Capitano, mio capitano. Alex Del Piero e la fine di un’epoca
Città della Spezia – 27 Maggio 2012 – Domenica scorsa, nella finale di Coppa Italia con il Napoli, Alessandro Del Piero ha giocato la sua ultima partita con la maglia della Juventus. Ma l’addio vero c’era stato la domenica precedente, nello stadio della sua Torino. Era l’ultima partita di campionato, dentro la festa della Juve per lo scudetto riconquistato c’era l’addio di Del Piero. Amore e morte, gioia e malinconia. Si sapeva, ma nessuno l’immaginava così. Perché non si era mai visto un campione uscire dal campo dopo quasi un’ora e intanto la partita finire pur continuando. Del Piero aveva segnato un gol molto bello, all’angolino. Poi, sostituito per l’ultimo saluto, il piccolo inchino a centrocampo e venti interminabili minuti di addio, con i tifosi commossi in piedi a piangere e a cantare, mentre nessuno guardava più la partita, ma solo lui, il campione che si alzava sulla panchina e faceva il giro del campo per raccogliere e contraccambiare tutto quel calore.
Come si spiega un momento così bello e sincero, che ha coinvolto i tifosi juventini, ma anche quelli delle altre squadre (un amico interista mi ha confessato: “Anch’io avevo i lucciconi”) e i non sportivi? Si spiega con il fatto che quella di Del Piero è una popolarità pulita, che si basa su fattori estranei a quelli di cui il nostro calcio è schiavo e che risponde al desiderio di recuperare parole e gesti fuori moda e valori antichi: la fedeltà, la serietà, la sobrietà, la tenacia. Certo, Del Piero non è un santo in un mondo di peccatori. E’ semplicemente uno strapagato professionista del calcio, ma è un’eccellenza vera e ha anche qualità squisitamente morali, come un’ammirevole dignità, poco incline al lamento e alla ritorsione, una solidità individuale e una forza interiore capaci di fronteggiare i colpi della vita, e un grande controllo del proprio carattere. Del Piero è il capitano, il grande solista che sa far parte di una squadra e guidarla. E’ l’”antischettino”, sobrio, disciplinato e generoso nell’affrontare le prove più dure, dagli infortuni a Calciopoli (che mai lo sporcò), fino alla panchina spesso immeritata (come non ricordare l’ostracismo di Capello e la sua lezione di professionalità nell’accettare ogni decisione dell’allenatore?). Insomma, Del Piero è il classico “campione di tutti”, non solo degli juventini che giustamente lo adorano, e la sua storia ha un taglio nazionale. Ricordo, dopo il gravissimo incidente a Udine dell’8 novembre del 1998, che fece temere per la ripresa della sua carriera, la partita del 17 agosto 1999, la tradizionale sfida con il Milan per il Trofeo Berlusconi. Del Piero rientrò e giocò fin dal primo minuto, la sua fu una prestazione straordinaria. Colpi di tacco, assist e perfino il gol della vittoria. Quando uscì dal campo tutto San Siro applaudì in piedi il campione ritrovato. In quell’istante la sua maglia era davvero “senza colori”. E’ successo tante altre volte. Mi viene in mente, per esempio, il tributo di Marassi dopo una partita Sampdoria-Juve. E soprattutto, uscendo dai confini nazionali, la standing ovation dello stadio Bernabeu a Madrid, durante una partita di Champions League con il Real: l’applauso non solo alla notte scintillante di un campione ma a un’intera carriera, a uno stile, a un modo d’essere.
