Cara sinistra, se vuoi avere un futuro devi rappresentare i più deboli – Seconda parte
Città della spezia, 26 giugno 2022
IL DISASTRO SOCIALE, TRA APATIA E RABBIA
Le elezioni comunali di quindici giorni fa, caratterizzate in primo luogo dal non voto, possono essere interpretate come il rifiuto di questa politica e, nel contempo, come la richiesta di un’altra politica: chiara, netta, vicina alle persone, sorretta da idee forti. In un Paese disperato si aggira ancora, inquieta, la speranza. Mi viene in mente A.B. Yehoshua, uno dei più grandi scrittori del nostro tempo, scomparso nei giorni scorsi. Ho lavorato tanto in Palestina, un Paese ben più politicamente disperato del nostro. Anche Israele lo è, a suo modo. Yehoshua, israeliano, ha trasmesso a me e a tanti altri, israeliani e palestinesi, la forza di non disperare, di non arrenderci, di riesaminare le nostre idee per far fronte ai nostri fallimenti.
Ma, tornando a noi italiani e spezzini, qual è la richiesta, qual è la speranza che nonostante tutto affiora? Che cosa significa “altra politica”? Ho l’impressione che due temi, quello dell’astensionismo e quello della sinistra, siano strettamente intrecciati. Chi non vota chiede una sinistra o, se il termine è considerato desueto, una forza che assuma come centrale la questione sociale e della rappresentanza dei più deboli, come ho scritto domenica scorsa. Una domanda di cambiamento che gli opinionisti da salotto bollano sprezzantemente come “populismo”. Tesi simili alle mie sono state sostenute, su Cds, da Roberto Centi – “i diritti civili non sono l’unica battaglia da fare a sinistra”- e da Rino Tortorelli -“al centro dell’attenzione deve essere il rispetto dei valori costituzionali”. Giusto, i diritti civili sono importantissimi ma di per sé sono questione di civiltà tendenzialmente apprezzata sia a destra che a sinistra. E, se c’è un faro per i diritti sociali, questo è proprio la Costituzione: una “polemica contro lo stato delle cose”, la definiva Calamandrei.
Sono le nude cifre a segnalarci il disastro sociale. Nei giorni scorsi i dati Istat ci hanno spiegato che nel 2021 i poveri assoluti sono rimasti ben 5,6 milioni, senza alcuna diminuzione rispetto al record toccato nel 2020 a causa della pandemia. Eppure il Pil è salito del 6,6%: significa che la ripresa è stata fragile, e che quasi tutti i posti di lavoro recuperati rispetto al pre-Covid sono a termine e che quelle famiglie non hanno aumentato i consumi. I dati di Bankitalia hanno mostrato che la ripresa dei consumi è stata sbilanciata sui ceti più abbienti. L’inflazione ha fatto il resto, colpendo i più poveri. Il paniere alimentare ha un’incidenza molto più in alta per chi è in difficoltà: il rischio è veder calare i consumi alimentari dei poveri.
Se questo è il quadro del 2021, che cosa accadrà nel 2022? “Sono terrorizzata”, ha risposto la sociologa Chiara Saraceno, la massima esperta di povertà in Italia. Anche perché c’è la guerra. Meno male che il fenomeno è stato contenuto dal reddito di cittadinanza, pur con tutti i limiti da correggere. Ma il dibattito non verte sui miglioramenti: si preferisce il tiro al bersaglio sulla misura. Sostiene la Saraceno:
“Purtroppo in Italia il pregiudizio anti-povertà è molto forte, se ne parla quasi sempre in chiave moralistica. E’ così da sempre, nessuna categoria sociale è oggetto di una denigrazione così sistematica come quella dei poveri”.
C’è davvero da essere terrorizzati. Ai 5,6 milioni di poveri assoluti vanno aggiunti circa 7 milioni di poveri relativi. Siamo a oltre 12 milioni di poveri in un Paese di 60 milioni di abitanti, che è l’ottavo al mondo per ricchezza su 196. Ciò accade nonostante 3,7 milioni di persone percepiscano il reddito di cittadinanza. Non si vede un partito che si faccia carico di questa gente, questo è il problema. Oggi come oggi l’alternativa al non voto sembra essere la destra di Giorgia Meloni, unica forza di opposizione. “Il neoliberismo ha puntato tutto sul precariato: ciò che è precario è obbediente. Almeno fino a quando non arriva una forza rivoluzionaria”, ha scritto un altro sociologo, Domenico De Masi. O riformista nel senso originario del termine, oggi perduto. Comunque una forza del cambiamento sociale, di cui non c’è traccia.
