Presentazione di “Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista” di Dino Grassi, Venerdì 22 novembre ore 17 al Palazzo Ducale di Massa
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Presentazione di
“Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista” di Dino Grassi
Venerdì 22 novembre ore 17 al Palazzo Ducale di Massa
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Il libro di Dino Grassi “Io …

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Caro Giulio Regeni, SeaFuture ti ha dimenticato

a cura di in data 3 Giugno 2016 – 21:36

Sao Tomè, Nova Moca, bambina    (2016)    (foto Giorgio Pagano)

Sao Tomè, Nova Moca, bambina
(2016) (foto Giorgio Pagano)

Città della Spezia, 29 maggio 2016 – Nei giorni scorsi ho firmato la petizione del comitato “Verità per Giulio Regeni/Il Tigullio non dimentica”, uno dei primi a essersi costituito nel nostro Paese. I suoi obiettivi sono la sensibilizzazione dell’opinione pubblica e delle istituzioni italiane ed europee affinché sul sequestro, la tortura e l’uccisione di Giulio Regeni non scenda l’oblio; e la mobilitazione del maggior numero di forze possibili per sollecitare le autorità italiane e pretendere che su questa vicenda si faccia piena luce. La petizione chiede in particolare che le autorità egiziane ottemperino alla richiesta contenuta nelle rogatorie internazionali e mettano quindi a disposizione della magistratura italiana gli atti e i documenti richiesti; che il Governo italiano dichiari l’Egitto “Paese non sicuro” per i nostri connazionali che hanno necessità o intenzione di recarvisi per motivi di lavoro, di studio e di turismo; che siano interrotti tutti i rapporti commerciali con l’Egitto sinché non venga assicurata piena collaborazione alle indagini; che venga immediatamente sospesa ogni forma di collaborazione bilaterale tra i due Paesi riguardante i rispettivi corpi di Polizia, fino a quando non sia stata fornita dall’Egitto piena collaborazione al fine di giungere all’accertamento della verità; che siano immediatamente sospese le forniture di armi all’Egitto, risultando essere l’Italia l’unico Paese membro dell’Unione europea ad averle assicurate nel 2014 e nel 2015. I firmatari chiedono inoltre che le autorità italiane non lascino nulla di intentato per giungere a far luce su questa tragica vicenda nel rispetto della dignità dello Stato e di ogni suo singolo cittadino.

Volevamo, noi dell’Associazione Culturale Mediterraneo con gli amici di altre associazioni, costituire un apposito comitato anche a Spezia. Ma, quando ci siamo riuniti per farlo, abbiamo saputo che, nella nostra città, stava per iniziare “SeaFuture 2016”, e che l’Egitto sarebbe stato presente con la sua Marina Militare. Abbiamo redatto un comunicato e organizzato un presidio in città (si veda, su questo giornale, “Per un mare di pace: riconvertiamo SeaFuture”, 23 maggio 2016). Speravamo almeno in qualche presa di distanza, in qualche appello agli egiziani. Invece, nella manifestazione inaugurale, nessuna autorità, né nazionale (era presente il Sottosegretario alla Difesa Domenico Rossi) né locale, dal Sindaco in giù, ha detto una parola.

Spezia -o meglio la sua classe dirigente- dimentica. Che l’abbia fatto negli stessi giorni in cui ha ricordato la solidarietà di settant’anni fa agli ebrei scampati dai campi di sterminio la dice lunga su come i tempi siano cambiati. E pure il nostro Paese dimentica. Ecco quanto scrive Carlo Bonini su “Repubblica” del 26 maggio: “Libero da ogni vincolo anche solo di formale decenza nel rispetto delle libertà fondamentali, forte degli accordi sulle nuove forniture di armi siglati con Hollande, dei dollari sauditi e della furba acquiescenza con cui, silenziosamente, il Governo di Roma ha fatto rientrare anche quel sussulto di dignità che era stato il richiamo del nostro ambasciatore al Cairo per consultazioni (il nuovo ambasciatore si prepara regolarmente a insediarsi e nessuna ‘ulteriore’ e ‘progressiva’ iniziativa è stata assunta), Al Sisi regola i conti con i responsabili di quel poco che resta della pressione internazionale e interna: i giornalisti. Martedì, i Servizi egiziani hanno arrestato, illegalmente trattenuto (per 30 ore) e quindi espulso il corrispondente francese del quotidiano cattolico “Le Croix” e della radio “Rtl” senza uno straccio di motivazione. Ieri, a due giornalisti indipendenti egiziani a processo per ‘terrorismo’ è stata posta la singolare domanda su quale sia la loro ‘opinione’ sul caso Regeni. Palazzo Chigi tace. La Farnesina tace. Di più. Negli alert del ministero per i viaggiatori diretti in Egitto manca uno solo dei fatti salienti accaduti negli ultimi 12 mesi. Non la catastrofe del volo Egyptair. Il sequestro e la morte di Giulio Regeni”.

Sao Tomè, Neves, bambine    (2015)    (foto Giorgio Pagano)

Sao Tomè, Neves, bambine
(2015) (foto Giorgio Pagano)

A contare sono gli affari. Nel nostro caso, per di più, legati alla vendita di navi militari. Lo scandalo non riguarda solo la presenza della Marina Militare egiziana a “SeaFuture”. Alla manifestazione c’erano anche quelle del Bahrain e degli Emirati Arabi Uniti, Paesi le cui forze militari sono intervenute nel conflitto interno in Yemen senza alcun mandato internazionale: conflitto che ha causato più di 8.000 morti, tra cui più della metà tra la popolazione civile. Poi c’era il Marocco, che da più di quarant’anni occupa militarmente il Sahara occidentale violando le risoluzioni delle Nazioni Unite e i diritti umani del popolo Saharawi. Tra poche settimane arriveranno nella nostra provincia i ragazzi Saharawi: che diremo loro? Ancora: c’era la Turchia, il cui Governo si sta distinguendo per la repressione interna e le violazioni dei diritti civili, in particolare del popolo curdo.

