Cambia il vento
Città della Spezia, 14 Dicembre 2014 – Ha ragione Fabio Lugarini quando, commentando su Città della Spezia il corteo per lo sciopero generale indetto da Cgil e Uil venerdì 12 dicembre, scrive di “una manifestazione d’altri tempi” e di “una condivisione comunitaria che non si vedeva da una vita”. “Le immagini delle foto dei tempi -scrive ancora Fabio-sembrano rivivere tali e quali: cambiano i costumi, non i colori, ma soprattutto non cambiano le rivendicazioni. Anzi, sembra di essere tornati indietro, alle lotte contro i padroni che oggi si chiamano in altro modo”. Ho percorso il corteo pezzo a pezzo: a fianco di tante categorie di lavoratori (c’erano tutte), con i compagni e gli amici della Cgil e della Uil, di Sel e di Rifondazione, insieme all’Anpi di Lerici e ai giovani del Pd… E ho rivisto e salutato persone che non vedevo da anni. Sul palco, alla fine, ho abbracciato Nadia Maggiani, la segretaria della Uil, Lorenzo Cimino, il segretario della Cgil, e Enrico Santini, che a Spezia è da anni “la Cgil”, anche se non ha mai voluto diventarne segretario, lui che l’avrebbe certamente meritato. E sotto il palco mi sono stretto a Riccardo Maneschi, “l’esperto dei microfoni”, impegnato a far risuonare le note dell’Internazionale: come ha fatto per me, nelle manifestazioni che organizzavo, nel corso di tanti anni, e come non faceva più da tempo. Così come da tempo un comizio non si concludeva, come quello di Cimino, con quel “Al lavoro e alla lotta” di vecchia memoria. Mentre a Roma il leader della Uil Carmelo Barbagallo terminava il suo discorso dicendo “Faremo la nuova Resistenza”. Ma, ecco il punto, si è trattato solo di una manifestazione di nobile resistenza, contrapposta all’innovazione, al nuovo, inarrestabile, che avanza? L’attacco al sindacato, nel nome di una potente riorganizzazione della struttura del comando politico, sempre più indifferente alle mediazioni sociali, è destinato a vincere? Dal Novecento si esce solo alla maniera di Renzi, senza se e senza ma? Io non credo. I sostenitori di queste tesi sono stati spiazzati. Avrebbero avuto ragione se lo sciopero e le manifestazioni fossero falliti, ma così non è stato, anzi. Quando, in una situazione di disagio sociale pesantissimo, sciopera il 60% dei lavoratori, quando in 54 manifestazioni in tutta Italia partecipano un milione e mezzo di persone, vuol dire che cambia il vento. E che non si può governare, e tantomeno uscire dalla crisi, contro questo grande movimento di donne e di uomini. Prima Renzi lo capirà, e meglio sarà per il Paese. Potrà mettere tutte le fiducie che vuole, anche una al giorno, ma la lotta continuerà, e il consenso al Governo calerà ancora. Perché, come ha detto Maurizio Landini nel comizio di Genova, “se a uno che è abituato a pensare che tutto si può comprare e vendere, qualcuno dice ‘a me non mi compri perché non sono in vendita’, allora il gioco cambia”.
