Presentazione di “Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista” di Dino Grassi, Venerdì 29 novembre ore 16.30 a Pontremoli
24 Novembre 2024 – 21:44

Presentazione di
“Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista” di Dino Grassi
Venerdì 29 novembre ore 16.30
Pontremoli – Centro ricreativo comunale
Il libro di Dino Grassi “Io sono un operaio. Memoria di un maestro …

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Cinquant’anni dopo, la guerra senza fine

a cura di in data 26 Agosto 2017 – 08:48
Gerusalemme, bambini ebrei    (2005)    (foto Giorgio Pagano)

Gerusalemme, bambini ebrei
(2005) (foto Giorgio Pagano)

Città della Spezia, 20 agosto 2017 – Dopo una campagna forsennata contro le Ong le loro navi si sono in gran parte ritirate dal Mediterraneo. I libici, a cui l’Italia garantisce denaro, armi e mezzi navali, stanno facendo il “lavoro sporco” per noi e per un’Europa indifferente. Il “lavoro sporco” consiste nel respingere i migranti verso l’Africa profonda e internarli nei campi, di cui Domenico Quirico ha descritto l’orrore su “La Stampa” dei giorni scorsi. Molti di loro partiranno lo stesso, ma senza le navi delle Ong a salvarli moriranno di fame o di sete nel cimitero del Mediterraneo. Non li salverà di certo la Guardia Costiera libica, che come risulta da rapporti indipendenti e dalla Corte penale internazionale, è collusa con i trafficanti: nella città di Zawyyail capo dei trafficanti è diventato il nuovo comandante della Guardia Costiera della città.Altri migranti che non riusciranno ad arrivare sulla costa moriranno nel deserto o nei campi della Libia. Eppure la campagna mediatica è riuscita a colpevolizzare le Ong che salvavano vite, mentre la diplomazia italiana si accordava con i trafficanti con la divisa della Marina libica. “Per riparare a questi sei mesi di menzogne ci vorranno purtroppo dieci anni”, ha scritto Roberto Saviano: di educazione, di cultura, di racconto nelle scuole su che cosa è stato fatto all’Africa, su che cosa sono oggi l’Africa e il Medio Oriente. Saviano ha ragione. Nel suo piccolo l’Associazione Culturale Mediterraneo cerca di farlo da anni. Ed è questo l’obbiettivo del mio giro di presentazioni del libro “Sao Tomé e Principe – Diario do centro do mundo”.Ecco perchédedico l’articolo di oggi, e quello di domenica prossima,alla Palestina, a cinquant’anni dalla “Guerra dei sei giorni”. Naturalmente nei miei articoli non c’è “la” verità, ma solo “la mia” verità. Che il lettore potrà confrontare con le opinioni di altri. E’ necessario pensare criticamente, essere pronti a cambiare idea, confrontarsi nel merito. Bisogna smetterla, però, con le menzogne. Aggiungo che parlare di Africa o di Palestina non significa non parlare della nostra città, anzi. Il futuro “loro” e “nostro” è sempre più connesso, e la cooperazione e il partenariato sono per noi non solo un dono ma anche un investimento, un’opportunità. Spezia ha colpevolmente abbandonato i progetti che la coinvolgevano a Jenin in Palestina, e in alcuni Comuni del Niger. E’ il momento di tornare ad alzare lo sguardo: “per uscire dalla nostra crisi bisogna uscire”, come ricorda sempre Januaforum, l’associazione dei cooperanti liguri.

GIUGNO 1967: I SEI GIORNI CHE CAMBIARONO IL MEDIO ORIENTE E IL MONDO INTERO
Per capire il 1967 bisogna fare un passo indietro. Nel 1947 l’Onu decise la spartizione della Palestina, che era sotto il mandato degli inglesi, in due Stati, uno arabo e uno ebraico, con Gerusalemme come città internazionale. Gli ebrei, sterminati dai nazisti per un terzo del loro popolo, dove potevano andare, se non in Palestina? Ma in Palestina c’erano i palestinesi. Circa 700.000 di loro, la maggioranza, furono obbligati a lasciare le loro case, le loro proprietà, i loro villaggi e le terre che erano state loro per secoli. Per i palestinesi fu la Naqba, la catastrofe. Una vera e propria pulizia etnica: non rimase neanche una comunità araba tra Jaffa e Gaza, più di 400 villaggi e cittadine furono spazzati via dalla faccia della terra. Nacque Israele, con l’appoggio di Usa e Urss.
Nel maggio del 1967 il Presidente egiziano Nasser spedì soldati nella penisola del Sinai e chiuse l’accesso via mare a Eilat, nel sud di Israele. I soldati, armati con vecchi fucili abbandonati dagli inglesi nel ’48, erano i profughi di vent’anni prima: molti avevano al collo le chiavi arrugginite delle loro vecchie case, che non esistevano più. La mattina del 5 giugno scoppiò la guerra. Una guerra già perduta dagli arabi nei primi minuti. Non un solo aereo egiziano riuscì ad alzarsi in volo, e non un solo carro armato avanzò di un solo metro. I palestinesi si difesero con coraggio a Gaza, ma non a lungo. L’Egitto perse il Sinai e il suo Presidente, simbolo del nazionalismo panarabo, mai più riuscì a recuperare il suo prestigio. La Siria uscì dalla guerra mutilata dalle alture del Golan. La Giordania dovette rinunciare alla sponda occidentale del fiume Giordano, alle sue città, da Hebron a Betlemme e alla parte Est di Gerusalemme.
Israele fu travolto da un’ondata di euforia: in sei giorni il territorio sotto controllo dello Stato ebraico era triplicato.I morti israeliani erano stati 750, quelli arabi 20.000. Cinquant’anni fa stava finendo la storia di un piccolo Paese socialista, un po’ povero, che godeva delle simpatie delle sinistre europee, e cominciava la storia di uno Stato che domina su un altro popolo. La “Guerra dei sei giorni” mutò il sionismo socialista e laico, lo rilanciò in una versione impregnata di sentimento religioso ultraortodosso. Per il teologo ebreo YeshayahuLeibowitz la “Guerra dei sei giorni” “è stata una catastrofe storica per lo Stato di Israele”, perché accese il progetto biblico del Grande Israele, cioè il fondamentalismo religiosoche propone la repressione del popolo palestinese.