La conseguenza del disastro sociale è un mix tra apatia e rabbia che potrebbe manifestarsi in più forme, compresa quella di affidarsi alla destra. Nella Francia della rivolta dei gilet gialli la rabbia contro Macron si è manifestata o con l’astensionismo o con il voto di destra alla Le Pen (17,3%) o con il voto di sinistra a Mélenchon (32,6%). La Francia è la dimostrazione che la presenza di una proposta politica nettamente caratterizzata a sinistra scuote l’elettorato popolare dal torpore e lo riscatta dall’antipolitica nel nome di un’”altra politica”, quella che difende i diritti sociali.
CHI HA SBAGLIATO?
Nelle scorse settimane il nostro concittadino ministro, Andrea Orlando, ha dichiarato alla “Stampa”:
“Il nostro Paese sconta una perdita di competitività cui si è pensato di far fronte con una flessibilizzazione del costo del lavoro, ma questa strategia non ha funzionato”.
Ha ragione, ma i fatti vanno ricostruiti e spiegati. Chi ha sbagliato strategia? Se non lo si dice il dibattito è monco. Perché non va alla radice dei problemi. Negli ultimi dieci anni, per rimanere a questi, il Pd ha fatto parte di tutti i governi, con la breve eccezione del Conte-1, appoggiando Monti e Draghi ed esprimendo il Presidente del Consiglio per tre volte (Letta, Renzi, Gentiloni). Orlando è stato ministro dal 2013 al 2018, vicesegretario nazionale del Pd dal 2019 al 2021, poi nuovamente ministro fino ad oggi. L’affetto che ho per lui non può farmi dimenticare che ha votato il Jobs Act, e che ha co-firmato il decreto sicurezza con Minniti, in continuità con i decreti di Salvini. Giustamente papa Francesco ha disertato un convegno a Firenze perché c’era Minniti, facendosi guidare dal dire la verità: “Sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno” (Matteo 5, 37).
Non ne faccio una questione personale. Il mio rigorismo morale mi porta a dire: “Chi ha sbagliato paghi”. Io per fortuna in politica ho sempre vinto, ho rischiato di perdere una volta sola: quando dirigevo il Pds e proposi la candidatura a sindaco di Lucio Rosaia, che vinse al secondo turno. Se avesse perso avrei certamente lasciato. Tuttavia ammetto che il mio rigorismo può essere eccessivo. In Brasile Lula si ricandida a Presidente dopo la disfatta del suo partito, di cui porta la responsabilità. Un po’ di autocritica l’ha fatta, è vero. Vedremo se basterà per renderlo nuovamente credibile. Per essere credibili dopo una sconfitta bisogna dire tutta la verità, anche la più scomoda. Andare alla radice di problemi che esistevano ben prima del Pd. Leggiamo ancora De Masi:
“Dal 1991 al 2001 in Italia ci sono state le privatizzazioni. All’epoca Draghi era direttore generale del tesoro e presidente del comitato delle privatizzazioni. Fu la più grande opera di privatizzazione in Europa, più di Thatcher, perché da noi c’erano più partecipazioni statali. Eravamo l’unico paese ad avere più di 1700 aziende statali o parastatali e il più grande partito comunista d’Occidente. Eravamo molto più socialdemocratici degli scandinavi. Ciò era uno scandalo agli occhi dei neoliberisti che vincevano con Reagan e Thatcher che andava eliminato. Per farlo venne impiegato il più intelligente dei giovani economisti italiani. Rimase per quei dieci anni al tesoro, con diversi governi: quelli di Amato, Prodi e D’Alema fecero la maggior parte delle privatizzazioni. D’Alema diceva che non avevano bisogno della destra per privatizzare. Fu una grande manovra antisocialista fatta da socialisti”.