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Certo, la crisi in corso supera i confini nazionali. La globalizzazione del mercato del lavoro ha messo in competizione, in termini di costo, il lavoro delle economie sviluppate con quello delle economie emergenti; e ha portato a un abbassamento dei salari e dei diritti nei Paesi sviluppati. Ma non dappertutto il fenomeno sta avvenendo in modo così grave e pesante come in Italia. Abbiamo qualcosa che ci caratterizza negativamente rispetto ad altri: la rassegnazione dei Governi, al di là delle tante chiacchiere sul futuro, e l’incapacità del capitalismo italiano a crescere puntando sulla ricerca e sulla crescita della dimensione d’impresa. Il nostro capitalismo sa solo chiedere libertà di licenziare, meno tasse e privatizzazioni e grandi opere su cui lucrare, e il nostro Governo sa solo appiattirsi sulle sue logiche. Ma così non si va da nessuna parte. Servirebbe un Governo, come scrive Aldo Carra sul Manifesto, “con una capacità progettuale, con un piano dei trasporti e della mobilità, con un piano di risanamento ambientale e del territorio, con un piano industriale ed una visione dei settori del futuro”. Per dirla con le parole di Sergio Cofferati su Repubblica: “quel che serve non è cambiare le regole del mercato del lavoro, ma un piano di investimenti di tipo keynesiano in settori strategici che possano avere effetti moltiplicatori”. E invece noi abbiamo di fronte un Governo assolutamente inadeguato alle sfide del nostro tempo, per non parlare della nostra “imprenditoria”, fatte salve alcune isole felici che hanno saputo innovare, investire ed esportare. Da questa situazione si può uscire solo con una svolta politica, con la costruzione della nuova sinistra del futuro. Le piazze dello sciopero generale costituiscono una grande, nuova domanda di politica e di sinistra. La politica e la sinistra, assenti e distanti in questi anni, umiliate dalle oligarchie dominanti della finanza e dalla inettitudine di tanta parte delle loro classi dirigenti, riemergono dal profondo di una sofferenza sociale dove il lavoro è diventato pura merce. Il popolo del 12 dicembre chiede una nuova sinistra che si metta in sintonia con il tempo e sia capace di rappresentare sia il lavoro dipendente che i precari e le nuove forme del lavoro. Il momento, come sostengo nel mio “Non come tutti”, è adesso: dobbiamo, con urgenza, dar vita a una rappresentanza politica che indichi e pratichi un’alternativa al renzismo e all’austerity neoliberista.
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Una sinistra rivolta al futuro deve saper risolvere il nodo che anche Fabio, nella sua cronaca sulla manifestazione spezzina, rileva: il rapporto difficile con i giovani, che poi vuol dire, ormai, con il mondo della precarietà. Una conversazione casuale, in un negozio qualche giorno fa, mi ha rafforzato nella convinzione che questo nodo può essere risolto. A fermarmi è stato un pensionato, ecco le sue parole: “Ero un operaio addetto alla sicurezza in una fabbrica spezzina, tante volte individuavo un rischio e chiedevo al capo di fermare il lavoro; lui mi minacciava, ma poi doveva cedere. Non poteva mandarmi via, il posto di lavoro era anche mio perché avevo l’articolo 18 dalla mia parte. Oggi ripenso a quei momenti: senza l’articolo 18 sarei ricattabile, dovrei scegliere tra fare il mio dovere per la sicurezza dei miei compagni di lavoro e l’angoscia per il timore di essere licenziato. Ho due figli giovani, uno fa l’operaio, questa volta ha capito quanto sia importante lo sciopero e lo farà, l’altra, la ragazza, è precaria, lavora due sabati al mese, chissà se avrà mai un futuro… ma alla manifestazione ci sarà anche lei, perché anche i giovani, ha detto, devono farsi sentire”. Questa è la strada da indicare: i giovani si rapportino tra loro, rompano le barriere della solitudine, si uniscano con il più vasto esercito delle classi subalterne, entrino nel sindacato e nella sinistra per cambiarli. Non voglio minimamente assolvere il sindacato e la sinistra per il loro ritardo storico nel capire le nuove forme del lavoro. Ma, ecco la questione, il sindacato e la sinistra cambieranno soprattutto se i giovani si faranno sentire. La lotta al Jobs Act di Renzi e Poletti può essere un terreno unificante. Ma di quale lotta alla precarietà stanno mai parlando? Uno studio della Uil denuncia che, per il combinato disposto tra lo sconto Irap, permanente, e la riduzione dei contributi previdenziali per i neoassunti, in vigore fino al 