Ermanno, i partigiani e gli Alleati
Città della Spezia, 15 aprile 2018
Settantatré anni fa, il 12 aprile 1945, tre partigiani del Battaglione “Zignago” della Colonna “Giustizia e Libertà”, Ermanno Gindoli, Oronzo Chimenti e Alfredo Oldoini trovarono la morte nella curva della Rocchetta, un po’ oltre Borghetto, sulle rive del Vara.
La Liberazione era ormai vicina. Anche nello Spezzino le formazioni partigiane scesero dai monti e si mossero in appoggio all’offensiva alleata. Fin dal 5 aprile il Comando della IV Zona Operativa aveva assegnato a ogni Brigata un settore della Val di Vara e della Val di Magra nel quale ostacolare con ogni mezzo i tedeschi in ritirata verso Genova. Il 6 aprile furono paracadutati presso il Comando di Zona venticinque paracadutisti britannici, che nelle settimane successive collaborarono con i partigiani. La statale Aurelia, la Cisa e la ferrovia Pontremolese furono teatro di continui sabotaggi e attacchi a pattuglie tedesche.
L’11 aprile Ermanno Gindoli, nome di battaglia “Ermanno”, Comandante del Battaglione “Zignago”, rioccupò Brugnato, che era stata persa nel rastrellamento del gennaio 1945 e poi era stata evacuata dai tedeschi, e il 12 aprile attaccò, aiutato anche da un piccolo nucleo del Battaglione garibaldino “Vanni”, la caserma della Guardia Nazionale Repubblicana di Borghetto -l’ultimo presidio fascista in Val di Vara- costringendola alla resa. Dopo un duro scontro, i militi si arresero e 21 di loro furono presi prigionieri.
Subito dopo Gindoli decise di portarsi verso la curva della Rocchetta, per far brillare le mine, già posizionate dai tedeschi, e interrompere così la strada per impedire la loro ritirata. L’esplosione provocò una frana e interruppe la statale, ma i partigiani furono individuati da un’autocolonna tedesca in transito. “Ermanno” e il caposquadra dei sabotatori, Oronzo Chimenti “Miro”, furono subito uccisi. Il Comandante di Compagnia Alfredo Oldoini “Alfredo”, ferito e con una gamba spezzata, si portò sulla sponda opposta, ma, consapevole dell’impossibilità di ogni difesa, si uccise.
Nei giorni successivi l’interruzione stradale fu presidiata dai partigiani e l’Aurelia, unica via di comunicazione tra La Spezia e Genova, rimase preclusa ai tedeschi fino alla Liberazione.
“ALLA RICERCA DEL PARTIGIANO PERDUTO”
La vicenda di Ermanno è stata raccontata in un bel libro del 2008, “Alla ricerca del partigiano perduto” di Clara D’Oggiono. L’autrice è una romanziera e non una storica. All’inizio cercava una vecchia foto di un partigiano con il cavallo bianco di cui le aveva parlato la zia, che un po’ se ne era innamorata. A poco a poco questo partigiano “perduto” viene scoperto e ritrovato nel libro, con un lavoro di ricostruzione storica basato sulle ricerche degli storici e sulle testimonianze, in primo luogo quelle della sorella di Ermanno, Ada, e di suo marito Alberto, anche lui partigiano.
Gindoli nacque a San Benedetto di Riccò del Golfo nel 1919. La famiglia venne lasciata dal padre che emigrò in America e non si fece vivo per moltissimi anni, ritornando solo nel dopoguerra. Ermanno studiò alla scuola elementare di San Benedetto, quindi nel Collegio di padre Semeria a Monterosso, dove si diplomò maestro. Scelse poi la carriera militare nell’Esercito. L’8 settembre 1943 si trovava a Rieti, dove fu fatto prigioniero dai tedeschi e collocato su un treno per essere portato in Germania. Riuscì fortunosamente a fuggire e tornò alla Spezia.
Ada racconta i contatti di Ermanno con elementi di “Giustizia e Libertà”, in modo particolare Alberto Paganini, appartenente a una famiglia spezzina antifascista che aveva una casa per l’estate a San Benedetto. Nella zona, a Riccò, operava un altro partigiano giellista, Vero Del Carpio. Ermanno salì ai monti nel marzo 1944, a Valditermine di Zeri. ”Una volta -racconta Ada- Amelio Guerrieri mi ha detto: ‘Ermanno arrivò alla grande, portandosi dietro altri quaranta giovani, armi e sette muli’”.