Concordo, tranne che sul punto che eravamo molto più socialdemocratici degli scandinavi. Aggiungo, per venire a fatti a noi più vicini: in un quadro di sconfitta generale della sinistra, vogliamo capire e spiegare perché in Regione Liguria, a Genova, a Spezia, a Sarzana, a Lerici va molto peggio che altrove? Il Pd vuole fare finalmente un’analisi critica ed autocritica specifica? Non tutte le vacche sono nere. Perché, dentro questa disfatta, il Pd vince sempre a Sestri Levante e a Luni, e rivince a Savona? Ce ne sarebbero di cose da discutere…
C’E’ ANCHE L’AMBIENTE
Non c’è solo la questione sociale, c’è anche la questione ambientale, strettamente intrecciata alla prima. L’aria è sempre più torrida, le campagne più asciutte, l’acqua scarsa. La siccità fa emergere altre responsabilità. Si parla tanto dell’aggressore e dell’aggredito. Anche in questa battaglia, la più grande, è chiaro chi è l’aggressore e chi è l’aggredito. Vogliamo cambiare o no, anche a Spezia, un modello di sviluppo economico dissipatore? Piantiamola con questo tormentone della decrescita, da Cingolani in giù. Alcune produzioni dovranno decrescere, altre crescere. Se non cominciamo, saremo costretti dal cambiamento climatico a una radicale revisione forzata di ciò che mangiamo, di come ci muoviamo… E saranno i più deboli a soffrire di più. E allora diremo: ma non era meglio un po’ di decrescita fatta prima?
IL CAMPO E IL CONTADINO
Mentre in Francia il centro di Macron prendeva una sberla solenne, da noi è cominciato un altro tormentone: “Si vince al centro!”. Ma è dal Sessantotto che non è più così. Sconfitto il Sessantotto, la destra ha sempre vinto su posizioni di destra netta: da Reagan e dalla Thatcher in poi. La sinistra si è fatta centro e ha sempre perso. Tutto questo correre al centro -Calenda, Renzi, Toti, Sala, Di Maio: una piccola vasca piena di squali- non trova ascolto tra i cittadini. Sono film già visti: chi si ricorda di Scelta civica di Monti, sciolta come neve al sole? C’è già il Pd di Letta a fare il centro, anche se si definisce di sinistra.
La questione è quindi se il Pd vuole continuare ad essere sempre più l’espressione dell’establishment o se vuole (ma può?) diventare un partito socialdemocratico. Se la missione quasi impossibile di Conte di salvare il M5S riesce a disegnare un soggetto politico non schiacciato sull’establishment, come voleva Di Maio, ma connotato da una spiccata sensibilità sociale e ambientalista e dalla cultura della legalità. Se nascerà quella che Bersani ha definito “sinistra di nuovo conio”.
Ma per questo serve a tutti una riflessione serissima sugli errori del passato e sul futuro. Per decidere che cosa vogliono essere. Per avere un’anima, un’idea, una direzione di marcia. Io penso che l’anima debba essere quella di chi rappresenta gli operai e i più deboli e difende la natura sempre più aggredita. E’ così che si può rispondere alla richiesta di un’“altra politica”. “Campo largo” non vuol dir nulla, bisogna capire l’anima -l’identità e la capacità- del contadino che coltiva il campo.
VISIONE E CONCRETEZZA: L’ESEMPIO DI SAN FRANCESCO GRANDE
Marco Raffaelli, consigliere comunale del Pd, ha dichiarato a Cds:
“La missione per il Pd e per il centrosinistra dovrà essere quella di tornare nelle strade, nei quartieri, riconnettersi con la società e le categorie che vogliamo rappresentare”.
Giusto. Ha aggiunto:
“I cittadini fanno molto caso a quello che accade nel loro quartiere, ed ai servizi a loro più prossimi.
Mentre noi pensavamo che trattando i ‘massimi sistemi’ della città avremmo conquistato nuovamente fiducia. Non è così. È insufficiente”.
Ma le due cose non sono in contraddizione, anzi. Solo una visione generale consente di essere concreti. E’ la lezione di Giuseppe Pericu, sindaco di Genova dal 1997 al 2007, nel mio stesso decennio. Ho condiviso con lui la convinzione di far acquisire alle nostre città uno sguardo collettivo lungo, strategico, così come aveva fatto Barcellona, modello di riferimento nel dare vita a una Genova e una Spezia nuove. Insieme incontrammo Pasqual Maragall, primo “sindaco strategico” di Barcellona. Insieme andammo a Porto Alegre, al Forum sociale mondiale. Dalla visione sono nate cose molto concrete. Anche a Spezia: dal polo della nautica di diporto all’Università, dalla riscoperta del centro storico ai musei, fino al progetto del fronte a mare, ancora non realizzato. Il rischio è di realizzarlo ora, tanti anni dopo, ma non nell’interesse generale della città: perché siamo privi di una nuova visione. Ci sono solo gli interessi del mercato. Ecco perché servirebbero un nuovo Piano strategico e un nuovo Piano urbanistico.
