorrebbe come vicini di casa i rom, il 69,4% persone con dipendenze da droga o alcol. Il 52% è convinto che si fa di più per gli immigrati che per gli italiani, quota che raggiunge il 57% tra le persone con redditi bassi. Sono i dati di un cattivismo diffuso che erige muri invisibili, ma spessi. Rispetto al futuro, il 35,6% degli italiani è pessimista perché scruta l’orizzonte con delusione e paura, il 31,3% è incerto e solo il 33,1% è ottimista. Il 63% degli italiani vede in modo negativo l’immigrazione da Paesi non comunitari (contro una media Ue del 52%) e il 45% anche da quelli comunitari (rispetto al 29% medio). I più ostili verso gli extracomunitari sono gli italiani più fragili: il 71% di chi ha più di 55 anni e il 78% dei disoccupati, mentre il dato scende al 23% tra gli imprenditori. Il 58% degli italiani pensa che gli immigrati sottraggano posti di lavoro ai nostri connazionali, il 63% che rappresentano un peso per il nostro sistema di welfare e solo il 37% sottolinea il loro impatto favorevole sull’economia. Per il 75% l’immigrazione aumenta il rischio di criminalità. Cosa attendersi per il futuro? Il 59,3% degli italiani è convinto che tra dieci anni nel nostro Paese non ci sarà un buon livello di integrazione tra etnie e culture diverse.”

IL BISOGNO DI SICUREZZA
Queste sono, secondo il Censis, le radici sociali della paura e del bisogno di sicurezza.
Viviamo nell’Italia dominata dalla paura: la paura dell’uomo che spara e la paura dello straniero. Il Paese vive come in un incubo, chiuso nelle sue fortezze. Prima o poi arriverà qualcuno che bucherà la bolla della paura, e allora ricomincerà la buona politica. Ma per bucare la bolla bisogna andare alla radice della paura: la crisi economica e le diseguaglianze.
Su questo punto concordo nella sostanza con il Censis: anche se non tutto è riducibile ai processi di lacerazione sociale. I sentimenti di paura e di insicurezza hanno radici anche nel disagio urbano, in contesti di difficile convivenza civile e di abbandono istituzionale. Che proiettano una dimensione di fragilità ed un senso di minaccia che appaiono ben più forti della reale presenza di chi si teme, criminale o straniero che sia.

Sao Tomé e Principe, Neves, bambini (2015) (foto Giorgio Pagano)

Sao Tomé e Principe, Neves, bambini
(2015) (foto Giorgio Pagano)

LA CACCIA AL CAPRO ESPIATORIO
Torniamo sul “sovranismo pschico” di cui parla il Censis: sta a significare la crisi della soggettività nell’epoca del rancore. Come reagisce la soggettività?
Con la caccia al capro espiatorio, auspicata e incentivata dalla politica della destra che fa un uso mediatico di emergenze fittizie. La vera emergenza è quella economica e sociale, è quella del disagio urbano, non è quella del numero dei migranti e del numero dei reati. La gente è stata spinta a credere che sia i migranti che i reati siano infinitamente di più rispetto alla realtà. In realtà sono diminuiti sia gli uni che gli altri. I reati da molto tempo, i migranti da meno. Un dato, comunque, emerge su tutti: in Italia sono diminuiti i reati nella fase storica in cui sono aumentati i migranti!
Il capro espiatorio è il migrante, è il povero, è chi fa un blocco stradale, è il criminale…
Per la soggettività in crisi l’unica soluzione è difendere la propria identità, la sovranità sull’identità: che per l’uomo è patriarcale.
Il che ci fa capire che la violenza sulle donne non è un problema delle donne, che la questione non è lo spray al peperoncino ma è la casa come posto meno sicuro, è quindi la messa in discussione del patriarcato. Anche in questo caso bisogna andare alle radici.
La questione del capro espiatorio è decisiva: pratichiamo ancora sacrifici, sacrifici umani. La “democrazia del pubblico” funziona così. Ogni comunità sfoga la violenza che rischia continuamente di dissolverla in sacrifici rituali, di cui l’esempio più famoso è il capro espiatorio della Bibbia ebraica.
“Sacrificare sull’altare della sicurezza” è il leit motiv: dai ragazzini di Guantanamo in poi…
Guantanamo c’è da oltre quindici anni: è il simbolo della bancarotta delle politiche securitarie adottate dall’Occidente dopo l’11 settembre 2001. Perché certamente non è servita a promuovere la sicurezza ma ha solo alimentato la spirale del terrore.

LA POLITICA DELLA PAURA E LA POLITICA DEL CORAGGIO
Salvini ha fatto della paura il fondamento del suo sistema di consenso. Cavalca la spinta securitaria, amplificandola con provvedimenti come la legge sulla legittima difesa, che privatizza la difesa del cittadino, o come il Decreto Sicurezza, presentato come la soluzione finale ad ogni problema. In realtà è uno zibaldone di norme disorganiche, tutte con un chiaro messaggio politico: come la norma che proibisce ogni azione di salvataggio dei migranti in mare. Che è invece un preciso dovere morale.
Possiamo combattere rancore, cattiveria, “sovranismo psichico”, ricorso al capro espiatorio e politiche securitarie del tutto sproporzionate solo con la buona politica. Le alternative esistono: bisogna rendere le testimonianze politicamente attive. Qui c’è la questione irrisolta della crisi, o meglio della morte, della politica e della sinistra.
Certamente la politica e la sinistra devono “capire la paura”. La risposta sta nel combattere la campagna che avvelena da anni il cuore degli italiani raccontando le bugie enormi sui migranti come sui reati. Sta nel denunciare che i principali problemi del Paese sono la povertà e le diseguaglianze, che sono esplose a livelli paragonabili solo ai periodi di guerra: 18,6 milioni di italiani a rischio esclusione, 5 in povertà assoluta, 9,3 relativa, mentre 12 milioni non si possono più curare e 1,2 sono bambini. Sta nel battersi per una politica economica e sociale che sostenga tutti i più deboli e non incentivi la guerra tra i poveri. Sta nel combattere quei politici di oggi che dicono “prima gli italiani” e che sono gli stessi che ci hanno impoverito tagliando i fondi alle politiche sociali, hanno tagliato la sanità e l’istruzione pubblica, hanno reso più precario il lavoro. Sta nel proporre una politica di riforme vere che garantiscano la cattura e la punizione dei criminali di ogni nazionalità e combattano il disagio urbano. Sta nel proporre una politica della cooperazione che renda gli africani “padroni a casa loro”, e una politica dell’accoglienza basata sulla formazione e il lavoro, per garantire agli immigrati il “diritto di tornare”.
La paura si sconfigge con il coraggio. Quindi la politica e la sinistra devono avere coraggio. Il coraggio della cultura, il coraggio dell’umanità, il coraggio della radicalità.

lucidellacitta2011@gmail.com

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