C’è un futuro per i partiti?
Città della Spezia – 5 Maggio 2013 – “Non cerco adesione, ma confronto”: con questa dichiarazione Fabrizio Barca, già Ministro per la Coesione Territoriale del Governo Monti, ha presentato il suo documento “Un partito nuovo per un buon governo. Memoria politica dopo 16 mesi di governo”. Giusto: solo dal confronto e dal conflitto può venire il cambiamento. Si tratta di un documento di grande interesse, rivolto al Pd, il partito a cui Barca si è iscritto prima di presentarlo, ma utile anche a tutta la sinistra e a tutta la politica. Stimo Barca da molto tempo, per il suo impegno nel campo delle politiche urbane; e l’ho apprezzato anche come Ministro, pur nel giudizio negativo sul Governo Monti (si vedano gli articoli in questa rubrica del 18 novembre e del 20 dicembre scorsi). Anche del suo documento dico subito bene: in questi giorni in cui il Pd, e un po’ tutta la politica, sono inguardabili, il fatto che qualcuno discuta di come rinnovare il Pd, la politica e i partiti non può che dare speranza. Perché la politica e i partiti servono, piaccia o no, a noi cittadini e alla democrazia. E’ interessante, da questo punto di vista, l’origine dello scritto: esso scaturisce dall’esperienza ministeriale dell’autore, che lo ha portato a concludere che senza una nuova “forma partito” non si governa l’Italia, né i territori.
Ma vediamo quali sono le proposte di Barca. L’ex Ministro pensa ad un partito che riavvicini le persone alla politica, e che solleciti lo Stato ad una pratica dell’azione pubblica di “sperimentalismo democratico”. Ossia, scrive l’autore, “un metodo che superi l’errore secondo cui pochi individui, gli esperti, i tecnocrati, dispongono della conoscenza per prendere le decisioni necessarie al pubblico interesse, indipendentemente dai contesti”. Ed eviti pure “l’altro, nuovo errore della nostra epoca: quello di pensare che la folla possa esprimere quelle decisioni in modo spontaneo, attraverso la Rete”. Serve, invece, “un processo di azione pubblica che promuova in ogni luogo il confronto acceso e aperto fra le conoscenze parziali detenute da una moltitudine d’individui e consenta decisioni sottoposte ad una continua verifica degli esiti, usando le potenzialità della Rete”. E’ la cosiddetta “democrazia deliberativa”, che si fonda sul conflitto sociale e delle idee. Barca riprende le tesi dei filosofi del pragmatismo americano di fine Ottocento e inizio Novecento, da William James a Charles Sanders Peirce fino a John Dewey, e del contemporaneo Charles F. Sabel. Quest’ultimo è un pensatore molto interessante: l’associazione di cui sono segretario, la Rete delle Città Strategiche, lo ha invitato recentemente a un convegno a Cuneo, dove ci ha affascinato con la sua teoria della governance “molti – a – molti” e del mutuo apprendimento come frutto del dibattito e del conflitto. Una teoria necessaria perché nessuno possiede oggi la conoscenza adeguata per anticipare i problemi e per disegnare soluzioni: “la concentrazione delle decisioni nelle mani di pochi non è solo in tensione con il principio di rappresentanza, è anche in tensione con il principio di competenza: è un errore e basta”, scrive Barca (su questo rimando al mio libro “Ripartiamo dalla polis” e alle tante pagine dedicate, in questa rubrica, alla pianificazione strategica partecipata). E il partito? Serve, sostiene Barca, per “sollecitare” questo confronto, che non ci sarebbe “senza una mobilitazione delle persone, senza un partito che prema e pretenda dagli amministratori che ha fatto eleggere l’avvio di questo processo”; e per garantire ad esso “esiti operativi e ragionevoli”.
La novità strategica, a mio parere convincente, della proposta di Barca è quella di applicare questo modello di “sperimentalismo democratico” e di “democrazia deliberativa” ai partiti.
“Cambiare la macchina dello Stato -scrive- senza contemporaneamente cambiare i partiti appare velleitario”. Seguiamo le sue parole sul “partito palestra”: un partito “animato dalla partecipazione e dal volontariato,” “non Stato-centrico” ma separato dallo Stato e “assolutamente fuori dagli enti pubblici”, e che sviluppi una caratteristica che nei vecchi partiti di massa tendeva a rimanere circoscritta alle “avanguardie”, cioè la realizzazione di una diffusa “mobilitazione cognitiva”, la crescita dell’intelligenza delle persone che si auto organizzano sulla base di interessi e di valori. Sono tesi che possono apparire lontane dalle esigenze drammaticamente concrete delle persone investite dalla crisi: ma o la politica riesce a “pensare” e a darsi strumenti all’altezza dei problemi o non sarà nemmeno capace di “fare” e di essere concreta. Negli ultimi 25 anni non lo è stata proprio perché i partiti, privi di un confronto pubblico aperto sui contenuti e i metodi dell’azione pubblica, non hanno saputo e potuto offrire visioni e conoscenze utili alle riforme. Il partito di Barca è dunque una sorta di “agenzia territoriale”, capace non solo di rappresentare dei bisogni, ma anche di suscitare quelle conoscenze diffuse indispensabili a risolvere i problemi di un Paese o di un territorio.