Il Governo sbandiera ai quattro venti di voler aiutare l’Africa, per prevenire le migrazioni dai suoi Paesi più poveri: lo facciamo vendendo loro armi e navi militari? La stessa Relazione della Presidenza del Consiglio ci segnala che l’export dei sistemi militari italiani è in forte crescita: nel 2015 le esportazioni di armamenti sono raddoppiate, raggiungendo la cifra record di 4,7 miliardi di euro. Ma gran parte di questi sistemi militari è diretta in Nord Africa e in Medio Oriente. Ha ragione il mio amico Giorgio Beretta su “Unimondo”: “Tutto questo serve a far cassa o, per dirla con un’espressione più elegante e in voga, per ‘far ripartire l’Italia’. Se poi davvero serva a promuovere maggiore sicurezza e ridurre i conflitti che provocano continue migrazioni resta tutto da dimostrare. Lo scenario a cui stiamo assistendo, anche in questi giorni, sembra indicare l’esatto contrario”.

C’è davvero da riflettere. Io ricordo le prime edizioni di “SeaFuture”, nel 2009 e nel 2010. La manifestazione nacque come “la prima fiera internazionale dell’area mediterranea dedicata a innovazione, ricerca, sviluppo e tecnologie inerenti al mare”, e l’anno successivo si sviluppò ulteriormente come luogo di incontro tra i centri di ricerca nazionali e internazionali: con la collaborazione dell’Area marina protetta Cinque Terre affermava di voler “educare al mare” per far conoscere la biodiversità marina e il ruolo chiave delle aree marine protette. “SeaFuture” si teneva in città, a Spezia Expo. Il primo anno fu parte integrante della Festa della Marineria, il secondo ospitò anche i laboratori interattivi dell’Acquario di Genova, con le scolaresche che venivano a vedere i filmati di delfini, foche e pesci di tutti i colori. A inaugurare la manifestazione c’erano i rappresentanti dei ministeri dello Sviluppo Economico e degli Esteri, non della Difesa. Poi, dalla scorsa edizione, lo spostamento dentro l’Arsenale, e la mutazione dell’evento. Certo, le aziende del settore militare non sono mai mancate, ma presentavano soprattutto i “sistemi duali”, applicabili sia al civile che al militare. Ora, invece, hanno un ruolo dominante: la Marina Militare è diventata, insieme al Ministero della Difesa, il “big player”. Come spiega “Defence Newes”, l’evento è giunto alla quinta edizione, “ma questa è la prima volta che la Marina interviene come partner ufficiale”. Ci sono anche altre presenze, ma sono marginali: il core business è la vendita delle navi.

L’auspicio che “SeaFuture” ritorni all’ispirazione originaria non è il frutto, per quanto mi riguarda, di un “pregiudizio antimilitarista”. Io credo negli Stati Uniti d’Europa, e penso che possano nascere solo con una difesa comune. Un’Europa come quella post 1945, all’avanguardia nel mondo per la democrazia. Un’Europa che, sia all’interno che nei rapporti internazionali, promuova metodi e comportamenti nonviolenti, ma sia pronta a usare la forza militare a scopo difensivo. Almeno per una fase storica. Ma come stanno le cose, dal punto di vista della difesa comune europea? Un recente documento del “Comitato economico e sociale europeo” intitolato “Necessità sul tema di un’industria europea della difesa: aspetti industriali, innovativi e sociali”, afferma: “Non esiste un’impostazione strategica comune, né tra i Governi né tra i partner industriali. Tutte le società industriali con sede in Europa si focalizzano sui mercato di esportazione. Ciò è in parte dovuto alla privatizzazione e in parte all’incoraggiamento da parte dei Governi: la crisi economica sta trasformando alcuni Ministri della Difesa in promotori delle esportazioni esplicitamente riconosciuti”. Il Comitato avverte quindi: “Se l’Europa intende mantenere una solida industria della sicurezza e della difesa, capace di sviluppare e produrre sistemi all’avanguardia, garantendo in questo modo la propria sicurezza, è necessario un cambiamento radicale di mentalità e di politiche”. Secondo i dati delle Relazioni della Presidenza del Consiglio, nel quinquennio dal 2008 al 2012 solo il 45% dei sistemi militari italiani è stato destinato ai Paesi appartenenti alla Nato – Ue, mentre il 55%, cioè più della metà, a Paesi con cui l’Italia non ha alcuna alleanza politica, militare o economica. Ciò riguarda anche le aziende del territorio spezzino, che negli ultimi anni hanno definito lucrosi contratti con i regimi di diversi Paesi autoritari, dall’Algeria agli Emirati Arabi Uniti, dal Pakistan al Turkmenistan. Ecco allora la domanda che sorge spontanea: la nostra industria della difesa serve solo alla difesa italiana ed europea o ha invece come scopo principale il suo mero autoconsolidamento? Si stanno facendo passi concreti per un’effettiva integrazione dell’industria militare europea o si preferisce esportare, anche a Paesi in zone di conflitto, a Governi che spendono ingenti risorse in campo militare, a regimi che sono responsabili di violazioni dei diritti umani e di forti limitazioni alle libertà democratiche? L’esportazione di armi a questi Paesi rappresenta una seria minaccia alla pace nel mondo. La classe dirigente della nostra città, se esiste, deve cominciare finalmente una riflessione su questo nodo: altrimenti ogni parola sulla pace o sull’aiuto ai Paesi in via di sviluppo suona come ipocrita.

lucidellacitta2011@gmail.com

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