Alberto Paganini fu poi scoperto nel maggio 1944, e si rifugiò a Rossano di Zeri. La sua famiglia fu colpita in modo terribile: il fratello Alfredo fu arrestato e ucciso nel campo di concentramento di Flossenburg; la madre Amelia e le sorelle Bianca e Bice furono deportate nel campo di Ravenbruck, dove Amelia morì e Bianca e Bice riuscirono a sopravvivere all’orrore (si veda, in questa rubrica, “La dolcezza e la serenità di Bianca”, 10 marzo 2013).
Quando, nel mese di agosto, la Colonna “Giustizia e Libertà” si articolò in 6 Compagnie, Gindoli assunse il comando della VI Compagnia a Montelama di Rossano. Piera Malachina, di Montelama, nel libro mio e di Maria Cristina Mirabello “Sebben che siamo donne. Resistenza al femminile in IV Zona Operativa, tra La Spezia e Lunigiana”, racconta che Ermanno e altri due partigiani dormivano a casa di sua sorella Fede.
Ermanno combatté, distinguendosi, nel rastrellamento dell’agosto 1944. Nell’ottobre gli fu assegnato il comando del Battaglione “Zignago”. Così lo descrive il cognato Alberto, mentre i partigiani, a fine dicembre 1944, sono in attesa di un lancio degli Alleati in un campo sopra il paese bruciato di Chiesa di Rossano: “Noi ci lamentavamo per il freddo e l’immobilità dell’attesa… lui tirava fuori il suo clarinetto e per farci stare allegri si metteva a suonare e a fare il buffone, finché non ci vedeva un po’ rianimati!”.
Durante il rastrellamento del 20 gennaio 1945 il Battaglione “Zignago” si rifugiò sotto il monte Picchiara, sganciandosi poi verso il basso e portandosi nella zona di Polverara. Ecco il racconto di Alberto:
“Resistemmo un intero giorno al combattimento, poi ci rifugiammo sotto il Picchiara, in un canalone dove restammo quattro giorni e quattro notti senza mangiare, bevendo la neve. Alcuni degli uomini cominciarono a presentare i primi sintomi di congelamento. Erano dolorosi, si lamentavano. Per la prima volta vidi lacrime silenziose scendere dagli occhi di Ermanno. Capimmo tutta la sua preoccupazione, la tensione sopportata, il dolore per la sofferenza dei suoi uomini. Suo cugino Sergio lo scosse con dolcezza: ‘Se piangi tu, cosa dovrebbero fare gli altri?’ gli disse preoccupato. Ermanno si passò le mani sul volto, parve riflettere poi ci radunò e ci disse che non potevamo restare più lì, dovevamo scendere in basso, verso il Vara o saremmo morti assiderati. Ci mettemmo in marcia riattivando la circolazione, ma ben presto incappammo in una postazione di tedeschi che stavano bivaccando. Attendemmo la notte stando sdraiati sulla neve, poi riprendemmo a camminare in fila indiana. Eravamo quasi arrivati al Vara quando ci accorgemmo che Ermanno era sparito. Preoccupati tornammo indietro a cercarlo. Lo trovammo addormentato in mezzo al sentiero. Lo svegliammo, si passò una manciata di neve sul viso, riprendemmo la marcia. Quando giungemmo al fiume, altro problema: Ermanno portava i suoi alti e complicatissimi stivali. Se li avesse tolti, tra stringhe e lacci, sarebbe stato poi troppo lungo rimetterli, se fosse entrato nell’acqua questa sarebbe penetrata e gelata all’interno. Risolsi io il problema: me lo caricai sulle spalle e attraversammo il fiume”.
IL DOLORE E IL CANTO
Il 19 aprile 1945 il Comandante della Colonna “Giustizia e Libertà”, Stefano Colombo “Carli”, comunica che il II Battaglione della Colonna si chiamerà “Gindoli” e che la VI Compagnia prenderà il nome di Alfredo Oldoini. Il dolore fu incontenibile. Anche se la vittoria di aprile era ormai vicina. Nel momento in cui la VI Compagnia si mise in marcia per andare a liberare la città, il canto dei partigiani riferiva al nome dei caduti l’attesa della prossima definitiva avventura:
E’ la Compagnia d’Alfredo
è d’Ermanno il Battaglion
è Miro che comanda
si va giù si va giù si va giù.