In questa concezione del “partito palestra” un punto chiave è quello della netta separazione dei partiti dallo Stato, fino all’incompatibilità tra incarichi di partito e incarichi pubblici. Aggiungo che un partito del volontariato, in grado di procurarsi le risorse finanziarie necessarie alle sue attività grazie al contributo degli iscritti e dei simpatizzanti, deve essere nettamente separato anche dai poteri economici. Ma sottolineo che il superamento della “fratellanza siamese” tra partiti e Stato è davvero decisivo, in una situazione in cui i partiti si sono ridotti a macchine per governare (male) e in cui la presenza nelle istituzioni è l’alfa e l’omega del fare politica. Anche a sinistra: perché l’istituzionalismo, il primato del potere, l’idea della politica che porta all’autonomia separata del Politico e alla sua lontananza dalla società e dalle persone è dentro la storia della sinistra, fin dalle origini. La tendenza della politica a corrompere e a corrompersi è forte: per questo va tenuta costantemente sotto sorveglianza. Ecco perché bisogna credere nel ruolo della società. In questo la sinistra può essere aiutata da uno dei suoi più grandi pensatori: Antonio Gramsci, che teorizzò “la caduta della separazione del politico dal sociale”.
Qui c’è un punto a mio parere problematico del ragionamento di Barca. Egli sostiene che “la latitanza dei partiti non può essere compensata dall’azione dei corpi intermedi della società rappresentativi di interessi del lavoro, dell’impresa o dell’impegno civile”. Il “partito palestra” si rivolge a una realtà letta essenzialmente come somma di individui. Scarso è il riconoscimento del ruolo delle associazioni e dei movimenti, delle “cellule locali della solidarietà e della cultura”: luoghi dove operano tanti “servitori civili” che più di altri conoscono i problemi reali della vita della nostra società. Se è sbagliato pensare che i partiti siano finiti, e che basti che le associazioni e i movimenti trovino il modo per cooperare tra loro e coordinarsi, è sbagliato anche pensare che il viaggio che i partiti devono fare alla riscoperta di un Paese che non riconoscono più possa non essere un viaggio collettivo, che coinvolga cioè le associazioni e i movimenti, oltre che gli individui. L’incontro finora mancato tra movimenti e partiti ha bisogno di una risposta che, nel rispetto dell’irriducibile autonomia reciproca, trovi forme nuove di rapporto e di contaminazione. Perché ognuno dei due soggetti ha bisogno, e deve alimentarsi, dell’altro.
Infine un ultimo punto. Il complesso delle tesi di Barca è utile a tutti i partiti. La democrazia deliberativa e la separazione dallo Stato farebbero bene a tutti i partiti, non devono appartenere alla sola sinistra. Alla sinistra serve un progetto che critichi l’esistente e ridia valore alla speranza di una società più giusta: lo ”sperimentalismo democratico” è lo strumento per questo. Un’indicazione importante sul progetto, però, in Barca c’è: è l’austerità. Che però può essere declinata in due modi radicalmente diversi. Barca cita il Berlinguer del 1977 (si veda l’articolo in questa rubrica del 3 luglio scorso): l’austerità “può essere adoperata o come strumento di depressione economica, di repressione politica, di perpetuazione delle ingiustizie sociali, oppure come occasione per uno sviluppo economico e sociale nuovo, per un rigoroso risanamento dello Stato, per una profonda trasformazione dell’assetto della società, per la difesa ed espansione della democrazia”. Barca sceglie questa seconda strada e la indica come tratto caratterizzante del Pd, che definisce “un partito di sinistra”, in disaccordo con i tanti suoi dirigenti che lo definiscono di centrosinistra (ma qualcuno lo vorrebbe di centro tout court), e con i tanti elettori che hanno smesso di votare Pd perché volevano che dicesse cose chiare e di sinistra, o che lo hanno votato e oggi sono smarriti nel ritrovare Berlusconi alleato del Pd e al culmine del suo successo politico. Barca ha cominciato a girare i circoli del Pd: verificherà se nei territori il Pd è ancora vivo. Ho molti dubbi: è vero che nel Pd ci sono, sia pure prigioniere, posizioni di sinistra; ma i suoi gruppi dirigenti sono soprattutto divisi in mere aggregazioni di potere sorde alla società, a Roma come nei territori. Ma se penso al suo popolo, certamente il Pd è vivo. Il popolo della sinistra è uno solo, e chiede il cambiamento del Paese. La sfida su come organizzarlo, rappresentarlo, dargli voce è aperta. Io credo possa farlo un soggetto nuovo, di sinistra, a vocazione europea, con una chiara identità radicalmente riformista. E che faccia bene Sel a mettersi a disposizione di questo progetto. Ma è comunque positivo che nel Pd ci sia chi, come Barca e altri, chiede al partito di aprire gli occhi e propone al congresso una piattaforma di sinistra. Credo e spero che il rapporto tra Pd e Pdl vada presto a rotoli. E che la sinistra nuova nasca non dal “governissimo”, perché non sarebbe più tale, ma dalle sue ceneri.
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