Presentazione di “Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista” di Dino Grassi, Venerdì 22 novembre ore 17 al Palazzo Ducale di Massa
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Presentazione di
“Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista” di Dino Grassi
Venerdì 22 novembre ore 17 al Palazzo Ducale di Massa
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I ragazzi di Valmozzola e del monte Barca e la Medaglia che ci spetta

a cura di in data 25 Aprile 2016 – 14:33
Sao Tomè, murales    (2016)    (foto Giorgio Pagano)

Sao Tomè, murales
(2016) (foto Giorgio Pagano)

Città della Spezia, 24 aprile 2016 – L’attacco al treno a Valmozzola -piccola frazione della Val di Taro- rappresentò un momento importante per il movimento partigiano. Era il 13 marzo 1944, la lotta di Liberazione era cominciata da pochi mesi. L’attacco dimostrò che l’azione era possibile, e quindi galvanizzò i ribelli e scosse i dormienti. E i partigiani non rimasero soli: furono accolti e protetti dalla gente di montagna.
L’episodio di Valmozzola si svolse i due tempi, di cui uno fu la drammatica conclusione dell’altro: l’assalto al treno nella stazione di Valmozzola da parte dei partigiani della banda “Betti” il 13 marzo, e la rappresaglia che ne seguì, fino alla fucilazione degli otto ribelli del monte Barca, nel bagnonese, il 17 marzo. In entrambi i casi i protagonisti furono giovani partigiani provenienti dalla nostra provincia.

La banda “Betti” era nata nella Val di Taro spontaneamente, senza un legame con i partiti e con il CLN parmense, che pure furono subito attivi nella zona dopo l’8 settembre 1943 grazie all’impegno dei comunisti e dei cattolici. Giovani antifascisti si erano riuniti attorno alla figura di Mario Devoti “Betti”, caporalmaggiore piacentino, disertore. Alla fine del febbraio 1944 la banda entrò in contatto -grazie ad Aldo Galazzo, tecnico dell’Arsenale spezzino legato ai comunisti, la cui famiglia era sfollata in Val di Taro- con il CLN della Spezia, che incominciò ad inviare armi e uomini, esponenti in primo luogo del Partito comunista. Tra questi il sarzanese Paolino Ranieri “Andrea”, che fu nominato commissario politico. “Andrea” divenne poi commissario politico della Brigata “Ugo Muccini”, e nel dopoguerra fu per molti anni Sindaco di Sarzana. A capo della banda rimase “Betti”, che fu affiancato come vicecomandante da un altro spezzino, il santostefanese Primo Battistini “Tullio”, il partigiano più controverso della Resistenza spezzina, “eroe” e “fuorilegge”. Tra gli spezzini c’erano anche, tra gli altri, Mario Portonato “Claudio”, migliarinese, Giovanni Gattoronchieri “Pietro”, arcolano, e Ezio Bassano “Romualdo”, anche lui di Arcola, di cui fu Sindaco nel dopoguerra.
Il gruppo diventò di una sessantina di partigiani: lavoratori delle fabbriche -di quelle fabbriche spezzine che ai primi di marzo si erano fermate con uno sciopero compatto- ma anche studenti e contadini della zona.

Il 13 marzo una ventina di ribelli al comando di “Betti” e di “Tullio” partì da Mariano, base del gruppo, e si diresse a Valmozzola per prelevare il capostazione repubblichino, collaboratore dei nazisti. Il commissario “Andrea” non era presente, perché non era stato messo a conoscenza dell’assalto. Di questo fatto d’armi esistono almeno quattro versioni diverse tramandate dalla memorialistica. Arrivati, i ribelli si fecero scappare il capostazione e videro il treno Parma-Spezia e una carrozza riservata ai militari. Solo allora, forse, decisero l’attacco, che probabilmente non era stato previsto. “Betti“ fu subito ucciso da una bomba a mano. Iniziò allora l’assalto dei partigiani, fino alla resa dei fascisti e dei tedeschi, che furono fatti prigionieri. Tre prigionieri dei nazifascisti furono liberati. Quattro fascisti furono uccisi. Altri tre fascisti furono fucilati successivamente da “Tullio”, gli altri furono liberati. Fu un’azione spontanea, tipica di quella prima fase della lotta partigiana.