Gerusalemme, bambini palestinesi    (2005)    (foto Giorgio Pagano)

Gerusalemme, bambini palestinesi
(2005) (foto Giorgio Pagano)

IL RISCHIO DRAMMATICO DI UN CONFLITTO DEFINITIVAMENTE RELIGIOSO
La disfatta araba diede vita alla guerriglia dei palestinesi, le cui organizzazioni crebbero di peso rispetto a quello degli Stati arabi. Il 22 novembre 1967 il Consiglio di Sicurezza dell’Onu approvò la risoluzione 242 come base per i futuri negoziati di pace. Il documento prevedeva la restituzione dei territori conquistati da Israele nella guerra e “una pace giusta e durevole grazie alla quale ogni Stato dell’area possa vivere in sicurezza”. Oltre “a una giusta soluzione del problema dei profughi”. La risoluzione rimase inascoltata e Yasser Arafat, promosso leader arabo dalle rovine arabe del ’67, occupò la scena mediorientale per anni. I palestinesi subirono nuove violenze anche da parte araba, dalla Giordania e dalla Siria.
Oggi possiamo dire che il conflitto tra israeliani e palestinesi rischia di essere senza fine. E’ cresciuta l’intransigenza nella società israeliana: le spinte colonizzatrici, che puntano a un’annessione definitiva dei territori occupati nel ’67, sono sempre più forti. Il numero dei coloni supera oggi quello degli espulsi nel ’48. Come dice il grande scrittore israeliano Amos Ozla “religione militarista” emersa nel ’67 e “cinquant’anni di occupazione hanno tirato fuori dalle persone il peggio: odio, razzismo, disprezzo, brutalità”.Nel 1995 il premier israeliano Rabin, che aveva raggiunto un accordo di pace, sia pure incompleto, con Arafat, fu assassinato da un fondamentalista ebreo: fu l’inizio della fine.Oggi, dice l’altro grande scrittore dell’”altro Israele”, David Grossman,“si è passati dall’idea di appartenere a uno Stato democratico, basato sulla legge, a quella di appartenere a uno Stato basato sulla religione”. Anche nella laica Palestina è cresciuto l’integralismo religioso, in questo caso islamico.Non c’è solo Hamas. Nei giorni scorsi Hamas ha rivelato che un kamikaze si è fatto esplodere mentre le forze di sicurezza stavano cercando di impedirgli di infiltrarsi in Egitto, e che l’assalitore è ritenuto un militante dell’Isis. Una rabbia storica inespressa rischia di essere alla mercé del radicalismo religioso jihadista.
Si riuscirà a evitare che il conflitto israelo-palestinese diventi definitivamente e totalmente religioso? La grande scommessa è questa. Può essere vinta solo se in Israele e in Palestina prevalgono le forze non fondamentaliste, e se la comunità internazionale le sostiene. Auguriamoci dunque che Trump non riconosca come parte di Israele tutta Gerusalemme, inclusa la zona araba (Est) occupata nel ’67, come gli chiede il Governo israeliano: il cuore della Gerusalemme araba è la Moschea di el-Aqsa, terzo luogo sacro dell’Islam. Se il conflitto è nazionale e politico una soluzione si può forse trovare. Se il conflitto fosse solo religioso non ci sarebbero soluzioni possibili.

Post scriptum
Sul conflitto israelo-palestinese si vedano, in questa rubrica:
Ottanta giovani musicisti e il loro sogno sempre più lontano (9 agosto 2012)
La Spezia resti umana (27 settembre 2012)
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