Presentazione di “Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista” di Dino Grassi, Venerdì 22 novembre ore 17 al Palazzo Ducale di Massa
14 Novembre 2024 – 21:22

Presentazione di
“Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista” di Dino Grassi
Venerdì 22 novembre ore 17 al Palazzo Ducale di Massa
Massa, Palazzo Ducale – Sala della Resistenza
Il libro di Dino Grassi “Io …

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Che cosa rimane della Shoah

a cura di in data 28 Giugno 2023 – 21:27

Berlino, Memoriale per gli ebrei assassinati d’Europa
(2005) (foto Giorgio Pagano)

Città della Spezia 5 febbraio 2023

“IL SENSO DI HITLER”
Liliana Segre ha scritto che “il Giorno della Memoria è inflazionato, la gente è stufa di sentire parlare degli ebrei”. Altri si sono domandati qual è il destino della memoria della Shoah ora che i testimoni sopravvissuti sono quasi tutti scomparsi. Davvero la memoria si sta offuscando, e la storia della Shoah sta diventando una storia come tante altre del passato, magari pure noiosa? Le esperienze che ho fatto nei giorni scorsi mi dicono che non è così: che la Shoah sconvolge e fa riflettere ancora, che nuovi percorsi memoriali sono possibili, che non è detto che il ricordo si affievolisca e che l’Olocausto diventi una storia tra tante.
Al Circolo Arci del Canaletto ho visto e presentato il docu-film di Petra Epperlein e Michael Tucker “Il senso di Hitler”. Una visione che consiglio a tutti, in modo particolare nelle scuole.
Il docu-film è molto utile per capire il fascino che Hitler ebbe nella Germania degli anni Trenta del secolo scorso, e in parte ancora oggi in fasce di fanatici.
Hitler ha voluto il caos, l’ha alimentato, per poter poi assumere l’incarico di governarlo come padrone assoluto, come “salvatore”. Cercando un nemico da additare alle masse: gli ebrei, le razze non ariane, i bolscevichi.
“Il senso di Hitler” ci invita a intrecciare il ricordo della Shoah con la comprensione delle dinamiche storiche che hanno condotto alla Shoah: l’ideologia e l’organizzazione del potere nazista, le scelte di sterminio nel corso della Seconda guerra mondiale. Non ci può essere memoria di qualcosa che non si conosce che per sommi capi. Prima poteva bastare il testimone, che suscitava emozione ma faceva anche conoscere. Oggi dobbiamo conoscere, senza perdere la passione di chi ci ha finora tramandato e trasmesso questa memoria. Ci serve la storia, e usare filmati, video, fotografie.
Hitler sale al potere perché c’è la miseria; perché ci sono la mancanza di coraggio e il fallimento politico delle forze socialdemocratiche, comuniste e liberali; perché si presenta come il “salvatore” che dà lavoro e pane e promette la rinascita della Germania e una vita migliore.
La miseria c’era davvero. Kathe Kollowitz, la pittrice della Germania proletaria, la domenica di Pasqua del 1932 parlava, nel suo diario, della “indicibile difficoltà della situazione generale. La miseria generale. La gente che sta sprofondando nell’angoscia più nera. La disgustosa sobillazione politica”. Avrebbe potuto aggiungere: la paura della proletarizzazione nutrita dai ceti medi, la paura della fame che attanagliava il ceto operaio, la perdita di fiducia da parte di tutti nelle classi dirigenti della Germania…
Tuttavia il disastro non era inevitabile. Lo divenne perché gli altri partiti si dimostrarono impotenti. Nulla avevano imparato dall’esempio italiano di dieci anni prima. E fu così che i nazisti furono i grandi beneficiari della crisi della Repubblica di Weimar.
Ci fu anche una responsabilità degli intellettuali. Chi come me si è formato negli anni Settanta ha studiato i grandi intellettuali tedeschi della Repubblica di Weimar, da Mann a Marcuse, da Lukács a Korsch… Ma tutti loro non ebbero neppure un vago sospetto degli orrori del regime nazista che stavano approssimandosi di giorno in giorno. Li previde un tipo bizzarro come George Grosz, l’artista espressionista che nessuno prendeva sul serio. In una conversazione con Thomas Mann, Grosz predisse infatti che Hitler sarebbe durato non sei mesi ma sei anni, o anche dieci. Non a caso Grosz fu il primo, nel 1933, ad essere privato della cittadinanza tedesca.
Non si capì l’importanza della comunicazione: tutto cambiò grazie al successo di Hitler come oratore, suscitatore e interprete-incanalatore di emozioni. “Non devi preoccuparti, non devi più pensare”, questo fu il messaggio che passò. “Il senso di Hitler” ci fa capire l’importanza della tecnologia – il microfono, gli altoparlanti – per moltiplicare la trasmissione emotiva del messaggio del Fuhrer. Il film “Il trionfo della volontà” catturò ed entusiasmò i tedeschi. Così come il fotografo Heinrich Hoffman ebbe un ruolo decisivo nell’ascesa di Hitler.
Emerse già allora il nesso politica-comunicazione. Era l’epoca dei comizi e delle parate, poi venne quella della Tv, poi quella di internet. La comunicazione ha sempre influito tantissimo sulla politica.
Il docu-film dà spazio anche alla figura agghiacciante di David Irving, il negazionista per antonomasia, e indica la risposta per sbugiardare il negazionismo: “ci difendiamo con la storia”. Dai documenti redatti dagli stessi carnefici alle tracce che vediamo disposte nelle sale di Auschwitz, tutto è documentato e descritto.
Dopo i testimoni non ci rimane che la storia. Dobbiamo far parlare le immagini, ma non basta: il loro significato si trasmette anche attraverso la mediazione delle parole, della riflessione. Le immagini sono il punto di partenza per pensare. Memoria riprodotta e storia devono procedere affiancate.

