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Gli operai e la libertà

a cura di in data 9 Aprile 2014 – 11:02
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Milano, Museo del Novecento: Il Quarto Stato di Giuseppe Pelizza da Volpedo (2014) (foto Giorgio Pagano)

Città della Spezia – 6 Aprile 2014 – “Dopo i grandi scioperi del marzo 1944 Hitler ordinò la deportazione nei campi di concentramento nazisti del 10% degli scioperanti, ma all’ultimo momento i rappresentanti tedeschi in Italia riuscirono, per la prima e unica volta, a far revocare un ordine del Fuhrer: lo fecero perché temevano la reazione degli operai italiani, e un’accelerazione insurrezionale nel Nord”: sono parole dello storico tedesco Luntz Klinkhammer, pronunciate nella interessantissima conferenza al convegno “Verso la libertà. Gli scioperi del marzo 1944”, organizzata nei giorni scorsi da Istituto Storico, Comitato Unitario e Cgil, Cisl, Uil. Invece che 70.000, i deportati furono 1200, con un’azione mirata verso i capi della rivolta operaia. Il male fu minore, per merito non dei tedeschi in Italia ma degli italiani, che diedero loro un segnale di così grande forza da far prendere loro paura.

La forza degli operai derivava dal fatto che essi lottavano contro un nemico terribile come la fame, ma anche dall’acquisizione di una grande coscienza politica sul loro ruolo -come classe sociale- per sconfiggere il nemico nazista e fascista e per riconquistare la libertà e l’indipendenza nazionale. Per rivivere quei giorni a Spezia non si può non leggere o rileggere un libro importante: “La Spezia marzo 1944. Classe operaia e Resistenza”, che contiene gli atti della conferenza tenutasi il 1° marzo 1974, preceduti dall’introduzione di Mario Farina, intellettuale rigoroso e amministratore capace, attivo nella seconda metà del secolo scorso. Farina ricorda che, facendo il 1914 uguale a 100, l’indice dei salari reali degli operai scese da 124 nel 1922 a 101 nel 1939 e a 27 nel 1944, e che tra il 1939 il 1942 il consumo annuo di grano dimezzò. Così come ricorda che c’erano le bombe (si veda, in questa rubrica, “Spezia sotto le bombe”, 12 maggio 2013), e il conseguente fenomeno dello sfollamento in campagna, con i rischi del pendolarismo quotidiano in fabbrica. Gli operai soffrivano la fame, ma anche l’autoritarismo: in fabbrica vigeva infatti un sistema autoritario di tipo militare. Nonostante ciò gli operai si resero disponibili, ancor prima dell’8 settembre 1943, dell’invasione tedesca e del ritorno di Mussolini, ad azioni di lotta: ci furono scioperi il 27 luglio alla Termomeccanica per ottenere il rilascio di cinque lavoratori antifascisti arrestati; il 29 luglio in molte fabbriche con una grande manifestazione in città, che ebbe due morti (si veda, su questo giornale, “A settant’anni dagli eccidi del 29 luglio 1943”, 29 luglio 2013); e poi il 5 agosto all’Oto Melara, contro i cottimi. Fu l’Oto la fabbrica più combattiva, come dimostrarono i cinque giorni dello sciopero del gennaio ’44, che conquistò alcuni miglioramenti economici e della condizione di lavoro. Anche per questo il Presidente del Parlamento europeo Martin Schulz, il 24 aprile, celebrerà il 69° della Liberazione al Monumento ai Giardini e poi all’Oto Melara.

La Spezia, molo attiguo al Circolo Velico: l'ultima scritta rimasta in città inneggiante al gruppo Potere Operaio, risalente alla fine degli anni Sessanta (2011) (foto Giorgio Pagano)

La Spezia, molo attiguo al Circolo Velico: l’ultima scritta rimasta in città inneggiante al gruppo Potere Operaio, risalente alla fine degli anni Sessanta (2011) (foto Giorgio Pagano)