La reazione nazifascista fu immediata e feroce. Il 14 marzo tredici partigiani del gruppo del monte Barca, nel bagnonese, vennero sorpresi nel loro rifugio da un plotone repubblichino del battaglione “San Marco” della famigerata X Mas. Erano partigiani spezzini, sarzanesi, lericini, più tre prigionieri russi, evasi da un campo di concentramento. Erano ancora inattivi e solo in parte armati: si trattava del nucleo di una nuova formazione che i comunisti intendevano formare nella Lunigiana toscana grazie al lavoro organizzativo di Dario Montarese “Brichè” e di Edoardo Bassignani “Ebio”, che furono poi protagonisti della Resistenza in Val di Magra, nella Brigata “Muccini” e nella Brigata “Borrini”.

Due giovani, Luigi Giannetti e il russo Viktor Ivanov, vennero uccisi sul posto. Uno, Ernesto Parducci “Giovanni”, riuscì a fuggire. Gli altri furono tradotti a Pontremoli. Il loro commissario politico, Dario Montarese, quel giorno era sceso a Spezia per contatti con il CLN. Il capo spirituale del gruppo, per sensibilità e preparazione politica, era Ubaldo Cheirasco, studente universitario socialista. Si era formato culturalmente, ed anche eticamente, nel Liceo Classico Costa della Spezia, autentica fucina dell’antifascismo: fu la scuola dove avevano insegnato nobili figure come Ennio Carando e Aldo Ferrari, e anche Italo Malco, che di Ubaldo era stato docente di greco. La sorella di Ubaldo, Teresa, scomparsa nel 2011, finché ha potuto è salita ogni anno a Valmozzola, nel giorno del ricordo. Dopo la morte del fratello fu arrestata e imprigionata per tre mesi: ma resistette agli interrogatori e non parlò.
Mentre i dieci partigiani venivano portati verso il basso della montagna, uno di loro, Luciano Righi, gravemente ferito, venne falciato da una raffica di mitra. I nove rimasti vennero rinchiusi nel Seminario Vescovile di Pontremoli, che era stato occupato dalla X Mas.

Sappiamo tutto, dalle testimonianze, del tormento di quei giovani: le sevizie cui furono sottoposti negli interrogatori; il trasferimento, il 15 marzo, nelle carceri di Villa Andreino a Spezia, dove furono interrogati dal comando tedesco; il loro ritorno a Pontremoli il 16 marzo, dopo che fu decretata la condanna a morte: con i volti lividi e tumefatti per le violenze subite in quei tre giorni, senza acqua né cibo; il purtroppo inutile intervento del Vescovo di Pontremoli, Monsignor Sismondo, che tentò di salvarli, e pregò insieme a loro, li abbracciò e li benedisse.

E poi l’ultimo viaggio, il 17 marzo, da Pontremoli a Valmozzola, dove i partigiani vennero condotti per la fucilazione: a Valmozzola, perché i nazifascisti volevano far credere che i partigiani del monte Barca fossero gli stessi che avevano assaltato il treno (così scrisse la stampa dell’epoca).

I partigiani, quando seppero che la fucilazione era prevista alla schiena, si ribellarono e chiesero di essere fucilati al petto, come combattenti. Il capobanda fascista aderì alla richiesta, e anche a quella di salvare uno dei partigiani, Mario Galeazzi, perché -dissero loro- era stato costretto a forza a entrare nel gruppo; in realtà non era così, il suo nome fu estratto a sorte.
Morirono gridando “Viva l’Italia!”.