L’esempio dell’intreccio tra visione strategica e concretezza sta in una semplice proposta che, con altri amici, ho fatto in campagna elettorale: ridisegniamo il rapporto tra città e Marina, ma dopo anni di discorsi a vuoto conquistiamo, dentro una visione generale, un pezzo concreto, un’area piccola ma simbolica: San Francesco Grande (ne ho scritto nell’articolo di questa rubrica “Nuovo inizio della politica spezzina, serve un simbolo”, 22 maggio 2022). Peccato che Franceschini sia venuto il giorno dopo a fare il solito discorso fumoso che fa in tutti i comizi e in tutte le apparizioni tv… Mentre poteva essere insieme “visionario” e “concreto”, concentrandosi su un obiettivo non impossibile.
In questa rubrica ho scritto tante volte sul tema della “città giusta” dal punto di vista sociale e ambientale. Tutto è cambiato con la crisi climatica, con la pandemia… Oggi le città sono divise per funzioni e contenitori: la scuola per l’educazione, i musei per la cultura, gli ospedali per la salute… Ma le città non possono più funzionare per contenitori, servono legami. Basta pensare alla separazione tra città e campagna, che oggi è superata perché bisogna portare la campagna in città, con la natura, il verde, le comunità energetiche, l’autonomia alimentare garantita da bacini agricoli di prossimità, e portare la città in campagna, con i servizi e la connessione. Le scuole e i musei devono diventare anche luoghi di socialità e di aggregazione, aperti al pomeriggio e alla sera. Gli ospedali vanno aperti alla vita urbana, e nel contempo non sono più l’unico luogo dedicato alla salute, che è un bisogno trasversale a tutti i tempi della vita nello spazio urbano. Bisogna realizzare le “case di comunità”, perché la salute richiede presenza nel territorio: ma stiamo attenti a non costruire solo i contenitori, le “case” in cui non entra la “comunità” perché non assumiamo medici, infermieri, operatori sociosanitari.
E A SARZANA?
C’è bisogno, per tutto questo, di una partecipazione attiva dei cittadini. Di sindaci che sappiano attivare i processi dal basso e viceversa. Se Peracchini non saprà suscitare la partecipazione, muoviamoci noi cittadini e sviluppiamo l’aspirazione “anche io posso proporre e fare qualcosa”. La partecipazione è l’altra idea chiave della sinistra.
Leggo che a Sarzana, dopo la sconfitta a Spezia, il Pd teme una nuova sconfitta. E’ nelle cose, non c’è dubbio. Si può rimediare con un’idea di città giusta socialmente e ambientalmente e con un candidato sindaco scelto con la più larga partecipazione possibile.
Non so come andrà il ballottaggio oggi a Verona, città che conosco bene perché un amico, Paolo Zanotto, fu sindaco di centrosinistra dal 2002 al 2007. Poi vinse Tosi. La città è saldamente di destra, ma Damiano Tommasi può farcela. Uno che è padre di sei figli può fare quasi tutto. Jeans e maglietta, ha percorso le strade di Verona a ogni ora del giorno e persino della notte. Questa ansia peripatetica ha scosso la città, molto più di tutti quegli incontri sempre tra soliti noti con cui vengono solitamente riempite le campagne elettorali. Ha raccontato:
“Mi ha appena fermato un tizio e me ne ha dette di ogni colore: sei come gli altri, non farai niente per la città, io non voto, eccetera. Gli ho risposto: e tu cosa fai per Verona? Lui: tu devi dirmelo che sei candidato. Io: anche tu devi dirmelo che sei cittadino. Mica sei senza responsabilità? Alla fine credo che voterà”.
Il campo di Tommasi è larghissimo, ma il contadino ha un’anima, sa cosa vuole, e sa ascoltare.
Post scriptum:
Il ritratto di Giuseppe Pericu che vedete in basso è di Enrico Amici. La foto è stata scattata nel 2007 in Sala Dante in occasione della presentazione del mio libro “Orgoglio di città”.
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