2017, l’effetto del licenziamento post articolo 18 a indennizzi crescenti (non a tutele crescenti) sarebbe quello di rendere conveniente per le imprese licenziare gli eventuali neoassunti più che stabilizzarli: questo perché si tratta in ogni caso sempre di contributi senza vincoli, senza riserve né a stabilizzare o ad assumere, né per premiare aziende che investono. Se il lavoratore venisse licenziato a fine anno l’indennizzo, e perciò il costo per l’azienda, si aggirerebbe attorno ai 2.538 euro lordi; il saldo per l’impresa sarebbe positivo per 4.390 euro. Un vantaggio che aumenterebbe se il lavoratore, sempre assunto il 1° gennaio 2015, venisse invece licenziato nel terzo anno: i benefici fiscali per l’azienda, su un reddito di 22.000 euro, ammonterebbero a circa 20.790 euro, mentre il costo dell’indennizzo sarebbe di 7.600 euro lordi, con un vantaggio per l’impresa di 13.190 euro. Esattamente il contrario di quello “stimolo” all’occupazione stabile sbandierato con il Jobs Act. Ma non si tratta solo di combattere la precarietà, affinché, dove possibile, il contratto diventi stabile. Si tratta anche di capire che non tutti potranno entrare nel mondo del lavoro dipendente. L’altro terreno unificante è dunque quello dei diritti e della dignità del cosiddetto “Quinto Stato”, i lavoratori formalmente autonomi ma economicamente dipendenti. Da sette anni sono uno di loro, e conosco bene di che si tratta: svolgiamo attività fondate sull’intermittenza, sull’incertezza, sull’occasione, sulla continua riconversione del nostro agire. Io lavoro con Ong, enti locali, Unione europea quando ho il modo di collaborare a progetti di cooperazione internazionale; o con enti locali quando ho il modo di collaborare a progetti di pianificazione strategica urbana. Non potrò mai più essere un lavoratore dipendente. Per il Jobs Act, come co.co.pro (collaboratore a progetto) mi aspetta la prospettiva dei “buoni lavoro” o “voucher”, nulla di più. E poi ci sono le partite Iva, e le altre tante forme di lavoro precario… I miei “colleghi” sono un’infinità di soggetti che condividono la condizione di sfruttamento. Non dobbiamo cadere nella trappola del Jobs Act, che ci vorrebbe in competizione tra noi, e uniti nell’ostilità al solidarismo del mondo del lavoro dipendente. Dobbiamo invece capire tutti, lavoratori autonomi e intermittenti e lavoratori dipendenti, come condurre insieme la battaglia generale per i diritti e la dignità, a partire dal riconoscimento della particolarità della condizione di ciascuno. In questa strategia il reddito minimo è lo strumento fondamentale.
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Non me ne vogliano Carla, Nadia e tutte le mie compagne e amiche di Cgil e Uil, ma la più bella, venerdì, era Lara: perché era vestita e truccata come Charlot in “Tempi moderni” di Charlie Chaplin. Combinazione, il Cinema Il Nuovo e l’Associazione Culturale Mediterraneo hanno organizzato la proiezione della versione restaurata di questo film straordinario proprio lunedì, martedì e mercoledì di questa settimana. E’ il film più bello e più lucido sull’alienazione in fabbrica. Charlot è un operaio alla catena, vittima e cavia delle macchine e del produttivismo. Ho letto delle celle di vetro dei capireparto che sorvegliano gli operai alla Fiat di Pomigliano, da cui si umiliano di fronte ai loro compagni gli operai che non reggono i nuovi ritmi di lavoro, costringendoli a gridare: “Sono un uomo di m.”. Stiamo perdendo il nucleo di valori della Costituzione: da Repubblica fondata sul lavoro a Repubblica fondata sull’impresa. Ha ragione Susanna Camusso: “Il Jobs Act contiene norme da anni venti”. Stiamo correndo il rischio di tornare a novant’anni fa, gli anni di “Tempi moderni”.
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Il 12 dicembre era il 45° anniversario della strage di piazza Fontana, la “madre di tutte le stragi” (si veda il mio “Così la città visse il giorno della strage”, Il Secolo XIX, 13 dicembre 2009, ora in www.associazioneculturalemediterraneo.com). Per tanti anni, nell’anniversario, nei cortei si è ritmato lo slogan “Il 12 dicembre è la strage di Stato, la classe operaia non ha dimenticato”. Mi ha fatto piacere che Cgil e Uil abbiano ricordato l’anniversario dal palco di piazza Beverini. 45 anni dopo, è ancora chiaro che contro l’avanzata del mondo del lavoro le forze reazionarie tutto hanno tentato; e che solo il presidio dei lavoratori ha difeso e difende la democrazia.
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