Il calore che circonda Del Piero si spiega inoltre, e non c’è contraddizione con la tesi che ho espresso in precedenza, con il fatto di essere stato il giocatore-bandiera di una squadra, la Juventus. In un mondo che ha perso non solo il valore dell’appartenenza ma sta smarrendo anche l’identità delle maglie, nell’era dei Balotelli itineranti e dello strapotere dei procuratori, il calciatore-bandiera sta sparendo. Perché riflette un’Italia che non c’è più, quella delle radici forti e dei legami locali. Quella descritta da Alex in “Giochiamo ancora”: “A volte mi chiedono cosa sia stata la Juventus per me, e io penso che non si tratti solo di una squadra di calcio ma di un’idea. Lo spirito di squadra è identificarsi con i suoi colori, e a me è accaduta una cosa ormai insolita nel calcio: diventare un giocatore-bandiera. Ed è per senso di appartenenza che accettai, insieme a molti compagni di allora, la serie B: era una questione di orgoglio, era il dovere di aiutare un animale ferito”. L’identificazione con i colori è stata totale: in qualunque parte del mondo si vada, se uno dice Juventus, la risposta della gente è “Del Piero”. Ho tanti ricordi di bambini con la maglietta bianconera di Alex, da quelli che giocavano nei parchi delle città europee fino ai piccoli cammellieri dei Paesi arabi. E poi un ricordo tutto particolare: ero a Jenin, città martire della seconda Intifada palestinese, circondata dal filo spinato israeliano, e aspettavo i controlli alla frontiera temendo di perdere chissà quante ore. Ma un soldato israeliano, dall’alto di una torretta, dopo aver saputo della mia nazionalità, gridò al microfono: “Italiano? Viva la Juve! Viva Alessandro Del Piero! Come on!”. Il calcio aveva fatto diventare più umano, almeno con me, quel ragazzo con il mitra puntato. Ora, dopo un ventennio di identificazione, non sarà facile abituarsi alla Juve senza Del Piero. Mio figlio e mio nipote hanno 23 e 24 anni, si sono innamorati del calcio e sono diventati juventini con Alex: temono che nulla sarà come prima. E’ un sentimento che proviamo in tanti, abituati a una storia juventina di “uomini simbolo per sempre”: Boniperti, Bettega, Platini, Zoff… L’attaccamento alla maglia di campioni come loro o come, per non dimenticare quelli di altre squadre, Riva, Mazzola e Rivera non c’è più, sopravvive in poche figure come Del Piero, Totti nella Roma e Zanetti nell’Inter. Davvero, dunque, l’addio di Del Piero alla Juve segna la fine di un’epoca del nostro calcio, che non ci proporrà più storie così. Il mercato globale moltiplicherà sempre più le destinazioni possibili, e le bandiere di una volta non ci saranno più. La dirigenza della Juve poteva fare una scelta diversa, ma non l’ha voluta fare. La Juve che non trattiene Del Piero e lo lascia partire smentisce la propria storia e il proprio stile. Simboleggia un’Italia che rinuncia alle sue eccellenze più amate.
Resta, di Alex, quello che ha scritto il suo amico don Luigi Ciotti, il prete di strada che ha sposato lui e Sonia: “Le figure del mondo dello sport hanno una grande responsabilità, con i loro atteggiamenti, il loro linguaggio, i loro gesti, i loro comportamenti nella vita. Mi piace Alessandro Del Piero, perché sa trasmettere sempre un messaggio positivo, pulito, credibile. Che va al di là della sua capacità di dare un calcio al pallone”. Ma restano anche il suo talento calcistico e la voglia di giocare ancora, purtroppo non più nella Juve. Restano la sua classe, la passione e la felicità interiore, “perché un atleta triste è un atleta che parte sconfitto”, come dice lui (e vale in ogni attività della vita). Ci emozioneremo con tanti altri suoi bellissimi gol, come quello contro la Fiorentina del 4 dicembre 1994, o quello contro il River Plate il 26 novembre 1996, che fece vincere alla Juve la Coppa Intercontinentale, fino al gol contro la Roma in Coppa Italia il 24 gennaio 2012, il primo nel nuovo stadio della Juve. Del Piero ci dimostrerà che non c’è mai nulla di ultimo, quando si vive ogni gesto come se fosse il primo, e l’unico. E ripeterà ancora la sua linguaccia, un gesto da idolo giovane. Un simpatico sberleffo al tempo che passa.
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