CONTRO CHI NEGA E CONTRO CHI EDULCORA
Dobbiamo combattere la minaccia di chi nega la Shoah ma anche di chi edulcora quel che è successo.
Come fa l’estrema destra.
Nella Polonia e nelle Repubbliche Baltiche ha preso corpo la tendenza a equiparare le sofferenze delle deportazioni degli ebrei alle crudeltà naziste e poi sovietiche subite dalle popolazioni locali. Ma così si mettono sullo stesso piano drammi di portata diversa, si perde il senso dell’unicità della Shoah, del suo essere un evento senza precedenti. E si nasconde la storia di collusione dei cittadini che, all’epoca, aiutarono le autorità a uccidere i vicini ebrei.
Non bisogna nascondere. Ecco perché è importante scavare a Sobibór, dove tutto si è voluto cancellare. Sobibór era un campo di sterminio: vi morirono tra 200 mila e 250 mila ebrei. I nazisti, in seguito alla rivolta iniziata il 14 ottobre 1943, organizzata e capeggiata da Aleksandr Aronovič Pečerskij, ufficiale sovietico ebreo dell’Amata Rossa, decisero di chiudere il campo demolendolo e occultandone il sito, dove piantarono centinaia di alberi. Al suo posto venne costruita una finta fattoria, abitata da una guardia ucraina che si spacciava per un contadino. Grazie a quella nuova branca dell’archeologia che è l’archeologia dei lager si sono scoperte le camere a gas interrate e semidistrutte.
Anche in Italia si edulcora: si prende le mosse dal 1938, la data in cui il fascismo emanò leggi razziali. Ma quel crimine imperdonabile non fu un fulmine a ciel sereno. Si possono condannare le leggi razziali senza condannare recisamente il fascismo che le varò?
Lo ha scritto nei giorni scorsi Noemi Di Segni, presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane:
“La condanna delle leggi razziali come male assoluto che abbiamo ascoltato in questi giorni con grande attenzione non può essere selettiva e avulsa dalla considerazione di ciò che il regime fascista ha compiuto nell’intero ventennio. La condanna che attendi di ascoltare è del fascismo nel suo insieme”
Lo affermò Primo Levi nella sua celebre lettera “Al visitatore di Birkenau”:
“La storia della deportazione e dei campi di sterminio, la storia di questo luogo non può essere separata dalla storia delle tirannidi fasciste in Europa: dai primi incendi delle Camere del Lavoro nell’Italia del 1921, ai roghi di libri sulle piazze della Germania del 1933, alla fiamma nefanda dei crematori di Birkenau, corre un nesso non interrotto”.
Non dobbiamo dimenticare la deportazione politica. In Italia i deportati politici furono oltre 30 mila, i deportati ebrei 8 mila. Furono uccisi 10.500 politici e 7 mila ebrei. Nella nostra provincia i deportati furono quasi tutti politici.
Tra i deportati politici ben 650 persone erano già state schedate dal regime nel Casellario politico centrale: erano gli antifascisti della prima ora.
La Shoah ha una sua unicità, ma la deportazione degli ebrei e quella dei politici sono aspetti del medesimo piano nazista di dominio del mondo.