Il Vescovo di Pontremoli scrisse ai loro genitori: “Sono morti sorridendo, la loro morte ha sapore di martirio”.

L’eccidio di Valmozzola fu una perdita grave per la Resistenza. Fu una rappresaglia che per i nazifascisti doveva essere esemplare: con il terrore essi volevano impedire che altri giovani salissero ai monti per diventare ribelli, e che la gente di montagna fosse solidale con loro.

Ma il risultato che ottennero fu esattamente l’opposto: tanti altri giovani diventarono partigiani. L’attacco al treno rappresentò, al di là di ogni considerazione, un momento importante per il movimento patriottico. Così come lo fu, pochi giorni dopo, il 18 e 19 marzo, la battaglia del Lago Santo parmense, che vide protagonisti nove partigiani del Battaglione “Picelli”, spezzini, lunigianesi e parmensi, al comando del calabrese Dante Castellucci “Facio”. Entrambe le azioni dimostrarono che i partigiani ce la potevano fare.

L’ex banda “Betti”, guidata da “Tullio”, riuscì a sfuggire al rastrellamento che colpì anche la Val di Taro, spostandosi nella Val di Ceno e poi fino ai confini del piacentino. La formazione fu quindi contattata dal Pci parmense e fino all’estate del 1944 le sue vicende si intrecciarono con quelle degli altri gruppi dell’area, i gruppi della costituenda XII Brigata Garibaldi. Ci furono divisioni, “Tullio” rientrò in Val di Magra. Il gruppo spezzino, da Ranieri a Portonato, in gran parte rimase nel parmense, fino all’estate del ’44, dipendente però dalla federazione comunista spezzina. Fu protagonista della costituzione della “zona libera” del Ceno, una delle prime, se non la prima in Italia (10 giugno 1944): gli spezzini eseguirono la parte forse più importante dell’azione, la liberazione di Bardi. Un’altra banda di spezzini, la Brigata “Cento Croci”, brigata mista di cattolici, moderati e comunisti, fu protagonista di un’altra “zona libera” quella del Taro.

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Tra il 17 aprile 1944 e il 25 aprile 1945 ci fu più di un anno di Resistenza, di radicamento popolare della Resistenza, di lotta eroica della Resistenza. Un anno con tante altre distruzioni, privazioni, vittime. Pensiamo alla sconfitta dei liberi Stati partigiani del Ceno e del Taro, e ai rastrellamenti nazifascisti che durarono per tutto il mese di luglio. Ma poi venne il 25 aprile 1945. I partigiani scesero dalle valli e liberarono Spezia e Parma, prima degli alleati.

Come poté accadere? Accadde perché la Resistenza, e la nostra in particolare, fu un grande moto popolare. Tutto il popolo, anche quello non combattente, vi partecipò con la sua opera di solidarietà, dagli operai delle fabbriche ai contadini delle nostre valli. E decisive furono le donne. Se gli operai, a partire dal grande sciopero del marzo 1944, diedero alla Resistenza il tratto della lotta di classe, le manifestazioni di assistenza che videro protagonista il mondo delle campagne introdussero nella nostra vicenda resistenziale un tratto più ampio di quello della lotta di classe. Tutti gli strati sociali parteciparono: non è vero che il popolo fu scoraggiato e silente. La Resistenza fu una guerra popolare perché il popolo -anche le donne, che sono coloro che più aborrono le guerre- ne comprese il significato e diede tutto se stesso nella lotta per la sopravvivenza -perché anche di questo si trattò- e per la vittoria. I partigiani dei nostri monti sopravvissero nei durissimi inverni 1943-44 e 1944-45 soprattutto grazie alle famiglie contadine e alle coraggiose donne di queste e altri valli, che li ospitarono e li sfamarono per mesi. Dobbiamo ricordare dunque non solo lo scontro bellico ma anche la corposità e l’intensità della Resistenza non armata; non solo i comandanti militari, ma anche le donne, gli operai, i contadini, i ragazzi, i sacerdoti.

