Anno vecchio e anno nuovo ricordi, riflessioni e speranze – seconda parte
Città della Spezia, 6 Gennaio 2017 –
ANNO VECCHIO E ANNO NUOVO RICORDI, RIFLESSIONI E SPERANZE
Seconda parte
Fuocoammare e il dottor Bartolo
Il film del 2016 è secondo me “Fuocoammare” di Gianfranco Rosi. La protagonista del film è Lampedusa, l’isola nel cui mare sono morti migliaia di migranti. Incontriamo Samuele, un ragazzino con l’apparente sicurezza e con le paure e il bisogno di capire e di conoscere tipici di ogni adolescente. Con lui e con la sua famiglia entriamo nella quotidianità delle vite di chi abita a Lampedusa. Grazie a lui e al suo “occhio pigro”, che ha bisogno di rieducazione per prendere a vedere sfruttando tutte le sue potenzialità, ci viene ricordato di quante poche diottrie sia dotato lo sguardo dell’Europa. Samuele non incontra mai i migranti. A farlo è invece il dottor Bartolo, il medico che ci dice cosa significa accogliere e curare i migranti, o constatarne la morte: cinque minuti o poco più di una testimonianza accorata, cinque minuti che andrebbero mostrati in tutte le scuole e a tutti gli italiani. Non ci fosse che questo, Fuocoammare sarebbe già un film memorabile.
“Se sei un uomo, -dice il medico- un vero uomo devi dare una mano e li devi salvare”. E lui lo fa.
Bruce Springsteen e la forza interiore
Il concerto dell’anno, invece, è per me quello di Bruce Sprinsteen a San Siro. Eppure sono stato al Circo Massimo a sentire David Gilmour dei Pink Floyd. Ma nulla vale il “Boss” a San Siro. Mi era già capitato nel 2008. E’ una storia d’amore, quella tra Springsteen e lo stadio milanese, riconosciuta in tutto il mondo, tant’è che c’erano diverse migliaia di spettatori stranieri. Una storia d’amore spesa in 35 atti, ovvero canzoni, per quasi quattro ore. Con gli spettatori che diventano band, e coreografia parte integrante del concerto. Nei concerti di Springsteen la comunione con il pubblico è assoluta. Gli spettatori vedono se stessi. “The Boss” mette in scena la vita, la sua e quella del pubblico. Parla di lavoro, di lotta, di storie dure, di amore, di gioia e di liberazione. Dolori, passioni, speranze di una vita degna di essere vissuta. Il tema che lega tutte le canzoni è la forza interiore, la capacità di ognuno di alzarsi e di resistere, di essere capaci di decidere la propria vita, di “dare una mano agli altri se si è veri uomini”. L’arte è tante cose. A volte è un film con immagini terse e bellissime, ricco di silenzio. A volte è una musica con un maledettissimo rumore grande e sublime, un suono che vorresti non finisse mai.
Ai Weiwei e l’arte che è politica
Infine la mostra dell’anno, che per me è “Libero” dell’artista cinese Ai Weiwei a Palazzo Strozzi, a Firenze. Ai Weiwei è un artista contemporaneo che coinvolge e appassiona. La sua non è un’arte che provoca concettualmente, ma un’arte politica e di lotta, che chiama il visitatore a una partecipazione insieme emotiva e razionale. Una sala ospita “Snake Bag” (Borsa Serpente), che vedete nella foto in alto: 360 zainetti scolastici, omologati nel loro identico bianco e nero, si assemblano in un serpentone. Il mostro invade una parete cristallizzando la memoria del terremoto del 2008 nel Sichuan, dove morirono 70.000 persone. Migliaia di studenti restarono sotto le macerie di scuole crollate a causa dei materiali scadenti con cui erano state costruite, e Ai Weiwei fu in prima linea nel denunciare le colpe del Governo. Nella sala ci sono le piccole bare contorte, sulle quali sono stati appoggiati frammenti deformati (e dipinti di bianco) di quei tondini di acciaio di scarsa qualità con cui le scuole erano state costruite. In un’altra sala ecco “Souvenir from Shangai”: c’è un parallelepipedo di venti tonnellate, costruito con i mattoni e i calcinacci dello studio che l’artista aveva costruito in un sobborgo della metropoli, e che le autorità locali distrussero. Le macerie del non-monumento inglobano un bellissimo telaio in legno, resto di un letto della dinastia Qing. A memoria di quell’episodio, in un angolo della sala, ci sono, ammucchiati per terra, 1500 granchi di porcellana (li vedete nella foto in basso). Ai Weiwei aveva organizzato una cena pubblica in loco (senza poter poi partecipare) quando era arrivato l’avviso di demolizione: arrivarono in 800 a mangiare quel crostaceo di fiume il cui nome in cinese coincide con la parola “armonia”. Palazzo Strozzi è stato invaso da Ai Weiwei, con una sorta di autobiografia artistica e umana. Con tante fotografie e la riproduzione di questa frase: “Per me, fare politica significa associare il proprio lavoro alle condizioni esistenziali di un più largo numero di persone, condizioni tanto mentali quanto fisiche. E cercare di usare il proprio lavoro per influire sulla situazione”.