Ma chi c’era alla testa degli scioperi? La risposta non è semplice: si sprigionò una spinta operaia rivendicativa e politica con una forte carica di spontaneità, e ci fu nel contempo il ruolo dirigente dei partiti antifascisti, in primo luogo del Pci. Il Comitato segreto d’agitazione del Piemonte, della Lombardia e della Liguria che promosse lo sciopero del marzo era una creatura, come ha ricordato Klinkhammer, dietro cui agiva direttamente il Pci, il partito più radicato nelle fabbriche. Ma il Pci seppe condurre un’azione unitaria, e coinvolgere gli altri partiti del Comitato di Liberazione Nazionale. E, a Spezia come altrove, a dirigere le lotte ci furono anche lavoratori socialisti, cattolici, repubblicani, anarchici. Un ruolo chiave, nella nostra città, lo ebbe, dal gennaio 1943, il sarzanese Anelito Barontini, allora Segretario della Federazione del Pci. Accanto a lui, nel Pci, Otello Giovannelli, Mario Ragozzini e tanti altri; e, nel Comitato sindacale unitario, il socialista Ronaldo Locori, il repubblicano Amedeo Sommovigo e il cattolico Andrea Ravecca. Il Pci si batté, subito dopo l’8 settembre, perché gli operai rientrassero in fabbrica: “era questa -spiega Barontini nella sua relazione alla conferenza del 1974- la condizione politica di fondo che avrebbe determinato lo sviluppo futuro della lotta. Era facile sentirsi rispondere ‘io non vado a lavorare per i tedeschi’. Poteva, questa, sembrare una posizione più rivoluzionaria, ma in realtà non lo era e per questo non poteva e non doveva essere accettata”. Certo, l’Italia era per la Germania una gigantesca riserva di forza lavoro. All’inizio i nazisti volevano deportare tre milioni di operai in Germania, ai lavori forzati; poi scelsero di far funzionare per loro l’industria bellica italiana, con la minaccia della deportazione. Il Pci e l’antifascismo risposero con il sabotaggio: per “ritardare la produzione o renderla il meno efficiente possibile al momento dell’impiego” (testimonianza di Otello Giovannelli nel ’74). Ma soprattutto risposero con lo sciopero di marzo, che fu essenzialmente uno sciopero politico, non solo e non tanto rivendicativo (si veda, in questo giornale, “A settant’anni dallo sciopero del 1° marzo 1944”, 1° marzo 2014). Leggiamo la testimonianza del ’74 di Ioriche Natali, operaio dell’Oto Melara: “La direzione dello stabilimento era scompigliata e non trovò altro da fare che mandare in giro i propri capi per chiedere timidamente le ragioni dello sciopero. La risposta era pressoché unanime: ‘Questo sciopero serve per far tornare la pace al più presto’. Non ponemmo alcuna rivendicazione economica, a differenza della fermata di gennaio. Lo sciopero era uno sciopero politico, di insurrezione nazionale, un atto chiaramente rivoluzionario popolare”. E fu, ha concluso Klinkhammer, “uno straordinario successo politico: servì a legittimare la Resistenza e a delegittimare l’occupante tedesco e la Repubblica fascista, e a sostenere le bande armate partigiane, anche se era troppo presto per l’insurrezione popolare”. Fu il più grande sciopero in Europa, a dimostrazione che “nell’intreccio di scioperi e di guerriglia, di azioni militari e rivendicazioni sociali risiede il tratto peculiare e distintivo della Resistenza italiana”, come scrisse lo storico Ernesto Ragionieri. Per il Pci fu sempre molto chiaro l’obbiettivo politico. Lo spiegava bene ancora Barontini nel ‘74: Hitler era stato sconfitto dai sovietici a Stalingrado, gli anglo-americani erano sbarcati nel sud, “si poneva con urgenza la necessità politica di un intervento della classe operaia e dei lavoratori italiani anche per evitare al Paese il pericolo di un processo, da parte degli alleati, di semicolonizzazione. Pertanto era necessario e doveroso che il popolo italiano, nel suo stesso interesse, facesse sentire la sua volontà di lotta e il contributo della sua forza nella battaglia per riconquistare la libertà e l’indipendenza nazionale: condizione indispensabile per l’avvenire del Paese e per la stessa unità nazionale”. E’ proprio grazie a questa impostazione che alla Conferenza di Pace dell’agosto del ’46 a Parigi il Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi poté rivolgersi al mondo appena uscito dalla guerra tutelando la dignità degli italiani: perché parlava a nome di tutti gli antifascisti che avevano ridato all’Italia l’onore perduto.
