Economia e pandemia, la sfida che non va perduta
Città della Spezia, 25 ottobre 2020 – La pandemia, come tutte le grandi crisi, è un’occasione di cambiamento, che possiamo subire o governare. E’ una sfida per ogni territorio, per ogni Paese, per l’Unione europea. Il ruolo dell’Unione europea è decisivo: non possiamo pensare di sconfiggere la pandemia, e la povertà provocata dalla pandemia, soltanto a livello territoriale o nazionale. Ma come sta l’Unione europea? il discorso sullo Stato dell’Unione della Presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, pronunciato nei giorni scorsi, è stato un passo che fa ben sperare: perché ha cercato di dare una sostanza politica agli aiuti straordinari previsti con il Next Generation Eu, disegnando la visione di un’Europa verde, digitale, solidale, leader nel mondo nel campo dei diritti perché consapevole di essere patria dei diritti. Ora alle parole devono seguire i fatti: ma la strada del cambiamento è stata imboccata. L’altra novità è che a Bruxelles si sta pensando di rendere permanente Il Next Generation Eu, dopo la sua scadenza nel 2025. Ciò vorrebbe dire che le ricette economiche dell’Unione cambierebbero per sempre. Insomma, rispetto solo a qualche mese fa la svolta è radicale.
All’inizio della pandemia -lo ricordate?- abbiamo visto l’Europa che ci indigna, quella priva di ogni pensiero di solidarietà. Poi, quando ormai il sogno europeo sembrava dissolto, per la prima volta dopo decenni il vecchio continente è tornato ad essere l’esempio di un tessuto civile coeso, nuovamente capace di dare un messaggio all’insegna del “comune stare insieme”. La Germania ha mutato atteggiamento e lo ha fatto anche per convenienza, non solo per partecipazione al dramma dell’Europa del Sud. Ma ormai il dado è tratto: l’Unione europea ha cominciato ad agire come uno Stato, con il potere di fare debito per finanziare una missione comune e creare risorse proprie per finanziare quel debito. E’ un messaggio che, nei mesi scorsi, Giuseppe Conte ha fatto suo, trovando in questo modo un consenso ben oltre le appartenenze di partito.
Ora il Paese ha davanti la prova ardua non tanto di spendere i 209 miliardi disponibili (più i 40 dei fondi di coesione), quanto di spenderli sulla base di una visione. La questione -ha sostenuto Enrico Giovannini, portavoce dell’ASviS (Alleanza italiana per lo Sviluppo Sostenibile)- è “la coerenza delle politiche”. Qualche settimana fa 17 associazioni giovanili hanno scritto a Conte e ai giovani italiani, sostenendo che “è il tempo di pensare, di disegnare il futuro che vogliamo, di agire”. Non di spendere purchessia. Le risorse europee non vanno disgiunte -ecco un altro punto importante- da quelle della spesa pubblica generale: tutte hanno un obbligo di coerenza rispetto alle “condizionalità” dell’Unione europea, che esistono davvero e fanno riferimento a due assi, il Green New Deal e la rivoluzione digitale. Nient’altro. L’esempio di Giovannini è quello di un ponte: va costruito non per i Tir ma per i treni, e per mezzi a guida automatica. Ogni progetto va cioè testato prima, sulla base delle nuove “categorie” del pensiero europeo.
Il problema è lo scarto tra la direzione verso lo sviluppo sostenibile, in cui va l’economia europea, e tanta retorica italiana, per cui basta spendere a prescindere dagli impatti su ambiente e natura. Se ha un senso parlare di un nuovo ruolo dello Stato è proprio in riferimento alla capacità di ideazione e di progetto per la creazione di lavoro entro un nuovo modello di sviluppo, che dia la priorità alla riconversione ecologica, alla digitalizzazione, ai consumi collettivi, ai bisogni sociali insoddisfatti, alla lotta alle diseguaglianze. Una sfida -la cui urgenza era già evidente prima del Covid-19- che deve indicare il nuovo lavoro che lo sviluppo sostenibile prevederà: non solo con lo sviluppo delle energie rinnovabili e con quello dell’eco-mobilità, per far diventare tutte le automobili a emissioni zero, ma anche con l’adozione dell’economia circolare, che implica il passaggio da un’economia basata sulla produzione a un’economia in cui si riduce la produzione e aumenta la manutenzione di prodotti che non diventano subito obsoleti ma vanno invece riparati, senza che vengano a costare più di quelli nuovi.