Dobbiamo ricordare anche gli uomini del Sud: se è vero che l’esercito del Regno del Sud non partecipò, sostanzialmente, alla guerra antitedesca, è anche vero, però, che molti meridionali diventarono partigiani al Nord. Nella Resistenza spezzina, lunigianese e parmense due nomi per tutti: Dante Castellucci “Facio”, comandante del Battaglione “Picelli”, poi ucciso dai suoi stessi compagni, e Antonio Siligato “Nino”, eroe della Brigata “Cento Croci”.

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Alla radice di tutta la Resistenza, armata e civile, ci fu la scelta morale: per il bene contro il male, per la vita intesa come cammino non solo individuale ma anche collettivo, per la libertà contro la dittatura.

L’ “ardir” -al centro del mio libro intitolato “Eppur bisogna ardir”, un verso originario di “Fischia il vento”- è l’ardimento della scelta morale. L’”ardir” si manifestò già subito dopo l’8 settembre, sia con i primi barlumi di iniziativa di molti militari sbandati per combattere tedeschi e fascisti, sia con le manifestazioni di solidarietà e di aiuto concreto che gran parte della popolazione offrì ai soldati fuggiaschi. Ha scritto lo storico Claudio Pavone: “Lo scatenarsi di un tendenziale bellum omnium contra omnes trovò un contrappeso nell’aiuto che disinteressatamente si prestavano persone tra loro sconosciute. L’asprezza della guerra civile e della guerra contro l’occupante batteva alle porte, e la gente sembrava avesse scoperto che l’unico punto di appoggio rimaneva la fiducia nel prossimo”.

La scelta la fecero, in quei giorni, non solo i militari che non esitarono da subito a combattere i nazifascisti, ma anche i comunisti, i socialisti, i popolani che si misero a raccogliere le armi.

Sao Tomè, Fernao Dias, monumento ai Martires da Liberdade (le 1000 vittime del massacro degli schiavi a Batepà del 3 febbraio 1953, a opera dei coloni portoghesi)    (2016)    (foto Giorgio Pagano)

Sao Tomè, Fernao Dias,
monumento ai Martires da Liberdade
(le 1000 vittime del massacro degli schiavi a Batepà del
3 febbraio 1953, a opera dei coloni portoghesi)
(2016) (foto Giorgio Pagano)