La cultura del riconoscersi nell’altro
Un film, un concerto, una mostra: tre esempi, diversissimi tra loro, di quella che domenica scorsa ho definito una cultura non asservita al potere, unico antidoto alla “post-verità”. La menzogna presente nel web, nella tv, nei giornali non si combatte con censure o tribunali, ma solo con la cultura: una cultura che vuole capire e cambiare il mondo. Con l’impegno personale che diventa cammino con gli altri. Il neuroscienziato Lamberto Maffei racconta in “Elogio della ribellione” il suo incontro con il filosofo Paul Ricoeur: a un certo punto il filosofo gli disse che lui per capire se stesso si guardava allo specchio nell’altro. Il riconoscersi nell’altro, il diventare in un certo senso l’altro come un solo individuo, è una scelta rivoluzionaria, l’unica capace di cambiare il mondo. L’apertura incondizionata verso l’altro è la cultura di cui abbiamo bisogno. Se l’altro è come te stesso, come puoi non amarlo? E’ la stessa riflessione di don Lorenzo Milani in “Lettera a una professoressa”: “Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è politica. Sortirne da soli è avarizia”. L’immedesimarsi nell’altro per cercare tutti insieme di liberare, di autogovernare, di rendere degne le nostre vite: è quello che ho cercato di trasmettere e che soprattutto ho imparato nella mia esperienza africana. Negli africani c’è l’individualismo frutto dei nostri tempi, ma ci sono anche la spiritualità e la solidarietà comunitaria: valori che sono alle origini della civiltà africana, in cui il bene dell’individuo era funzione del bene della comunità, non il contrario. Ci accomunano i valori di fondo dell’umanesimo: capire se stessi, desiderare di conoscere gli altri, unire i propositi, formare un “cervello collettivo” che si muova per cambiare lo stato presente delle cose. Nel nome della consapevolezza che tutti gli uomini e la natura fanno parte del grande organismo della specie, che non può essere sano se una sua parte soffre e viene offesa. E’ questa la cultura che deve essere alla base della politica. E’ la cultura che permea la nostra Costituzione. Ma oggi la politica è senza cultura. E’ cinico pragmatismo, tecnica gestionale senza meta. La grande questione aperta è se saprà ritrovare o no un’anima, cioè una cultura.
Post scriptum
Dedico la rubrica di oggi al professor Gian Paolo Calchi Novati, scomparso nei giorni scorsi. Se in Italia è stato possibile conoscere l’Africa e il Medio Oriente, la loro storia e il loro drammatico presente negli ultimi cinquant’anni è stato in gran parte merito suo. Era un grande maestro, con cui ho collaborato in tante occasioni, fino all’ultimo: ha voluto scrivere la Prefazione al mio libro “Sao Tomé e Principe – Diario do centro do mundo”, un testo molto bello dal titolo “L’Africa chiama”. E lo ha fatto nonostante che la malattia lo stesse divorando. E’ il suo ultimo testo. Per me è un grande onore, gli sono davvero grato.
La terza e ultima parte di questo articolo uscirà domenica 8 gennaio.
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