E’ doveroso a questo punto ricordare gli spezzini deportati nei campi di concentramento in Germania per lo sciopero del 1° marzo 1944: Michele Castagnaro, Pietro Milone, Ioriche Natali e Giuseppe Sanvenero dell’Oto Melara; Armando Cialdini, Ubaldo Colotto, Filippo Dondoglio, Mario Pistelli e Giuseppe Tonelli del Cantiere del Muggiano, Oreste Buzzolino delle Officine Bargiacchi, Dora e Elvira Fidolfi dello Jutificio Montecatini. Solo Natali, Pistelli e Dora Fidolfi tornarono vivi dall’inferno di Mauthausen e, per Dora, di un campo vicino a Berlino. Buzzolino, attivo antifascista in fabbrica fin dal 1938-39, catalogato come comunista in alcuni libri di storia, era in realtà un anarchico. In questa rubrica ho spesso ricordato partigiani e deportati comunisti, socialisti, azionisti, cattolici. E’ giusto ricordare anche gli anarchici: come Buzzolino e come Pasquale Binazzi, anche lui scomparso 70 anni fa. Fu una grande personalità: partecipò in prima fila ai moti di Lunigiana del 1894, fondò nel 1901 la prima Borsa del lavoro spezzina, di cui fu segretario, poi fu confinato, quindi protagonista dell’occupazione delle fabbriche nel 1920 e fondatore del settimanale “Il Libertario”, che assunse un rilievo nazionale fino alla sua soppressione nel 1926. Nuovamente confinato, poi sottoposto a libertà vigilata sotto il fascismo, Binazzi, dopo l’8 settembre, a oltre 70 anni, fu tra i più attivi nell’organizzazione di bande partigiane anarchiche tra Liguria e Toscana, ma morì il 5 marzo 1944.
Un’ultima considerazione: gli operai che si formarono nelle lotte clandestine e nella Resistenza in fabbrica e militare divennero poi, dopo la Liberazione, i dirigenti sindacali e politici e gli amministratori pubblici della città e della provincia. Fu una generazione che espresse una classe dirigente di livello: da Anelito Barontini a Otello Giovannelli, da Mario Ragozzini a Rolando Locori, da Artibano Ballani a Flavio Bertone. Il libro del 2004 “Venti lettere per venti anni. Dall’archivio del lavoro spezzino e lunigianese”, a cura di Elisa Baria e Lorenzo Vincenzi, ce ne fornisce una buona documentazione. Fu una classe operaia “di lotta e di governo”, che gestì le fabbriche dopo l’aprile 1945 con i CLN aziendali e i Consigli di Gestione: esperienze che per motivi diversi -soprattutto per le difficoltà frapposte dal mondo imprenditoriale e dalle autorità governative- conobbero un fatale declino, ma che restano come un esempio di protagonismo e assunzione di responsabilità di “governo” da parte dei lavoratori. Anche nei durissimi anni successivi -la guerra fredda, la rottura dell’unità antifascista, la chiusura delle fabbriche, i licenziamenti politici- quello spirito visse nell’esperienza della prosecuzione della produzione e delle Conferenze di produzione nell’Oto Melara occupata dai lavoratori in lotta. Con le mobilitazioni a difesa della cantieristica alla fine degli anni Sessanta si aprì una pagina nuova del movimento dei lavoratori a Spezia, e si affacciò sulla scena una nuova generazione di dirigenti politici operai (si veda, in questa rubrica, “26 novembre 1972, a Spezia si apre una nuova fase politica”, 23 dicembre 2012). Io feci in tempo, in una fase in cui, militando a sinistra, usava “andare a scuola dalla classe operaia”, a conoscere e ad apprezzare Barontini, ma anche Pistelli e Natali sopravvissuti a Mauthausen, e poi il più giovane Bertone e naturalmente la nuova generazione di dirigenti operai degli anni Sessanta e Settanta. Da loro ho imparato il rigore morale, il senso della “missione”, la capacità di ascolto e di dialogo con le energie popolari. Come giovane membro della segreteria provinciale del Pci ebbi l’onore di portare in spalla la bara di Barontini tra le vie di una Sarzana invasa da una folla immensa e addolorata. Era il maggio 1983. Nel 2013, a trent’anni dalla sua morte, nessuno, nemmeno la sua Sarzana di cui fu due volte Sindaco, si è ricordata di lui. E’ il segno dell’assenza di memoria a cui conduce il nuovismo senza radici, una politica subalterna al neoliberismo perché priva di connessioni con la società. Certo, molto è cambiato da quel giorno di maggio. Dagli anni Ottanta il mondo del lavoro è stato frantumato e diviso, ed oggi è molto solo, con scarsa coscienza di sé. I lavoratori dipendenti, precari, autonomi attendono non solo una proposta di rappresentanza dal punto di vista economico ma anche una visione del mondo, una prospettiva di cambiamento e di lotta alle diseguaglianze che riconosca loro un ruolo nella società. E’ questa la questione della sinistra: la sinistra esiste solo se rappresenta il lavoro e non è subalterna all’economia. Il suo problema non è la “governabilità”, cioè le riforme per dare più potere all’uomo solo al comando, ma la capacità di rappresentare il lavoro e di battersi per la sua dignità. Dignità del lavoro e dignità della sinistra si accompagnano: non c’è l’una senza l’altra.

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