Un cippo è dedicato a Gindoli, Oldoini e Chimenti alla curva della Rocchetta. Nel cippo è ricordato anche un partigiano diciottenne, Colombo Zavarone, che, mentre non si avevano più notizie di Ermanno e del suo gruppo, era andato a cercarli. Ferito gravemente dai tedeschi, fu trasportato via dai suoi compagni e morì qualche giorno dopo.
La vicenda di Ermanno e dei suoi compagni simboleggia, nella sua drammaticità, quale sia stato il sacrificio dei partigiani per logorare e colpire i tedeschi e i fascisti, per ostacolare la loro fuga e per supportare l’arrivo degli Alleati. Ogni tentativo di sminuire il ruolo dei partigiani e di evidenziare il solo protagonismo degli Alleati è un falso storico, ed è anche un grave errore politico.
L’INSURREZIONE: COME FU LIBERATA SPEZIA
L’assessore Paolo Asti, su questo giornale, nella conferenza stampa di presentazione dell’iniziativa della “Colonna della Libertà”, ha dichiarato: “Partiamo da un fatto storico: il 25 aprile del 1945 gli alleati insieme ai partigiani scesero dalla Foce verso la città, arrivati in Via Chiodo puntarono verso il Palazzo di governo sancendo la fine della guerra.” (“Città della Spezia”, 10 aprile 2018). Capisco che in una conferenza stampa sia arduo cimentarsi con date, direzioni e così via. Molto meglio affidarsi alle ricerche storiche.
I fatti furono questi:
1)Il 22 aprile pomeriggio il Comando della IV Zona diede ordine di avviare l’operazione di occupazione di Spezia;
2)Il 23 aprile tedeschi e fascisti lasciarono Spezia verso Aulla e la Cisa e i partigiani delle SAP (Squadre Azione Patriottica) presero possesso degli edifici principali;
3)Sempre il 23 aprile i partigiani, mentre scendevano in città dalla Val di Vara, combatterono con un nucleo di retroguardia tedesco a San Benedetto; la battaglia proseguì fino alla sera del 24 aprile, quando arrivarono a combattere anche reparti della 92a Divisione Buffalo già transitata alla Spezia e diretta verso Genova;
4)il 24 aprile entrarono nella città già liberata, senza sparare un colpo, i primi reparti americani, insieme a una Brigata partigiana. Si trattò, come ho scritto nel mio libro “Eppur bisogna ardir”, della “Compagnia Arditi” comandata da Franco Coni, che disobbedì al Comando della IV Zona. Ecco la testimonianza inedita di Giovanbattista Acerbi “Tino”, che fu sempre partigiano al fianco di Coni:
“Il 24 disobbedimmo agli ordini del Comando e scendemmo a Riomaggiore. La gente ci festeggiò, bevemmo lo sciacchetrà e qualcuno di noi era anche un po’ brillo. Giungemmo a Spezia passando ai due lati della galleria ferroviaria, che era allagata. Arrivammo in città, all’inizio la gente non capiva, poi ci riconobbe e applaudì. All’incrocio di via Chiodo con corso Cavour incrociammo una camionetta con a bordo soldati di colore della Divisione Buffalo. Subito ci fu un momento di imbarazzo. Poi uno di noi sparò con il mitra a un’insegna del Fascio in via Chiodo, gli americani capirono, fraternizzammo e ci portarono in Prefettura, dove Franco abbracciò Gordon Lett (l’ufficiale britannico Comandante del “Battaglione Internazionale”, NdR). La zona era piena di camionette e di soldati neri. Il giorno dopo arrivarono i partigiani dopo la battaglia di San Benedetto. Il Comandante della IV Zona Fontana rimproverò Franco e ci impedì di sfilare, ci mettemmo ai lati ad applaudire insieme a tanta gente”.
Un “combat film” del 24 aprile testimonia l’arrivo degli americani e la presenza di un gruppo partigiano, appunto la “Compagnia Arditi”.
5)Il 25 aprile il grosso dei reparti partigiani entrò in città: mancava, oltre alla “Compagnia Arditi”, anche il Battaglione “Gindoli” -al comando di Amelio Guerrieri “Amelio”, che aveva sostituito Ermanno- perché, dopo aver combattuto a Montalbano, era stato dirottato in piazza Brin a contrastare la residua presenza di franchi tiratori fascisti. Il CLN si insediò in Prefettura, con il consenso degli Alleati. Pietro Mario Beghi, segretario del CLN provinciale, assunse la carica di Prefetto. Può darsi che qualche soldato alleato che aveva combattuto a San Benedetto sia poi sceso a Spezia dalla Foce; ma è strano, perché la loro direzione, in quel momento, era Genova.