Le pagine più belle sulla scelta, dal punto di vista dell’analisi storica, le ha scritte Claudio Pavone in “Una guerra civile”, che non a caso ha come sottotitolo “Saggio storico sulla moralità della Resistenza” (cioè il titolo che Pavone avrebbe voluto dare al libro). Dopo i primi giorni la spontanea, umana solidarietà non fu più sufficiente. Le truppe tedesche cominciarono a dare un minimo di formalizzazione alla loro violenza, i fascisti crearono la Repubblica Sociale: “La scelta da compiere divenne più dura e drammatica … dovette infatti esercitarsi tra una disobbedienza dai prezzi sempre più alti e le lusinghe della pur tetra normalizzazione nazifascista”. Il primo significato di libertà che assume la scelta resistenziale è implicito nel suo essere un atto di disobbedienza: “Una rivolta contro il potere dell’uomo sull’uomo, una riaffermazione dell’antico principio che il potere non deve averla vinta sulla virtù”. Continua lo storico: “Per la prima volta nella storia d’Italia gli italiani vissero in forme varie un’esperienza di disobbedienza di massa. Il fatto era di enorme rilevanza educativa per la generazione che, nella scuola elementare, aveva dovuto imparare a memoria queste parole del libro unico di Stato: ‘Quale dev’essere la prima virtù di un balilla? L’obbedienza! E la seconda? L’obbedienza (in caratteri più grandi). E la terza? L’obbedienza (in caratteri enormi)”. Un secondo elemento da prendere in considerazione, secondo Pavone, è che la scelta fu compiuta nella “responsabilità totale nella solitudine totale”, una solitudine profonda a cui non sfuggirono nemmeno i cattolici, che pure avevano alle spalle le uniche istituzioni che non erano crollate.
Ci fu nei resistenti una varietà di motivazioni individuali molto ampia, che si iscrissero tutte in un “clima morale”, che accomunò la scelta partigiana a quella compiuta nei campi di internamento in Germania dai militari che preferirono quell’inferno all’adesione alla Repubblica sociale. La scelta morale fu rinnovata nei successivi, difficili mesi: “La scelta va considerata piuttosto che come un’istantanea illuminazione come un processo che talvolta si apre la strada a fatica, perché affaticati sono gli uomini che lo vivono”. Io racconto sempre la storia del mio compagno e amico Umberto Bellavigna “William”, che fu con “Facio”, poi alla sua morte nel parmense, poi, per salvarsi, nella Repubblica di Salò, e infine ancora sui monti. Lui fece due volte la scelta morale. Ciascuno si trovò solo di fronte alla propria scelta. Ogni partigiano ebbe un suo caso di coscienza, un suo personale ardimento. Ma da tutte queste storie individuali sorse una storia collettiva. Fu questa dimensione morale, che Piero Calamandrei indicava come una sorta di impulso diffuso, generato “da una voce sotterranea”, a indicare agli italiani la via della ribellione e del riscatto.

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Ci furono anche le violenze, i tradimenti e le ombre della Resistenza, su cui va fatta piena chiarezza e, ove necessario, come nel “caso Facio”, anche un’autocritica radicale da parte di chi porta responsabilità; ma essi in nessun caso riescono a scalfire il tessuto connettivo della lotta partigiana, la luce della scelta morale. La Resistenza cambiò non tanto il Paese, quanto le persone che vi presero parte. Fu scuola di vita, laboratorio di maturazione, di crescita personale e sociale, di emancipazione.
Certo, i resistenti erano umani, quindi necessariamente pieni di contraddizioni: nella vita vera l’assoluto non c’è. Ma in generale possiamo concludere che, salvo eccezioni, il modo di combattere e conquistare il consenso dei partigiani fu opposto a quello dei fascisti. I resistenti non esaltavano la bella morte, non esibivano i cadaveri dei nemici, e usavano la violenza come necessità, consapevoli del suo male intrinseco. Per loro la violenza aveva un carattere difensivo: la scelta di uccidere veniva dopo, era una conseguenza della scelta fondamentale di contrapporsi alla violenza nazifascista, che comportava la possibilità di essere a propria volta uccisi. Così mi hanno sempre parlato tutti i miei compagni e amici partigiani, in discussioni per loro mai facili, sempre dolorose. I fascisti, in generale, trovavano invece nel terrore, nell’esibizione dell’orrore, nel dare la sofferenza, la legittimazione della propria esistenza e del proprio potere. Esattamente come facevano i terroristi “rossi” degli anni Settanta-Ottanta: anche loro sparavano per provare che esistevano. La Resistenza, quindi, non ha nulla a che fare con il terrorismo.

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Gli episodi di Valmozzola e del monte Barca dimostrano la straordinaria rilevanza della Resistenza spezzina, fin dall’inizio della lotta. Alla fine il numero dei caduti nelle formazioni partigiane operanti nel territorio della IV Zona operativa fu elevatissimo: 835. Va detto che un ruolo particolare lo ebbe la città capoluogo: moltissimi furono gli spezzini di nascita o di adozione che parteciparono alla Resistenza sia nelle formazioni partigiane di montagna che nelle SAP (Squadre di Azione Patriottica) cittadine. Molti assunsero funzioni fondamentali a livello di coordinamento e di comando nell’ambito del CLN o delle formazioni di montagna o di città.