PERCHE’ IL MSI NON FU DEMOCRAZIA
In questo nostro tempo in cui si dà così tanto rilievo agli anniversari fa pensare che si sia parlato più dell’anniversario della nascita del MSI, fondato il 26 dicembre 1946, che del 75° anniversario della Costituzione, promulgata il 27 dicembre 1947.
La Costituzione è il pilastro della nostra democrazia, “un programma, un ideale, una speranza, un impegno di lavoro da compiere”, come disse Piero Calamandrei in un famoso discorso del 1955.
Il MSI fu la scialuppa di salvataggio dei reduci e dei collaborazionisti di Salò, che con la storia della Repubblica antifascista e della Costituzione non ebbero per ovvie ragioni nulla a che fare.
Il 27 gennaio, in un’iniziativa delle Sezioni ANPI Centro, Muggiano e Fivizzano-Casola, ho presentato il libro di Daniele Rossi “Le stragi nazifasciste rimaste impunite nel settore occidentale della Linea Gotica”. Ne consiglio la lettura, soprattutto nelle scuole.
Alla base degli orrori nazifascisti vi furono sia gli ordini di Hitler del novembre e dicembre 1942 e poi l’ordine di Kesselring del 1° luglio 1944, in cui il principio della rappresaglia soppiantò quello della lotta militare contro i partigiani, sia il decreto di Mussolini del 18 aprile 1944, che inserì tra i soggetti da condannare a morte non solo i partigiani e i renitenti alla leva repubblichina, ma anche tutti coloro che li sostenevano. Si fece anche di peggio, sterminando centinaia di innocenti, che nulla avevano a che fare con la lotta partigiana. A Bardine di San Terenzo Monti, a Vinca, a Tenerano furono giorni di estrema violenza, di caccia bestiale all’uomo. Alle donne da violentare e poi uccidere e profanare ancora, ai bambini da sterminare. Chi scampò ai massacri ricordava il dialetto carrarino, o massese, o garfagnino degli assassini più tremendi. I fascisti di Salò furono più feroci dei nazisti.
Raccontò Angelo Pinelli, di Vinca:
“Avanti venivano i tedeschi e dietro seguivano i briganti neri. Mentre questi ultimi passavano vicino a me, sentii una voce dire in carrarino: ‘O Gatton, quali sono gli ordini?’ e l’interpellato con tale nome rispondere: ‘Quanti ne vedete tanti ne ammazzate’, anche questa espressione fu pronunciata in dialetto carrarino”.
Negli atti del processo di Perugia agli assassini di Vinca (1948) si legge:
“L’arrestato Moracchini Giorgio, che fu presente all’esecuzione della rappresaglia, ha dichiarato di aver veduto con i propri occhi Bragazzi Giovanni, Cabrini Carlo e Fabiani Corinno freddare a colpi di mitra un bimbo di due anni, che era stato rincorso, mentre piangendo tentava fuggire sulla pubblica strada, preso e lanciato in aria, a mo’ di sasso, dall’altro arrestato Diamanti Giuseppe detto Gatton”.
Raccontò Michelina Cecchini, di Tenerano:
“Io mi ricordo cosa è successo qui, alla piccola Mirella Antoniotti, l’hanno gettata in aria e poi gli hanno sparato come ad un bersaglio!!!”
Il MSI, che appoggiava la sua identità sull’eredità del fascismo di Salò, fu poi il partito di Pino Rauti. Una sua intervista del 1971 a una televisione in lingua francese viene proposta sul sito del centro studi a lui intitolato, presieduto dalla figlia Isabella, Sottosegretario di Stato alla Difesa. Alla domanda “Voi siete contrari alla democrazia parlamentare?” Rauti risponde “Noi siamo contrari in linea di principio per questioni ideologiche perché non crediamo all’eguaglianza degli uomini. Non crediamo al suffragio universale. Noi crediamo alla differenza, alla qualità e a tutti gli sforzi che un regime diversificato e qualificato domanda all’uomo per mostrare la parte migliore di sé stesso”. Rauti ebbe a che fare con la strategia della tensione, come tutto Ordine Nuovo, da lui fondato. Il capo del Triveneto era Carlo Maria Maggi, condannato per la strage di Brescia del 1974 e già membro del comitato centrale del MSI, partito in cui era rientrato con Pino Rauti nel 1969. Si potrebbe continuare a lungo, raccontando di Massimo Abbatangelo, di Massimiliano Fachini, di Carlo Cicuttini… Quest’ultimo, dirigente missino del Friuli, fu condannato all’ergastolo per la strage di Peteano del 1972. Giorgio Almirante, segretario del MSI, venne rinviato a giudizio con l’accusa di aver finanziato la latitanza spagnola di Cicuttini, ma uscì dal processo nel 1987 usufruendo di una amnistia.
Che cosa si aspetta a prendere le distanze da questo tragico passato, anche per evitare che il sonno della ragione generi nuovi mostri?