Il CLN provinciale fece affiggere sui muri della città il proclama che così concludeva: “Spezzini, La Spezia è stata la città d’Italia più vessata dalla sanguinosa oppressione del fascismo, ma appunto per questo è necessario dimostrare subito la vostra civiltà nei confronti della bestialità fascista… L’ora della liberazione è pure l’ora della epurazione e della ricostruzione: l’ora del pensiero che si fa azione. Sia questa azione ispirata unicamente al bene della città e della patria nella visione di una superiore solidarietà”.
LA DOMANDA CHIAVE
La domanda chiave è questa: e se la guerra si fosse conclusa esclusivamente con la conquista da parte degli eserciti degli Alleati? Se le autorità militari anglo-americane non avessero avuto a che fare con i partigiani, con i CLN e con i rinati partiti politici che ai CLN avevano dato vita?
Così risponde Gustavo Zagrebelsky, già Presidente della Corte Costituzionale:
“La sconfitta del III Reich e della Repubblica di Salò non fu certo determinata soltanto, e nemmeno prevalentemente, dalle forze della resistenza interna. Ma, se questa non ci fosse stata, la parola adatta a descrivere la situazione del nostro Paese sarebbe “debellatio”, annichilimento. Gli Alleati trovarono un popolo dove si lottava per la propria identità, oltre che per il proprio onore e il proprio futuro. Molto diversa l’Italia dalla Germania, per quanto entrambe sconfitte. Gli storici discutono delle dimensioni della Resistenza, tra resistenza attiva con le armi in pugno, resistenza passiva, aiuto e sostegno diffuso, fiancheggiatori più o meno esposti. In ogni caso, quella Resistenza che in Italia ci fu e in Germania non ci fu, permise al nostro Paese di salvaguardare la propria autonomia, di sedere nel contesto internazionale tra le nazioni libere e di ricominciare a prendere nelle nostre mani l’opera della ricostruzione. Il primo passo fu l’Assemblea Costituente, il primo Parlamento democratico del nostro Paese, eletto a suffragio universale, uomini e donne; il primo frutto fu la Costituzione”.
Per le forze antifasciste fu sempre molto chiaro l’obbiettivo politico. Lo spiegò molto bene Anelito Barontini, che nel 1944 era segretario provinciale del Pci, nel 1974, al convegno sul grande sciopero operaio del marzo 1944: Hitler era stato sconfitto dai sovietici a Stalingrado, gli anglo-americani erano sbarcati nel sud, “si poneva con urgenza la necessità politica di un intervento della classe operaia e dei lavoratori italiani anche per evitare al Paese il pericolo di un processo, da parte degli Alleati, di semicolonizzazione. Pertanto era necessario e doveroso che il popolo italiano, nel suo stesso interesse, facesse sentire la sua volontà di lotta e il contributo della sua forza nella battaglia per riconquistare la libertà e l’indipendenza nazionale: condizione indispensabile per l’avvenire del Paese e per la stessa unità nazionale”. Fu questa impostazione, questa lotta, a vincere. Ed è proprio grazie a questa impostazione e a questa lotta che alla Conferenza di Pace dell’agosto del 1946 a Parigi il Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi poté rivolgersi al mondo appena uscito dalla guerra tutelando la dignità degli italiani, nonostante l’alleanza dei fascisti con i nazisti: perché parlava a nome di tutti gli antifascisti che avevano ridato all’Italia l’onore perduto.
Post scriptum:
Sul complesso delle vicende della Colonna “Giustizia e Libertà” rimando alla mia relazione in occasione del centenario del Comandante Daniele Bucchioni su “La Colonna ‘Giustizia e Libertà’”, leggibile su www.associazioneculturalemediterraneo.com
Dedico l’articolo di oggi ad Aldo Giacché, già Sindaco della Spezia e senatore della Repubblica, che ieri ha compiuto novant’anni. E’ stato un costruttore della nostra democrazia e della crescita e del cambiamento della città. Lo testimonia l’articolo di questa rubrica “Novembre 1972: a Spezia si apre una nuova fase politica” (23 dicembre 2012). Auguri Aldo!
lucidellacitta2011@gmail.com
Popularity: 7%