Non si tratta quindi di riportare la situazione al febbraio 2020. L’idea è sbagliata due volte: in primo luogo perché già a febbraio c’erano tante persone che, economicamente, non stavano bene; in secondo luogo perché indietro non si torna, nemmeno volendolo. Il cambiamento, come dicevo all’inizio, ci sarà comunque. Spetta a noi decidere in quale direzione. Alle spalle di questa sfida non abbiamo un vuoto di pensiero, ci sono -ha spiegato Pierfranco Pellizzetti su “Micromega”- “gli insegnamenti di una serie di esperienze novecentesche che andrebbero considerate non alla stregua di singoli episodi quanto -piuttosto- la sequenza teorico-pratica costitutiva di un vero e proprio paradigma, fondato su un’idea diversa di riformismo; attraverso il fertile mixaggio di programmazione e civismo”. A partire dall’esperienza riformista più significativa: il New Deal dell’America degli anni Trenta, voluto e guidato dal Presidente Franklin Delano Roosevelt. Sulla scia di questi insegnamenti serve un Piano strategico nazionale, espressione di una chiara visione del futuro del Paese, come hanno fatto da tempo alcuni grandi Paesi europei. Così come servono analoghi Piani regionali e locali. Tutti costruiti con un metodo partecipativo ed inclusivo che coinvolga le migliori energie della società. Come si era cominciato a fare con gli Stati Generali, che dovevano proseguire con un’azione costante di confronto e non restare uno spot. Non possiamo presentare in Europa progetti a casaccio e incoerenti sia rispetto a una nostra strategia sia rispetto alle “condizionalità” dell’Unione, svuotando i cassetti di Ministeri, Regioni, Comuni, associazioni di categoria e tirando fuori tutto quello che è stato pensato, o abborracciato, in questi anni. No, bisogna scegliere. Vale per Conte, per i Presidenti di Regione, per i Sindaci.
Infine una considerazione più strettamente politica. Le difficoltà della sfida -unite a quelle di una pandemia che sta tornando in modo aggressivo in un autunno di nuovo gravemente infettato- suggeriscono periodicamente ad alcuni una nuova leadership e un governo di unità nazionale. Ma non serve un salvatore della patria, né una politica senza radici e senza memoria, che faccia saltare i confini tra destra e sinistra. Serve semmai una politica molto più robusta, con idee forti e identità radicate nel Paese e ancorate alla nuova Europa che sta nascendo, a destra come a sinistra. Destra e sinistra, dopo le elezioni regionali, stanno faticosamente cominciando a ridefinire se stesse: è questo il tentativo che va incoraggiato, non un asfittico e senza futuro “embrassons-nous”, magari affidato a qualche tecnocrate. L’esperienza di Mario Monti dovrebbe scoraggiare un bis. Così come non serve un posto al tavolo di comando per tutti, ma un patto tra maggioranza e opposizione, che devono restare distinte e collaborare di fronte allo stato di eccezione. Il Governo faccia la sua parte, coinvolgendo Regioni e Comuni e, come aveva cominciato a fare con gli Stati Generali, le forze sociali e la società civile. Così il Parlamento, che deve essere la sede alta del patto tra maggioranza e opposizione.
Next Generation Eu è una sfida storica per rilanciare il Paese, per la giustizia sociale e ambientale e per le generazioni future, da cui stiamo prendendo a prestito, facendo debito, le risorse. La sfida non va assolutamente perduta.
Post scriptum
Le foto di oggi sono della chiesa abbandonata di Santa Giustina a Cesena (Varese Ligure) e della statua di Domenico Gagini “Madonna col bambino”, nella chiesa parrocchiale di San Pietro Vara (Varese Ligure). Mi sono soffermato sulla “Madonna col bambino” in questo giornale nell’articolo della rubrica “Diario dalle Terre Alte” intitolato “I due tesori di San Pietro” (30 agosto 2020).
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