Presentazione di “Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista” di Dino Grassi, Venerdì 22 novembre ore 17 al Palazzo Ducale di Massa
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Presentazione di
“Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista” di Dino Grassi
Venerdì 22 novembre ore 17 al Palazzo Ducale di Massa
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I ricchi, i poveri e la rapina che deve finire

a cura di in data 2 Novembre 2017 – 19:35
Principe, Santo Antonio, due cani (2015) (foto Giorgio Pagano)

Principe, Santo Antonio, due cani
(2015) (foto Giorgio Pagano)

Città della Spezia, 29 ottobre 2017 – Una tabella pubblicata da “Forbes” evidenzia quali sono le prime cento economie mondiali in termini di Pil (Prodotto interno lordo). Tra queste, 37 sono multinazionali e 63 sono nazioni. Ai primi quattro posti ci sono naturalmente Stati Uniti, Cina, Giappone e Germania. Seguono, fino al 27° posto, le principali potenze europee, asiatiche, arabe, oltre ad Australia e Brasile. Dal 27° posto in poi è tutto un succedersi di Paesi emergenti e multinazionali.
“E’ un bel racconto del mondo, del nostro mondo -ha commentato la rivista “Africa”- nel quale la potenza si misura, oltre che dalla forza militare, dalla capacità di produrre la ricchezza”. L’economia batte la politica: ci sono molte imprese private che sono enormemente più potenti di molti Paesi. Certamente di quasi tutti i Paesi africani, esclusi il Sudafrica (33° posto), la Nigeria (43°) e l’Angola (86°). Tutti gli altri, a parte tre Paesi nordafricani -Egitto, Algeria e Marocco-, non compaiono tra i primi cento, sono nella seconda parte della classifica. Fanno parte del cosiddetto “ultimo miliardo”, quella fetta di popolazione mondiale considerata irrimediabilmente povera.

Ma c’è un altro dato che va evidenziato: dopo i primi 27 Paesi c’è la Wallmart, multinazionale della vendita al dettaglio, e poi tre imprese petrolifere: Shell, Exxonmobil e la cinese Sinopec. Tutte ampiamente presenti in Africa e tutte ampiamente prima, nella classifica, dei Paesi petroliferi citati, Nigeria ed Angola, e drasticamente prima degli altri Paesi petroliferi africani, Congo Brazzaville, Gabon, Sudan, Sud Sudan, Mozambico e Guinea Equatoriale.

Il quadro è dunque chiaro: il petrolio arricchisce di più le multinazionali e i Paesi a cui esse fanno riferimento, che non i Paesi africani che il petrolio lo detengono. In questo c’è certamente una responsabilità delle classi dirigenti africane, corrotte e incapaci di usare le risorse naturali dei loro Paesi per politiche di sviluppo. Ma c’è, anche e soprattutto, una politica dell’Occidente e della Cina che considera l’Africa come “un serbatoio di materie prime”, dice ancora la rivista. Petrolio in primis ma non solo. Una politica che rapina l’Africa e lascia ben poco in termini di distribuzione della ricchezza, domanda interna, crescita delle imprese. Ho fatto un’esperienza da cooperante a Sao Tomè e Principe, e ho visto come si comportano le multinazionali francesi e belghe con il cacao: si portano via la materia prima a bassissimo prezzo, poi tutti i proventi del cioccolato prodotto da quel cacao arricchiscono le multinazionali e le economie dei Paesi in cui sono insediate, mentre la popolazione di Sao Tomé e Principe resta poverissima. In Africa non c’è nemmeno una sede, dicasi una, di multinazionali.

Per venire, allora, ai grandi temi su cui si discute nel nostro Paese: va certamente garantito il “diritto di migrare” degli africani, ma anche il loro “diritto di restare”, agendo sulle cause che li costringono a migrare. Sono due diritti da garantire insieme, non in contrasto tra loro. La cosa più sbagliata è contrapporre “casa” a “casa”. Non ci potranno più essere “case” nostre e loro, recintate, esclusive, ma solamente un’unica “casa” comune. Nella quale gli africani verranno in Europa, e gli europei andranno in Africa, perché abbiamo e avremo sempre più bisogno gli uni degli altri. Ma per garantire il “diritto di restare” il nostro rapporto con l’Africa deve basarsi su partnership fondate sulla parità e la reciprocità e non, come avviene oggi, sullo scambio ineguale.

Sao Tomè, un cane  (2015)  (foto Giorgio Pagano)

Sao Tomè, un cane
(2015) (foto Giorgio Pagano)

E’ un obbiettivo possibile? La mia esperienza a Sao Tomé e Principe dimostra che, nonostante tutto e “in direzione ostinata e contraria”, è possibile. E’ possibile concepire e praticare la nostra presenza in Africa come un’occasione di sviluppo e di lavoro per le nostre imprese: imprese che non siano predatrici, ma socialmente e ambientalmente responsabili. A Sao Tomé e Principe non ci sono solamente le imprese turistiche straniere che attentano all’ambiente ma anche quelle che investono nel pieno rispetto dell’identità dei luoghi. Ci sono i pescherecci che rubano il pesce per portarlo in Europa, ma ci sono anche cooperative italiane disponibili a collaborare con i pescatori locali e a creare una società con loro. Nell’agricoltura operano le multinazionali che depredano il cacao ma anche imprenditori stranieri che producono in loco, lasciando più ricchezza nel paese.

Naturalmente tutto questo potrà consolidarsi e ampliarsi, a Sao Tomé e Principe come in tutta l’Africa, solo se ritornerà a prevalere la politica -la responsabilità sociale e ambientale- sugli “animal spirits” dell’economia liberista. Deve essere chiaro che, se non faremo questo, le migrazioni saranno sempre più massicce.
E poi c’è l’Africa che deve ribellarsi, e cambiare. Non essere complice di chi rapina, come spesso accade. Anche questo è possibile. Non tutte le classi dirigenti sono corrotte. E c’è un risveglio degli africani, della loro società civile, dei loro imprenditori. Un imprenditore locale, in Camerun, ha messo sul mercato per la prima volta il latte condensato. E’ arrivata la Nestlè con un latte che costava molto meno: l’imprenditore ha fatto un esame di laboratorio e si è accorto che il latte della Nestlè conteneva non i grassi animali, ma quelli vegetali, molto meno costosi. Ha fatto causa per concorrenza sleale e l’ha vinta. E’ un piccolo grande esempio di come, anche in Africa, le cose possono cambiare.

lucidellacitta2011@gmail.com

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