Berlino, panorama della città dalla cupola del Reichstag
(2005) (foto Giorgio Pagano)

SIAMO ANIMALI DA BRANCO
Nel finale de “Il senso di Hitler” lo storico Yehuda Bauer, 97 anni, dice:
“Gli esseri umani sono animali che uccidono altri esseri umani, ma sono animali da branco, sviluppano amore e collaborazione”.
Su “Micromega” ho scritto:
“Nella complessità della storia del Novecento non ci sono solo gli stermini, c’è anche la spinta possente per la liberazione personale e collettiva. C’è il baratro in cui l’umanità cade quando viene negata la comune appartenenza alla famiglia umana e non è riconosciuta la necessità di salvaguardare la vita, ma c’è anche l’amore per la vita. E’ il sentimento di fratellanza delle donne e degli uomini comuni, che avrebbe dovuto – e dovrebbe ancora – essere posto a fondamento del tentativo di formare le ‘virtù civiche’ degli italiani.
La spinta per la liberazione, l’amore per la vita e il sentimento di fratellanza non mancarono negli stessi campi di concentramento nazisti. Un solo esempio. Ho raccolto in ‘Sebben che siamo donne. Resistenza al femminile in IV Zona operativa, tra La Spezia e Lunigiana’ le testimonianze di Bianca Paganini e di Mirella Stanzione, deportate politiche nel campo femminile di Ravensbruck: sono un esempio straordinario di ‘resistenza minimale’. Nei lager non si potevano organizzare reti di opposizione, ma il non abbandonarsi alla voglia di morire, il non lasciarsi andare, il non cedere e l’aiutare l’altro a non cedere, il mantenere vive in sé scintille di umanità erano già una vittoria contro l’oppressore.
Dobbiamo fare i conti con questa storia complessa, di depauperamento mentale di masse e persone indottrinate ma anche di rivolta etica di masse e persone che vogliono liberarsi. La riflessione storica ci aiuta sia a problematizzare il modello vittima/persecutore sia a farci capire che sempre la vittima si ribella al persecutore. Ecco perché la dimensione storica non può scomparire dall’esperienza delle generazioni più giovani. Se si vive in una sorta di presente permanente, non si è in grado di scegliere e si perde, insieme alla memoria del passato, anche la speranza del futuro”.

TRASMETTERE LA STORIA
L’antifascismo non deve essere celebrativo ma trasmettere la storia. Non è una battaglia di retroguardia. So che il ripensamento storico non ridimensiona il disagio sociale, che è all’origine delle pulsioni di estrema destra e che va contrastato con l’antifascismo sociale. Ma so che anche l’antifascismo storico e culturale è necessario. Non di solo pane vive l’uomo, ma anche delle memorie che gli vengono tramandate e dell’identità che si costruisce.

Post scriptum
Sull’argomento rimando a questi articoli della rubrica:
“Alfredo Angeloni: una voce della memoria dai campi di sterminio”, 27 gennaio 2013
“La dolcezza e la serenità di Bianca”, 10 marzo 2013
“Storia di Adriano, deportato a 17 anni”, 24 novembre 2013
“Migliarina ricorda”, 23 novembre 2014
“Aiuta una persona, fallo adesso”, 29 gennaio 2016
“Mirella Stanzione e le rose di Ravensbruck”, 2 aprile 2017
“Il Porrajmos, l’altro Olocausto”, 5 agosto 2018
“La Shoah e la responsabilità individuale”, 27 gennaio 2019
“Viviamo ancora all’ombra di Auschwitz”, 26 gennaio 2020
“Gli spezzini nel borgo delle Orobie, una storia che fa credere nella vita”, 7 febbraio 2021
“Auschwitz, l’indicibile non è incomprensibile”, 23 gennaio 2022
E all’articolo su www.micromega.net:
“La vittima, il persecutore e la necessità della riflessione storica”, 27 gennaio 2022

La foto in alto è del Memoriale per gli ebrei assassinati d’Europa, a Berlino.
La foto in basso è stata scattata dalla cupola di vetro del Reichstag, il simbolo della Germania conquistato dall’Armata Rossa nella battaglia di Berlino del 1945. Dalla cupola, ricostruita insieme al palazzo su progetto di Norman Foster, si ammira tutta Berlino; in primo piano è la bandiera della Germania.

lucidellacitta2011@gmail.com

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