Il carattere eccezionale della Resistenza in città fu dovuto alla molteplicità degli apporti che in essa confluirono. Spezia era base navale di importanza nazionale, sede della Marina Militare. Il contributo della Marina alla Resistenza fu straordinario, a partire dal sacrificio degli uomini della corazzata “Roma”, partita da Spezia il 9 settembre 1943. Fin dai primi giorni dell’occupazione tedesca si creò un’organizzazione militare clandestina antifascista, che confluì nelle SAP (Squadre di Azione Patriottica), coinvolgendo anche graduati dell’Aeronautica e dell’Esercito, e condusse preziosissime azioni di sabotaggio. Inoltre, in un contesto industriale come quello spezzino, decisivo fu il ruolo degli operai e dei lavoratori. Gli scioperi del 1943 e dell’inizio del 1944 -soprattutto il grande sciopero del marzo 1944- diedero un durissimo colpo al regime nazifascista. Così come va ricordata la successiva azione di difesa degli impianti e delle macchine delle fabbriche e del porto in una fase decisiva della guerra, dalla quale dipendeva la possibilità della rimessa in funzione delle fabbriche a liberazione avvenuta. A tutto ciò va aggiunto che il Comune della Spezia ha, nell’ambito della deportazione, un tragico primato: registra, percentualmente, rispetto alle altre città italiane, più deportati, e annovera il maggior numero di vittime a Mauthausen. Le cifre approssimative per difetto sono di 585 deportati, di cui 324 deceduti. La deportazione riguardò prevalentemente la popolazione civile -di Migliarina e Canaletto in particolare- come ritorsione alla diffusione e all’incidenza politica e militare della lotta partigiana. Infine i bombardamenti: la città fu in gran parte rasa al suolo, in misura maggiore a quasi tutte le altre città italiane.

Nell’ottobre 1957 fu conferita al Comune della Spezia la Medaglia d’Argento al Valor Militare per Attività Partigiana. Ci fu, comprensibilmente, una grande amarezza, perché il sacrificio di tanti avrebbe meritato la Medaglia d’Oro (che fu poi conferita alla Provincia, dopo lunghe battaglie, solamente nel 1996, mentre al Comune fu conferita nel 2006 la Medaglia d’Oro al Merito Civile per la solidarietà agli ebrei scampati ai campi di concentramento). La partita sembrava chiusa, ma una legge del 25 febbraio 2016 apre alla possibilità di concedere nuove qualifiche e decorazioni. Ci siamo quindi mobilitati. In questi giorni il Sindaco e i copresidenti del Comitato Unitario della Resistenza hanno presentato la richiesta della concessione della Medaglia d’Oro al Valor Militare. La città deve esserne fiera, e sostenere con vigore la proposta: il nostro eccezionale contributo alla Resistenza merita il giusto riconoscimento.

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La legge ci dà, finalmente, anche la possibilità di rendere giustizia a “Facio”. Il suo Comune natio, Sant’Agata di Esaro, ha presentato la richiesta della revoca della falsa medaglia e del conferimento di una nuova onorificenza. La richiesta è stata controfirmata dai copresidenti del Comitato Unitario della Resistenza di Spezia e dal presidente dell’Anpi provinciale di Massa-Carrara (“Facio” fu ucciso ad Adelano di Zeri). Nei giorni scorsi ho incontrato Laura Seghettini, la compagna di “Facio”, e Pietro Gnecchi, l’unico eroe del Lago Santo ancora in vita. E’ la loro richiesta estrema. Poco prima di morire “Facio” disse a “Laura”: “Un giorno qualcuno farà luce sulla mia storia”. L’abbiamo fatta, in buona parte, questa luce, ma ora bisogna andare fino in fondo. Dobbiamo farlo per “Facio” e per la Resistenza.

lucidellacitta2011@gmail.com

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